giovedì 6 agosto 2015

F. CAMPEGIANI SU : "IL DIO CHE VEDE DA LONTANO" DI V. LOLLI

Franco Campegiani collaboratore di Lèucade


DA: "VITO LOLLI: "IL DIO CHE VEDE DA LONTANO"" 

Stupenda, come al solito, questa riflessione di Vito Lolli, che invita a meditare sull'origine misteriosa della poesia. "Non sono le parole a fare la poesia, ma è la poesia a fare le parole". Condivido totalmente questo assunto, come anche quello che le parole poetiche rivelano e celano al tempo stesso il mondo, in linea con quanto accade per ogni simbolo che inevitabilmente degenera in feticcio (ma è anche vero che dal feticcio si può risalire al simbolo, quando la mente si desta e riscopre le proprie sorgenti spirituali). Ha detto Aristotele che le forme catturano le sostanze, ma ciò, a mio parere, non è valido per il linguaggio creativo, dove esse si concedono e si ritraggono proprio al fine di stimolare la rigenerazione dello spirito. Potremmo dire che le sostanze balenano nelle svariate forme artistiche, senza trasferirvisi totalmente, per dare modo all'intelletto di sviluppare la facoltà di leggere tra le righe. Condivido per queste ragioni la generale tendenza della critica contemporanea a svalutare in arte il peso dei contenuti. Non perché l'arte sia vuota e priva di senso, come si può facilmente travisare, sopravvalutando l'importanza dei significanti a discapito dei significati, ma perché questi ultimi sono in realtà "in-contenibili" e rifiutano di essere "contenuti": sono, a rigore, dei "trattenuti". Apollo, rammenta Vito, è il dio che dona luce e si nasconde dietro quell'abbaglio; al contrario di Dioniso, che non riceve e non dona luce, ma che è luce egli stesso a se stesso, ed è una luce che divora se stessa. I due, dice Vito, convergono in un punto, quello della follia. E l'oracolarità è il carattere misterico della loro poesia. Resta da chiarire un punto, a parer mio: l'irruzione del divino nel mondo, attraverso i sentieri dell'arte e della poesia, è il segnale di una possessione di Esseri che bruciano la mente degli umani, o piuttosto il segno di una rinascita degli uomini nella loro verginità e nella loro più vera humanitas, nelle loro radici divine e nella loro essenza individuale? Vi prego di non considerare, questa, una contraddizione in termini, dal momento che ritengo l'universale il regno dello splendore delle essenze singole, anziché il regno dell'indistinzione come ritenuto in alcune tendenze ascetico-spirituali. C'è indubbiamente un che di tragico in ogni rinascita, se è vero che per rinascere occorre prima morire. Ma perché questo avvenga, occorre orientare con estrema determinazione la tragedia orfico-dionisiaca verso il mito odisseico ed omerico (ma in fondo anche eleusino) di una rinascita dalle proprie stesse ceneri. Altrimenti nulla risorge ed è la fine.

Franco Campegiani 

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