martedì 4 agosto 2015

VITO LOLLI: "IL DIO CHE VEDE DA LONTANO"


Vito Lolli collaboratore di Lèucade

Il dio che vede da lontano

Non sono le parole che fanno la poesia, ma è la Poesia a fare le parole. La Poesia le crea, le parole, e questo poiein, gesto archetipico del conoscere, è la creazione del volto del mondo nel creare le parole con cui le cose vengono e-vocate, chiamate fuori dal chaos. Il rapporto tra logos creatore e kosmos come ordine fatto di bellezza riflette questa originaria irruzione del linguaggio agli albori dell’esperienza conoscitiva.                                                                      Misteriosa, la dimensione del linguaggio: semantica e magico-evocativa, archetipica di forme e funzioni in relazione anche alla realtà e al potere del suono. Creativa, dunque, nel senso più autentico del termine.                            Ma questa realtà creata ed evocata dalla potenza della parola cela pur sempre l’enigma del rapporto con le cose: ciò che concede il darsi del linguaggio non è per ciò stesso ciò che, nel concedere una conoscenza fatta di parole, si nasconde e resta nascosto proprio in tale concedere? Cosa sta prima e dopo, e che resta fuori del linguaggio delle parole? E cosa resta del rimando decisivo di tale interrogativo a partire dalla tradizionale disputa “filosofica” tra onta e logoi? E dopo questa storia sappiamo se il linguaggio sia ancora evocativo o sia stato perduto in terra straniera?                                                                               Il darsi del linguaggio, e quindi il darsi della stessa sapienza in tutte le sue forme, non è forse la modalità dello stesso stare nascosto del dio che è altro dalla sapienza che dona, che cioè non si identifica con essa e che attraverso di essa non è conoscibile? Ciò che dà origine al linguaggio ne è dunque lontano? Forse è questo il luogo della alterità del divino che esperiamo come trascendenza, in cui il pensiero non è linguaggio?    
Originariamente la sapienza, la tracotanza del conoscere tutto esperita nella divinazione, è una concessione che ha nome Apollo: la citazione omerica della mantica di Calcante, “… che conosceva ciò che è e ciò che sarà e ciò che è stato prima…”, come dono di Febo Apollo in virtù del quale l’indovino guida le navi achee verso Troia, colloca la tradizione apollinea già delineata intorno al 1200 a.C. Antichissimo anche lui come Dioniso, in una forse insondabile ed indistinta origine.                                                     
Dioniso ha nella sapienza la cifra del suo essere, la tracotanza del conoscere è indicazione della sua natura: la sapienza è il suo stato, l’impossibilità realissima e lacerante che sta dentro di lui, non qualcosa che concede ad altri trasferendolo fuori di sé. Apollo invece la sapienza agli uomini, anzi a un uomo, ma lui se ne sta in disparte. Apollo è il dio che agisce da lontano, ma la sua sapienza non è quella che trasferisce fuori, perché lui possiede “l’occhiata che conosce ogni cosa” mentre la sapienza che concede è fatta di parole, ed è qualcosa che riguarda gli uomini. Apollo è visione, ma dà agli uomini le parole.                                 E’ la visione ciò che egli nasconde e tiene in sé e per sé, sostituendo il paradigma visivo con quello concettuale? Ed è forse questo l’enigma, nonché il limite, di una conoscenza filosofica che, pur definendo sé stessa “visione del mondo”, è stata, proprio a causa dell’essere centrata sulla parola, estranea all’esperienza della visione e quindi sua negazione?                                                                    La filosofia parolante non è che l’occultamento obliante del silenzio della visione e dell’immagine? Ma perché questo? Perché questo parallelo del paradigma visivo nell’esperienza primeva del conoscere?                                                                
La questione del rapporto di Apollo e Dioniso è stato un luogo classico della filologia: il comune riferimento alla sapienza è da un lato una profonda affinità, ma da un altro una netta antitesi, nel carattere e nel manifestarsi.  Il loro essere entrambi antichissimi induce a scorgere una convergenza che non è un incidente di sovrapposizione etnica e religiosa, un evento storico o una conciliazione, ma è radicata nella loro natura;     e un paio di frammenti del V secolo li identificano perfettamente con scambio di nomi e attributi: Dioniso, luogo di tutte le contraddizioni, è una cosa sola con Apollo, che è la sua contraddizione. Dioniso induce gli uomini alla follia ed è egli stesso folle; Apollo suscita la follia nel divinatore ma lui ne è lontano.                      
La mania è la mantica. Sta in rapporto con la sapienza, ne è un segnale, un annunzio. La baccante che diviene folle riceve in sé stessa Dioniso, il divinatore riceve da Apollo la parola che non comprende e che pronuncia “con bocca folle” (Eraclito), ma che sarà interpretata come sapienza. La mania è la sapienza vista dal di fuori, il suo primo mostrarsi, il primo apparire come visione, danza, contatto, suono percepito non ancora ascoltato.                                                           Ma una precisa contraddizione emerge anche in Apollo e si mostra nei suoi attributi dominanti, l’arco e la lira. Qui sta la doppiezza: la faccia benigna ed esaltante accanto a quella terribile e devastante. Da un lato l’arte, la musica suadente, l’apparenza gratificante e l’immagine di bellezza del sogno, l’illusorio; ma d’altro lato la faccia crudele, la sostanza profonda contrapposta a quell’illusorietà, l’arma omicida che da lontano scaglia la sua freccia. Ed ecco l’azione della musica, il suono di cui sono fatte le stesse parole, ad evidenziare la distanza dei due divini: la lira ammalia, seduce, soggioga, ammansisce belve, uomini e alberi, come si narra dell’apollineo Orfeo, ma il flauto di Dioniso è un richiamo minaccioso che suscita follia. Apollo uccide col volo di una freccia che fa sì che il dio resti staccato dalla sua vittima, mentre Dioniso uccide direttamente la sua preda, la sbrana e la divora facendola entrare dentro di sé. Apollo esercita una potenza, la fa sopraggiungere e presentire a chi ne è bersaglio; Dioniso invece si trasmette e si confonde col suo bersaglio.                         
L’azione culminante di Apollo, la fondamentale concessione della sapienza agli uomini, è la divinazione delfica. Anche questa è uno strumento della sua potenza. Il dono è anche una freccia. La celebre oscurità dell’oracolo pitico conferma che tale potenza è esercitata in modo indiretto e ostile. Il dio usa la parola, qualcosa che non appartiene alla sua sapienza, che è la visione totale; egli usa la parola come un intermediario – come la stessa freccia – per suscitare la sapienza nell’uomo. La sapienza di Apollo è l’occhiata, quella attraverso la parola è un’altra sapienza: la comunicazione è indiretta e serve un uomo, un individuo che possa venir travolto dalla mania del dio, un divinatore posseduto dalla cui bocca esce la parola divina che non comprende.        Dioniso è estraneo a qualsiasi individuazione, Apollo costringe la sua vittima all’individuazione. Ma questa follia individuale non è sufficiente per la comunicazione: ancora più oscura per chi non è folle, la parola dell’oracolo resta in attesa di un interprete, un altro individuo che la esamini, la confronti con altre parole e ne deduca altre ancora tessendo un discorso collegato, organico, illuminante. E questa è la nascita della ragione, il suo primo apparire in espressioni compresse, enigmatiche, ancora vicine alla matrice divina, ma che è già sapienza individuale. Ed è qui che si scatena il polemos interpretativo: ad un interprete se ne contrappone un altro ed un altro ancora, perché la sapienza individuale suscita invidia e conflitto competitivo. E’ questa la crudeltà di Apollo: chi nasce alla sapienza non ne gode ed è costretto in una sfida pericolosa.                              
Con l’estasi divinatoria inizia un lungo cammino accidentato, in cui la parola è la freccia che scatena un nuovo tipo di lotta tra gli individui creati proprio dall’interpretazione della parola (uno degli aspetti neuropsicologici  dell’individuazione è proprio l’assimilazione del linguaggio); e questo, forse, per tenere gli uomini lontano.   La creazione dell’individuo è lo stare lontano del dio. Apollo, attraverso la parola della sapienza, colpisce da lontano e colpisce lontano tenendoci lontano. Non sappiamo dov’è, da dove viene né dove va.             Il locus solus della freccia che stravolge la vita nel rappresentare astratto delle parole ci manda lontano dalle cose e, forse, da noi stessi, creando quell’illusione dell’identità individuale e individuata che è il nominare. Apollo allontana dalla visione colpendoci con le forme del pensare e del parlare. E’ lui dunque l’enigma del poetare che dal poetare resta lontano. La lontananza del divino induce il poetare le parole nelle parole ma lo stesso poetare nelle parole si risolve in quella lontananza: per questo il poetare, in quanto lontananza del divino, è per ciò stesso anche prossimità ad esso.                                                                                  

E’ in questo preciso luogo che il logos nasce, ma è in questo stesso luogo che esso continua ad avere la sua gestazione e il suo alimento misterioso; ed è il congedo dal grembo divino a lasciar smarrire il logos in quella situazione di oblìo che porterà Platone a coniare il termine philosophia per indicare il bisogno consapevole di ritrovare lo stato di coscienza di una saggezza antica perduta, e che porterà Aristotele all’incapacità di comprendere la portata intuitiva e divinante delle parole dei sapienti antichi e a stravolgerne il senso compiendo la deriva filosofica del tempo a venire. Il nostro tempo, la nostra deriva. E alla deriva si va quando non si possono più vedere i punti di riferimento che orientano: lo stesso vedere può diventare una parola che oblìa la funzione e dire di vedere quando in realtà si è ciechi perpetua una deriva che tesse vane parole. Crudele, Apollo, colui che tutto vede da lontano.      

1 commento:

  1. Stupenda, come al solito, questa riflessione di Vito Lolli, che invita a meditare sull'origine misteriosa della poesia. "Non sono le parole a fare la poesia, ma è la poesia a fare le parole". Condivido totalmente questo assunto, come anche quello che le parole poetiche rivelano e celano al tempo stesso il mondo, in linea con quanto accade per ogni simbolo che inevitabilmente degenera in feticcio (ma è anche vero che dal feticcio si può risalire al simbolo, quando la mente si desta e riscopre le proprie sorgenti spirituali). Ha detto Aristotele che le forme catturano le sostanze, ma ciò, a mio parere, non è valido per il linguaggio creativo, dove esse si concedono e si ritraggono proprio al fine di stimolare la rigenerazione dello spirito. Potremmo dire che le sostanze balenano nelle svariate forme artistiche, senza trasferirvisi totalmente, per dare modo all'intelletto di sviluppare la facoltà di leggere tra le righe. Condivido per queste ragioni la generale tendenza della critica contemporanea a svalutare in arte il peso dei contenuti. Non perché l'arte sia vuota e priva di senso, come si può facilmente travisare, sopravvalutando l'importanza dei significanti a discapito dei significati, ma perché questi ultimi sono in realtà "in-contenibili" e rifiutano di essere "contenuti": sono, a rigore, dei "trattenuti". Apollo, rammenta Vito, è il dio che dona luce e si nasconde dietro quell'abbaglio; al contrario di Dioniso, che non riceve e non dona luce, ma che è luce egli stesso a se stesso, ed è una luce che divora se stessa. I due, dice Vito, convergono in un punto, quello della follia. E l'oracolarità è il carattere misterico della loro poesia. Resta da chiarire un punto, a parer mio: l'irruzione del divino nel mondo, attraverso i sentieri dell'arte e della poesia, è il segnale di una possessione di Esseri che bruciano la mente degli umani, o piuttosto il segno di una rinascita degli uomini nella loro verginità e nella loro più vera humanitas, nelle loro radici divine e nella loro essenza individuale? Vi prego di non considerare, questa, una contraddizione in termini, dal momento che ritengo l'universale il regno dello splendore delle essenze singole, anziché il regno dell'indistinzione come ritenuto in alcune tendenze ascetico-spirituali. C'è indubbiamente un che di tragico in ogni rinascita, se è vero che per rinascere occorre prima morire. Ma perché questo avvenga, occorre orientare con estrema determinazione la tragedia orfico-dionisiaca verso il mito odisseico ed omerico (ma in fondo anche eleusino) di una rinascita dalle proprie stesse ceneri. Altrimenti nulla risorge ed è la fine.

    Franco Campegiani

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