giovedì 12 marzo 2020

MARIO SANTORO LEGGE: "NAIF" DI ENZO CONCARDI, GUIDO MIANO EDITORE




Naif: la poesia di Enzo Concardi,
ovvero oltre l’orizzonte di attesa
Recensione di Mario Santoro


La poesia di Enzo Concardi spazia in lungo e in largo e tende sempre a superare l’orizzonte di attesa, con scavalcamenti morbidi e sfondamenti decisi, ricorrendo a un linguaggio poetico compatto, robusto, controllato e tale da mantenere costantemente un vivo senso di genuinità, di franchezza comunicativa, di immediatezza ponderata, di allusioni primigenie, di rimandi molteplici e intelligenti, da cogliersi, talora, per segni minimali, come indica il titolo della raccolta, “Naif”, che si comprende appieno in una visione di originalità.
L’autore si muove con sicurezza, senza spavalderia, evidenziando compiutezza di pensiero e ricchezza di riferimenti che non sorprendono affatto chi lo conosce per averlo letto e ripensato, e mantiene sempre sotto controllo la tensione emotiva che alimenta i versi.
Si tratta di comunicazione diretta e immediata pur nella ricchezza e varietà tematico-contenutistica che consente il fluire tranquillo, libero e al tempo stesso pensoso, delle emozioni e dei sentimenti che traboccano e si appoggiano sovente a numerose ed appropriate aggettivazioni specifiche; sono espressi con assoluta padronanza ed eleganza e senza attardamenti di maniera anche quando l’autore sembra concedersi qualche indulgenza.
Va da sé che siamo dinanzi ad un poeta maturo che sa coniugare situazioni diverse e fenomeni particolari, valorizzando al meglio anche gli elementi più semplici ed ordinari aggrumandoli in corpose immagini e talora frangendoli, senza ricorrere allo sminuzzamento o alla polverizzazione e dando sempre valore alla parola.
Ci si trova in presenza di situazioni diversificate con continui rimandi capaci di allusioni, di dilatazioni, di lievissime implosioni prima dell’esplosione coi frammenti a disporsi su lontananze fisico-spirituali e spazio-temporali in un alternarsi di sincronie intense e di diacronie sfumanti.
Il campo di indagine è praticamente sterminato e proposto in maniera equilibrata e sempre calibrata perché Concardi, senza darlo a vedere, è sempre attento e non si lascia sfuggire nulla, né cede mai a tentazioni autolesionistiche, sicché ogni cosa, come ogni attimo e ogni palpito, sembra animarsi e dunque prendere e ri-prendere vita e genera, con piena consapevolezza, situazioni, sovente contrastive ma senza un vero e proprio scontro, quasi per immediatezza di rimando, e tali da investire tutto il mondo circostante con atmosfere particolari, dolcezze interiori, veli sottilissimi di malinconie sopportabili per non dire addirittura gradevoli, e sottili giuochi di alternanze contrapposte.
Ed è naturale che alla luce, più o meno intensa, si frapponga il buio, che è fisico e spirituale al tempo stesso, al caldo, anche qui nella doppia versione, si opponga il freddo nelle sue varietà possibili, all’amore faccia da contraltare l’odio, alle illusioni, sovente, seguano le delusioni e così via in un procedimento a raggiera o meglio elicoidale e quindi senza possibilità di chiusura, con mutamenti, anche rapidi, di situazioni, e in una sorta di viaggio, anche e soprattutto dell’anima, che non ha fine. Mi pare, perciò dica bene, il poeta e critico Pardini nella prefazione al volume: “Un viaggio, un odeporico sentiero, verso le spiagge dell’anima alla scoperta di se stesso, del suo travagliato esistenziale, delle questioni del vivere e del morire: un viaggio verso un faro che illumina le ragioni dell’essere”.
Viaggio senza posa, breve o lungo che sia, che è anche un andare incontro alla conoscenza o magari un “vuo’ bere la vita fino alla feccia” secondo la dichiarazione tennysoniana.
Tutto il percorso poetico di Concardi sembra ruotare intorno alla problematicità dell’esistenza con le significanze implicite e le relative misteriosità ed è, per così dire, in linea con il cosiddetto “male di vivere”, tipico del secolo scorso. Del resto egli stesso lo dichiara apertamente e senza infingimenti nella poesia “Foglie ingiallite”:

Il male di vivere è un incubo che chiama forte
deboli anime possedute dal vuoto.

Dunque la sofferenza dell’esistenza e la fatica enorme, cui l’uomo è sottoposto, incombono nell’indiretto richiamo alla “pena” montaliana e alla straordinaria invenzione, per sopravvivere, del “mestiere” pavesiano, sicché ovunque si avverte - e il poeta lo annota e lo ribadisce spesso - una sorta di disordine, fisico e spirituale, di confusione, se non babelica quasi, con il trionfo degli egoismi, delle chiusure, delle solitudini striscianti, di un senso di estraneità, col rischio per l’uomo, più o meno imminente, di cozzare contro l’indifferenza, quasi novello invalicabile muro montaliano, e di perire irrimediabilmente, privo com’è di valori.
Il senso della solitudine sembra dominare ed è affidato, con descrizioni mirabili, alle cose concrete, per certi aspetti sulla linea della compianta Antonia Pozzi, alle erte sassose con l’aglio orsino, agli aromi che sanno di antico e di perduto, a qualche effluvio leggero, a taluni sentori ma anche a certi fiori che emanano acri e forti incensi in un’atmosfera pensosa, strana, carica di malinconia e, a volte, finanche di un velato rimpianto.
In altre circostanze, e quasi come forma di difesa dal contesto sociale, il poeta preferisce abbandonarsi all’onda dei ricordi, al polveroso sentiero tortuoso tra forre, foreste e magari qualche radura richiamando la dolce perduta infanzia, tutta protesa alla ricerca di infiniti orizzonti.
Altre volte sono certe ombre a ingrigire le situazioni e a incupirle nei crepuscoli cittadini deprivati anche del chiarore della luna assente con i vicoli che perdono i contorni e sprofondano nel buio e col silenzio cupo intorno, rotto a tratti dallo sferragliare rumoroso dei tram semivuoti.
E sono i marciapiedi freddi e le strade deserte, quasi “luride strade” pavesiane dove “non passa nessuno”, con alle fermate dei tram persone anonime e chiuse nel silenzio che non consente una battuta di dialogo, una forma, sia pure vaga, di comunicazione e, meno che mai, una minima confidenza, a dare una triste e desolante sensazione di vuoto, di abbandono, di desertificazione dell’anima, né serve, in alcun modo, l’illusione vaga di possibili tavolini di caffè letterario, non dico a vivacizzare ma a rendere meno pesante l’atmosfera.
A completare il quadro compaiono “Borghi di pietra”, che il poeta ama visitare, quasi un percorso dell’anima verso l’infanzia-fanciullezza, tutta protesa verso il futuro e alla scoperta dei misteri dell’esistenza:

Sovente transito in remoti borghi di pietra
oltre forre alpestri selvagge e strette gole
dove il mio passo cadenzato sa d’infinito...

Si calma lo stato d’animo inquieto, in una condizione di pace pressoché assoluta, e l’autore può spingersi a recuperare speranze e dolcezze nel rimando a segni lontanissimi ed appaganti come le tasche piene di innocenti lucciole nelle sere estive:

Nel cammino infaticabile ho tasche piene di lucciole
cerco crinali di speranza, vette d’umiltà
ed accarezzo stelle alpine tenaci tra rocce.
E mi chiedo se la mia essenza è rimasta intatta
in queste aride stagioni sgozzate da contaminazioni.

E con i borghi di pietra compaiono le “Strade spettinate” a causa del vento che spazza via le cose:

Il vento strapazza pezzi di carta straccia
lungo strade spettinate e vuoti arrugginiti
barattoli sbilenchi rotolano sul selciato.

E ci sono ancora “Silenti fiumare” e sempre echi ritornanti di tram traballanti e finanche naif con la leggerezza pensosa del rimando al titolo del volume che si apre con la poesia “Barattoli randagi” che rimanda, nell’immediatezza, a una sorta di abbandono, di naufragio e di sperdimento ed è costruita su cinque strofe con alternanza delle quartine e delle terzine. La poesia presenta immagini che potrebbero essere considerate a sé stanti ed efficacemente realizzate in una versificazione a disposizione orizzontale, non solo lontana dalla modalità frammentata e da certa tendenza alla verticalizzazione, dal tecnicismo del rotolamento e della frantumazione, ma addirittura fortemente compatta, a tratti tetragona, con chiara vicinanza alla forma prosaica eppure ariosa e visionaria, godibile e con efficaci puntualizzazioni.
Vale per i volti di donne tinte che hanno il potere di ravvivare muri di calce bianca; vale per i navigli, in altra situazione, apparentemente lontana, con i vuoti barattoli sospinti dal vento ed erranti e, contrastivamente, senza rumore a far quasi il paio con vetrate di osterie desolate e con le chiuse chiese a croce greca in una sorta di più generale frantumazione non definitiva e finanche di granitiche scalinate malgrado le accanite bandiere di speranza che, tuttavia, persistono nei nostri cervelli.
Ci sono espressioni efficaci, accoppiamenti felici di termini, sovente situazioni rese al meglio dal ricorso a numerose figure retoriche, metafore ricorrenti, similitudini, figure di suono, iterazioni, iperbati e tanto altro ancora. Su tutte val la pena ricordare con le chiuse chiese non solo la ricorrente allitterazione nel gioco anche delle parole che seguono ma, contemporaneamente, la presenza del chiaro omoteleuto o omeoteleuto che dir si voglia, presente anche altrove.
Ma qui val la pena riportare solo qualche riferimento: rattrappite anime solitarie; boschi muscosi; forre rocciose; cupe foreste; sacri turiboli; alcove mondane; farfalle vellutate; ragnatele imperlate; triangoli di sole; espressioni nevrotiche, dimore cittadine, uffici robotizzati, aie agresti, ripostigli della mente, fiumare amare.

Ovviamente si tratta solo di una piccola campionatura del fiorito linguaggio di Concardi e del suo mondo poetico tra sogno e realtà, tra vaghezza e precisione, tra lontananze fisico-spirituali, che sembrano perdersi o evaporare del tutto o quasi e vicinanze concrete e sulla linea della desolazione che non genera disperazione, sempre nell’alternanza tra buio e luce, tra costiere selvagge, solitudini individuali che pesano sul cuore e qualche sottile richiamo ovattato.
Il gioco dei rimandi è condotto intelligentemente così come il ricorso ripetuto e insistito al presente e al passato. Quest’ultimo riporta ammorbiditi e aggrumati ricordi a cascata con situazioni consegnate al dettaglio e al particolare: passi vaghi, pietre solitarie su erte sconnesse, quasi triboli pascoliani, fiori straordinari come il mirto, magari sulla linea del divino nella suggestione d’annunziana, cisti col prevalere del bianco candido contro foglie di color verde brillante con le tante possibili allusioni nella contezza della brevità dell’esistenza degli stessi, corbezzoli, coi fiori a grappoli, bianchi e i ritardati frutti rossi, e un più generale, sottinteso ma neppure poi tanto, intreccio di colori e di profumi che rendono le attese trepide e i liberi voli senza fine.
L’eleganza del linguaggio risulta evidente nella costruzione dei versi che, tranne qualche rarissima eccezione, risultano lunghi come a suggerire la meditazione e denotano le capacità tecniche e stilistiche dell’autore non disgiunte dall’enorme varietà dei riferimenti e dal continuo rimando al contesto sociale contemporaneo, fortemente in crisi di valori e mancante del tutto di prospettive future con il relativo smarrimento dell’uomo al quale viene suggerita ed offerta, con delicatezza estrema, una sorta di ancora di salvezza nella fede.
Di qui anche il proposito di non cedere alla resa e di rifugiarsi, non passivamente, nell’illusione, nel sogno, nella speranza, grazie, anche e forse soprattutto, alla fiducia proprio in una forza superiore.
E intanto, quasi una forma di lenimento alle ferite, emerge la disponibilità al ripiegamento nel passato con ricordi che addolciscono e inteneriscono anche se il poeta li sfiora soltanto e li affida al lettore che abbia voglia di attardarsi e di lasciarsi andare.
Vale per il richiamo alle caffettiere sfiatate, quelle vecchie e in disuso da tempo che si imponevano per il loro borbottìo allegro e invitante, col rituale delle tazzine di porcellana, riempite di fumante caffè da sorseggiare insieme, con chiacchiere leggere, riflessioni minime e qualche ipotesi di futuro possibile.
Anche il poeta cede alla necessità di ritrovarsi sovente a meditare sul significato inesplicabile dell’esistenza, nell’analisi rapida di fatti che accadono, di situazioni che si verificano e, inevitabilmente, con il rimando alla bellezza della fanciullezza spensierata e al più impegnativo passaggio all’età adulta, consegnato idealmente allo scrittore Vittorini e al rimando al romanzo “Uomini e no” e ancora con il richiamo ad altri percorsi successivi e con riferimento alla condizione ultima che permette di poter guardare indietro, con distacco e dolcezza e soprattutto senza asperità, godendo le piccole grandi cose e commuovendosi ancora al suono delle campane.
Tenero è il rimando alla stagione annuale, quando le vigne sono del tutto spoglie dei frutti succosi e cominciano a scendere presto le caligini e magari anche qualche pioggia furibonda o torrenziale nel rimando cardarelliano con il carico di malinconie, alleggerite dalle bancarelle ricche di mandarini dai colori accesi e in contrasto col grigio intorno e dai profumi di buoni che preannunciano il Natale:

Finita ogni recita tutti sciamano lesti
e diradano verso case di anonimi quartieri,
spenta l’allegria di bancarelle festose
scende oblio su ignoti destini.

E sempre alla stagione autunnale, al suo inizio, si richiama la poesia “Tempo zingaro” con ancora rumorosi i vivaci cortili e gli scapigliati giostrai facce di zingaro mentre soffiano i primi venti freschi che tuttavia consentono ancora qualche scampolo di godimento all’aperto, magari per fumare pipe al chiaro di luna.
Altrove il poeta si aggira tra luoghi dimenticati e sotterranei, tra cunicoli e labirintiche situazioni che rimandano civiltà sepolte e restano come protetti e avvolti in atmosfere di sogno e di leggenda.
E intenerisce il ponte sulla ferrovia con i treni che un tempo erano in transito coi convogli lunghi e strapieni di persone o meglio di anime, con enormi bagagli fisici e spirituali nei pungenti ricordi infantili e in contrasto con la realtà presente nella quale nessuno più sembra accorgersi di nulla e il treno torna a farsi cavaliere romantico o mostro di ferro con una sorta di vaghezza di richiamo al carducciano “gran terribile mostro”.
E il percorso continua coi rimandi ai “cantieri di periferia” di un tempo e il girovagare continuo di un fanciullo nei lunghi meriggi estivi sempre alla ricerca di tesori minimi o insignificanti, ma anche con la rievocazione fantasiosa del mare di Giannutri, dei fantastici velieri, dei violenti pirati barbareschi, di figure strane e magiche ad un tempo, di favolose impossibili avventure, di perigliosi naufragi presso isole esotiche, di sorprendenti messaggi da affidare ad ermetiche bottiglie e infine con la riproposizione, per memoria, di oggetti di un tempo passato, quasi le “buone cose di pessimo gusto” di cui parla Gozzano, come la “vecchia radio” o certi “chiodi ritorti” o ancora il “caffè al centro” o, infine, certi “segreti d’anima”:

Sorsero dormitori e formicai ai margini
d’urbe tentacolari, isolati luoghi popolari.
Allora estati povere e secche avvampavano:
sotto un sole a picco implacabile e martellante
il nostro tempo era sacro e profano e d’attesa.
Allora duri inverni e nebbiosi imperversavano:
nostra vita rinserrata in corti perimetri.

Pure impiacevolisce il rimando alla pittura naif di Ligabue con l’iterazione insistita dell’aggettivo dimostrativo della lontananza, nella triplicità dell’indicazione (quei, quegli, quelle) posto, volutamente, all’inizio di ogni strofa:

Quei quadri sgargianti, infuocati,
pieni di vita istintiva e terrestre
sono opere di Ligabue, vissuto ai margini
per ostinata balordaggine degli umani.

Anche altrove, ma non spesso, il poeta si concede alla iterazione come in “Volti d’oblio” con il termine “volti” a ripetersi ossessivamente, pur nelle attribuzioni diverse e seguito dal “chissà” che suona problematico più che dubitante ed implica un sottile senso di colpa. E non vanno ignorati i numerosi richiami al tempo con suo inarrestabile scorrere indifferente e sempre col rimando alla giovinezza prima, nella spensieratezza e nella gioia:

Un cortile e palazzi a ringhiera:
vecchia Milano dove studente
stavo sui libri per qualche ora.

E il rimando al passato, in altra occasione, è generato, come d’improvviso, da un pendolo a muro che scandisce il tempo che avanza nel futuro, ma non impedisce alla mente regressioni vicine e lontane:

E s’affollano alla memoria lontani giorni
in aule scolastiche grigie e severe
luoghi del passato ch’erano un mondo,
il nostro piccolo cosmo naif.

Nel passato non è la resa ma la piacevolezza e il calore delle belle cose lontane da rivivere gradevolmente con la magia che sanno creare intorno:

Sogno marciapiedi di questo mondo
ove luci lunari accarezzino
teneramente il volto del dolore.

Ho vissuto a lungo tra genti ossute
tenute in piedi dall’ostinazione del vivere
abbarbicate all’istinto di sopravvivenza.

E ancora col sogno e con il richiamo alla stagione d’oro, che è l’infanzia, ci piace chiudere:

Spesso il mio passato sembra un sogno della mente.
Rivivo la corte dell’infanzia, mito domestico
resistito ai sussulti di questa vita stupefacente.
I giorni parevano disegnati con lapis colorati
le favole storie quotidiane dei campi
i giochi imprese eroiche di prodi guerrieri.

E il poeta resta, in qualche modo, prode guerriero.

Mario Santoro

Enzo Concardi. NAIF
Guido Miano Editore, 2019
mianoposta@gmail.com



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