Naif: la poesia di
Enzo Concardi,
ovvero oltre l’orizzonte
di attesa
Recensione
di Mario Santoro
La poesia di Enzo Concardi spazia
in lungo e in largo e tende sempre a superare l’orizzonte di attesa, con scavalcamenti
morbidi e sfondamenti decisi, ricorrendo a un linguaggio poetico compatto,
robusto, controllato e tale da mantenere costantemente un vivo senso di genuinità,
di franchezza comunicativa, di immediatezza ponderata, di allusioni primigenie,
di rimandi molteplici e intelligenti, da cogliersi, talora, per segni minimali,
come indica il titolo della raccolta, “Naif”, che si comprende appieno in una
visione di originalità.
L’autore si muove con
sicurezza, senza spavalderia, evidenziando compiutezza di pensiero e ricchezza
di riferimenti che non sorprendono affatto chi lo conosce per averlo letto e
ripensato, e mantiene sempre sotto controllo la tensione emotiva che alimenta i
versi.
Si tratta di comunicazione
diretta e immediata pur nella ricchezza e varietà tematico-contenutistica che
consente il fluire tranquillo, libero e al tempo stesso pensoso, delle emozioni
e dei sentimenti che traboccano e si appoggiano sovente a numerose ed appropriate
aggettivazioni specifiche; sono espressi con assoluta padronanza ed eleganza e
senza attardamenti di maniera anche quando l’autore sembra concedersi qualche
indulgenza.
Va da sé che siamo dinanzi ad
un poeta maturo che sa coniugare situazioni diverse e fenomeni particolari, valorizzando
al meglio anche gli elementi più semplici ed ordinari aggrumandoli in corpose
immagini e talora frangendoli, senza ricorrere allo sminuzzamento o alla
polverizzazione e dando sempre valore alla parola.
Ci si trova in presenza di situazioni
diversificate con continui rimandi capaci di allusioni, di dilatazioni, di
lievissime implosioni prima dell’esplosione coi frammenti a disporsi su lontananze
fisico-spirituali e spazio-temporali in un alternarsi di sincronie intense e di
diacronie sfumanti.
Il campo di indagine è praticamente
sterminato e proposto in maniera equilibrata e sempre calibrata perché
Concardi, senza darlo a vedere, è sempre attento e non si lascia sfuggire
nulla, né cede mai a tentazioni autolesionistiche, sicché ogni cosa, come ogni
attimo e ogni palpito, sembra animarsi e dunque prendere e ri-prendere vita e
genera, con piena consapevolezza, situazioni, sovente contrastive ma senza un
vero e proprio scontro, quasi per immediatezza di rimando, e tali da investire
tutto il mondo circostante con atmosfere particolari, dolcezze interiori, veli
sottilissimi di malinconie sopportabili per non dire addirittura gradevoli, e
sottili giuochi di alternanze contrapposte.
Ed è naturale che alla luce,
più o meno intensa, si frapponga il buio, che è fisico e spirituale al tempo
stesso, al caldo, anche qui nella doppia versione, si opponga il freddo nelle
sue varietà possibili, all’amore faccia da contraltare l’odio, alle illusioni,
sovente, seguano le delusioni e così via in un procedimento a raggiera o meglio
elicoidale e quindi senza possibilità di chiusura, con mutamenti, anche rapidi,
di situazioni, e in una sorta di viaggio, anche e soprattutto dell’anima, che
non ha fine. Mi pare, perciò dica bene, il poeta e critico Pardini nella
prefazione al volume: “Un viaggio, un odeporico sentiero, verso le spiagge dell’anima
alla scoperta di se stesso, del suo travagliato esistenziale, delle questioni
del vivere e del morire: un viaggio verso un faro che illumina le ragioni dell’essere”.
Viaggio senza posa, breve o lungo
che sia, che è anche un andare incontro alla conoscenza o magari un “vuo’ bere
la vita fino alla feccia” secondo la dichiarazione tennysoniana.
Tutto il percorso poetico di
Concardi sembra ruotare intorno alla problematicità dell’esistenza con le significanze
implicite e le relative misteriosità ed è, per così dire, in linea con il cosiddetto
“male di vivere”, tipico del secolo scorso. Del resto egli stesso lo dichiara
apertamente e senza infingimenti nella poesia “Foglie ingiallite”:
Il male di vivere è un incubo
che chiama forte
deboli anime possedute dal
vuoto.
Dunque la sofferenza dell’esistenza
e la fatica enorme, cui l’uomo è sottoposto, incombono nell’indiretto richiamo
alla “pena” montaliana e alla straordinaria invenzione, per sopravvivere, del “mestiere”
pavesiano, sicché ovunque si avverte - e il poeta lo annota e lo ribadisce
spesso - una sorta di disordine, fisico e spirituale, di confusione, se non
babelica quasi, con il trionfo degli egoismi, delle chiusure, delle solitudini
striscianti, di un senso di estraneità, col rischio per l’uomo, più o meno imminente,
di cozzare contro l’indifferenza, quasi novello invalicabile muro montaliano, e
di perire irrimediabilmente, privo com’è di valori.
Il senso della solitudine
sembra dominare ed è affidato, con descrizioni mirabili, alle cose concrete,
per certi aspetti sulla linea della compianta Antonia Pozzi, alle erte
sassose con l’aglio orsino, agli aromi che sanno di antico e di perduto, a
qualche effluvio leggero, a taluni sentori ma anche a certi fiori che emanano
acri e forti incensi in un’atmosfera pensosa, strana, carica di malinconia
e, a volte, finanche di un velato rimpianto.
In altre circostanze, e quasi
come forma di difesa dal contesto sociale, il poeta preferisce abbandonarsi all’onda
dei ricordi, al polveroso sentiero tortuoso tra forre, foreste e magari qualche
radura richiamando la dolce perduta infanzia, tutta protesa alla ricerca di
infiniti orizzonti.
Altre volte sono certe ombre a
ingrigire le situazioni e a incupirle nei crepuscoli cittadini deprivati anche
del chiarore della luna assente con i vicoli che perdono i contorni e
sprofondano nel buio e col silenzio cupo intorno, rotto a tratti dallo sferragliare
rumoroso dei tram semivuoti.
E sono i marciapiedi freddi e
le strade deserte, quasi “luride strade” pavesiane dove “non passa nessuno”,
con alle fermate dei tram persone anonime e chiuse nel silenzio che non
consente una battuta di dialogo, una forma, sia pure vaga, di comunicazione e,
meno che mai, una minima confidenza, a dare una triste e desolante sensazione
di vuoto, di abbandono, di desertificazione dell’anima, né serve, in alcun
modo, l’illusione vaga di possibili tavolini di caffè letterario, non dico a vivacizzare
ma a rendere meno pesante l’atmosfera.
A completare il quadro compaiono
“Borghi di pietra”, che il poeta ama visitare, quasi un percorso dell’anima
verso l’infanzia-fanciullezza, tutta protesa verso il futuro e alla scoperta
dei misteri dell’esistenza:
Sovente transito in remoti borghi di pietra
oltre forre alpestri selvagge e strette
gole
dove il mio passo cadenzato sa d’infinito...
Si calma lo stato d’animo inquieto,
in una condizione di pace pressoché assoluta, e l’autore può spingersi a recuperare
speranze e dolcezze nel rimando a segni lontanissimi ed appaganti come le
tasche piene di innocenti lucciole nelle sere estive:
Nel cammino
infaticabile ho tasche piene di lucciole
cerco crinali di speranza, vette d’umiltà
ed accarezzo stelle alpine tenaci tra
rocce.
E mi chiedo se la mia essenza è rimasta
intatta
in queste
aride stagioni sgozzate da contaminazioni.
E con i borghi di pietra compaiono
le “Strade spettinate” a causa del vento che spazza via le cose:
Il vento strapazza pezzi di carta straccia
lungo strade spettinate e vuoti arrugginiti
barattoli sbilenchi rotolano sul selciato.
E ci sono ancora “Silenti fiumare”
e sempre echi ritornanti di tram traballanti e finanche naif con la leggerezza
pensosa del rimando al titolo del volume che si apre con la poesia “Barattoli
randagi” che rimanda, nell’immediatezza, a una sorta di abbandono, di naufragio
e di sperdimento ed è costruita su cinque strofe con alternanza delle quartine
e delle terzine. La poesia presenta immagini che potrebbero essere considerate
a sé stanti ed efficacemente realizzate in una versificazione a disposizione
orizzontale, non solo lontana dalla modalità frammentata e da certa tendenza alla
verticalizzazione, dal tecnicismo del rotolamento e della frantumazione, ma
addirittura fortemente compatta, a tratti tetragona, con chiara vicinanza alla
forma prosaica eppure ariosa e visionaria, godibile e con efficaci puntualizzazioni.
Vale per i volti di donne
tinte che hanno il potere di ravvivare muri di calce bianca; vale
per i navigli, in altra situazione, apparentemente lontana, con i vuoti barattoli
sospinti dal vento ed erranti e, contrastivamente, senza rumore a far quasi il
paio con vetrate di osterie desolate e con le chiuse chiese a croce
greca in una sorta di più generale frantumazione non definitiva e finanche
di granitiche scalinate malgrado le accanite bandiere di speranza che,
tuttavia, persistono nei nostri cervelli.
Ci sono espressioni efficaci, accoppiamenti
felici di termini, sovente situazioni rese al meglio dal ricorso a numerose
figure retoriche, metafore ricorrenti, similitudini, figure di suono, iterazioni,
iperbati e tanto altro ancora. Su tutte val la pena ricordare con le chiuse
chiese non solo la ricorrente allitterazione nel gioco anche delle parole
che seguono ma, contemporaneamente, la presenza del chiaro omoteleuto o omeoteleuto
che dir si voglia, presente anche altrove.
Ma qui val la pena riportare
solo qualche riferimento: rattrappite anime solitarie; boschi muscosi; forre
rocciose; cupe foreste; sacri turiboli; alcove mondane; farfalle vellutate;
ragnatele imperlate; triangoli di sole; espressioni nevrotiche, dimore cittadine,
uffici robotizzati, aie agresti, ripostigli della mente, fiumare amare.
Ovviamente si tratta solo di
una piccola campionatura del fiorito linguaggio di Concardi e del suo mondo poetico
tra sogno e realtà, tra vaghezza e precisione, tra lontananze
fisico-spirituali, che sembrano perdersi o evaporare del tutto o quasi e
vicinanze concrete e sulla linea della desolazione che non genera disperazione,
sempre nell’alternanza tra buio e luce, tra costiere selvagge, solitudini
individuali che pesano sul cuore e qualche sottile richiamo ovattato.
Il gioco dei rimandi è condotto
intelligentemente così come il ricorso ripetuto e insistito al presente e al
passato. Quest’ultimo riporta ammorbiditi e aggrumati ricordi a cascata con
situazioni consegnate al dettaglio e al particolare: passi vaghi, pietre solitarie
su erte sconnesse, quasi triboli pascoliani, fiori straordinari come il mirto,
magari sulla linea del divino nella suggestione d’annunziana, cisti col prevalere
del bianco candido contro foglie di color verde brillante con le tante possibili
allusioni nella contezza della brevità dell’esistenza degli stessi, corbezzoli,
coi fiori a grappoli, bianchi e i ritardati frutti rossi, e un più generale,
sottinteso ma neppure poi tanto, intreccio di colori e di profumi che rendono
le attese trepide e i liberi voli senza fine.
L’eleganza del linguaggio
risulta evidente nella costruzione dei versi che, tranne qualche rarissima eccezione,
risultano lunghi come a suggerire la meditazione e denotano le capacità
tecniche e stilistiche dell’autore non disgiunte dall’enorme varietà dei riferimenti
e dal continuo rimando al contesto sociale contemporaneo, fortemente in crisi
di valori e mancante del tutto di prospettive future con il relativo
smarrimento dell’uomo al quale viene suggerita ed offerta, con delicatezza estrema,
una sorta di ancora di salvezza nella fede.
Di qui anche il proposito di
non cedere alla resa e di rifugiarsi, non passivamente, nell’illusione, nel sogno,
nella speranza, grazie, anche e forse soprattutto, alla fiducia proprio in una
forza superiore.
E intanto, quasi una forma di lenimento
alle ferite, emerge la disponibilità al ripiegamento nel passato con ricordi
che addolciscono e inteneriscono anche se il poeta li sfiora soltanto e li
affida al lettore che abbia voglia di attardarsi e di lasciarsi andare.
Vale per il richiamo alle caffettiere
sfiatate, quelle vecchie e in disuso da tempo che si imponevano per il loro
borbottìo allegro e invitante, col rituale delle tazzine di porcellana,
riempite di fumante caffè da sorseggiare insieme, con chiacchiere leggere,
riflessioni minime e qualche ipotesi di futuro possibile.
Anche il poeta cede alla
necessità di ritrovarsi sovente a meditare sul significato inesplicabile dell’esistenza,
nell’analisi rapida di fatti che accadono, di situazioni che si verificano e,
inevitabilmente, con il rimando alla bellezza della fanciullezza spensierata e
al più impegnativo passaggio all’età adulta, consegnato idealmente allo
scrittore Vittorini e al rimando al romanzo “Uomini e no” e ancora con il richiamo
ad altri percorsi successivi e con riferimento alla condizione ultima che
permette di poter guardare indietro, con distacco e dolcezza e soprattutto
senza asperità, godendo le piccole grandi cose e commuovendosi ancora al suono
delle campane.
Tenero è il rimando alla
stagione annuale, quando le vigne sono del tutto spoglie dei frutti succosi e cominciano
a scendere presto le caligini e magari anche qualche pioggia
furibonda o torrenziale nel rimando cardarelliano con il carico di malinconie,
alleggerite dalle bancarelle ricche di mandarini dai colori accesi e in contrasto
col grigio intorno e dai profumi di buoni che preannunciano il Natale:
Finita ogni recita tutti sciamano lesti
e diradano verso case di anonimi quartieri,
spenta l’allegria di bancarelle festose
scende oblio su ignoti destini.
E sempre alla stagione autunnale,
al suo inizio, si richiama la poesia “Tempo zingaro” con ancora rumorosi i vivaci
cortili e gli scapigliati giostrai facce di zingaro mentre soffiano
i primi venti freschi che tuttavia consentono ancora qualche scampolo di godimento
all’aperto, magari per fumare pipe al chiaro di luna.
Altrove il poeta si aggira tra
luoghi dimenticati e sotterranei, tra cunicoli e labirintiche situazioni che rimandano
civiltà sepolte e restano come protetti e avvolti in atmosfere di sogno e di leggenda.
E intenerisce il ponte sulla
ferrovia con i treni che un tempo erano in transito coi convogli lunghi e
strapieni di persone o meglio di anime, con enormi bagagli fisici e spirituali
nei pungenti ricordi infantili e in contrasto con la realtà presente nella
quale nessuno più sembra accorgersi di nulla e il treno torna a farsi cavaliere
romantico o mostro di ferro con una sorta di vaghezza di richiamo al
carducciano “gran terribile mostro”.
E il percorso continua coi rimandi
ai “cantieri di periferia” di un tempo e il girovagare continuo di un fanciullo
nei lunghi meriggi estivi sempre alla ricerca di tesori minimi o
insignificanti, ma anche con la rievocazione fantasiosa del mare di Giannutri,
dei fantastici velieri, dei violenti pirati barbareschi, di figure strane e magiche
ad un tempo, di favolose impossibili avventure, di perigliosi naufragi presso
isole esotiche, di sorprendenti messaggi da affidare ad ermetiche bottiglie e
infine con la riproposizione, per memoria, di oggetti di un tempo passato,
quasi le “buone cose di pessimo gusto” di cui parla Gozzano, come la “vecchia
radio” o certi “chiodi ritorti” o ancora il “caffè al centro” o, infine, certi “segreti
d’anima”:
Sorsero dormitori e formicai ai margini
d’urbe tentacolari, isolati luoghi popolari.
Allora estati povere e secche avvampavano:
sotto un sole a picco implacabile e martellante
il nostro tempo era sacro e profano e
d’attesa.
Allora duri inverni e nebbiosi imperversavano:
nostra vita rinserrata in corti perimetri.
Pure impiacevolisce il rimando
alla pittura naif di Ligabue con l’iterazione insistita dell’aggettivo dimostrativo
della lontananza, nella triplicità dell’indicazione (quei, quegli, quelle)
posto, volutamente, all’inizio di ogni strofa:
Quei quadri sgargianti, infuocati,
pieni di vita istintiva e terrestre
sono opere di Ligabue, vissuto ai margini
per ostinata balordaggine degli umani.
Anche altrove, ma non spesso, il
poeta si concede alla iterazione come in “Volti d’oblio” con il termine “volti”
a ripetersi ossessivamente, pur nelle attribuzioni diverse e seguito dal “chissà”
che suona problematico più che dubitante ed implica un sottile senso di colpa. E
non vanno ignorati i numerosi richiami al tempo con suo inarrestabile scorrere
indifferente e sempre col rimando alla giovinezza prima, nella spensieratezza e
nella gioia:
Un cortile e palazzi a ringhiera:
vecchia Milano dove studente
stavo sui libri per qualche ora.
E il rimando al passato, in
altra occasione, è generato, come d’improvviso, da un pendolo a muro che scandisce
il tempo che avanza nel futuro, ma non impedisce alla mente regressioni vicine
e lontane:
E s’affollano alla memoria lontani giorni
in aule scolastiche grigie e severe
luoghi del passato ch’erano un mondo,
il nostro piccolo cosmo naif.
Nel passato non è la resa ma la
piacevolezza e il calore delle belle cose lontane da rivivere gradevolmente con
la magia che sanno creare intorno:
Sogno marciapiedi di questo mondo
ove luci lunari accarezzino
teneramente il volto del dolore.
Ho vissuto a lungo tra genti ossute
tenute in piedi dall’ostinazione del
vivere
abbarbicate all’istinto di sopravvivenza.
E ancora col sogno e con il richiamo
alla stagione d’oro, che è l’infanzia, ci piace chiudere:
Spesso il
mio passato sembra un sogno della mente.
Rivivo la corte dell’infanzia, mito domestico
resistito
ai sussulti di questa vita stupefacente.
I giorni parevano disegnati con lapis colorati
le favole storie quotidiane dei campi
i giochi imprese eroiche di prodi
guerrieri.
E il poeta resta, in qualche modo,
prode guerriero.
Mario
Santoro
Enzo
Concardi. NAIF
Guido
Miano Editore, 2019
mianoposta@gmail.com
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