Sandro Angelucci,
collaboratore di Lèucade
Sandro Angelucci legge:
“NAIF” di ENZO CONCARDI
“Forse
siamo noi i grigi di pioggia
nel
persistere a non essere luce
nel
perseverare a perdere umanità
nel
cedere al gelo assoluto del male.
Forse
siamo noi i grigi di pioggia
senza
il fascino discreto della malinconia.”
In questa strofa di chiusura, a circa
metà dell’opera Naif di Enzo Concardi,
si può sintetizzare, e ne va rinvenuto il fulcro, l’intera poetica che caratterizza
e inquadra non soltanto la scrittura ivi contenuta ma - credo di poter asserire
- lo stesso pensiero poetante del Nostro.
La malinconia ha un suo ben preciso
significato, una funzione da svolgere, che è poi quella di farci desiderare
ancora di più la luce nei giorni di pioggia. Il poeta parla di “fascino
discreto” definendo, come meglio non si potrebbe, questa facoltà dell'animo umano
che risulta sempre salvifica laddove non si impantani, però, nella melma del
ricordo fine a se stesso.
Perché diventiamo “grigi di pioggia”,
uggiosi, spenti se ci priviamo di questa sobria e parca mestizia? Proviamo a
chiedercelo. Come sarebbe la nostra vita se interpretassimo - e, ahimè, lo facciamo
- in modo scorretto e capovolto, il carpe
diem di oraziana memoria quale esortazione al godimento superficiale e
distratto? Non ci vuole molto a immaginarlo, anzi non occorre fare congetture:
le abbiamo quotidianamente davanti agli occhi queste esistenze che ci trasciniamo
appresso come sacchi pieni di piombo. E quanto meno arduo sarebbe accettare le
difficoltà se le mettessimo preventivamente in conto, se unissimo bene e male
piuttosto che ostinarci a volerli separare.
Ecco, allora, che lo spleen - così
largamente presente nella raccolta - non è mai decadente (ad eccezione di pochi
testi in cui sembra prevalere il rimpianto: “e
vennero epoche così contorte e diverse / che quel primo tempo m’appare ora /
come brillante puro e incontaminato / onirico ed irreale nella sua bellezza perduta.”, da Cantieri
di periferia). Ma non è mai un venir meno totale: sono momenti nei quali
predomina una comprensibilissima ed umana rassegnazione, peraltro prontamente
ripresa: “E s’aprono inaspettate
frontiere dello spirito / che attraversano montagne e oceani / come messaggi in
bottiglia di naufraghi” (da Messaggi
in bottiglia) o ancora: “Non si piegò
a nessuno mai. / Dante fuggiasco subì amaro esilio / ma divina divenne la sua
commedia.” (da Strade spettinate).
Viene da dire - come si evince dalla
citazione riportata da Pardini nell’acuta sua prefazione - “Si vive, si
respira, si ama, si soffre, si gioisce del fatto di essere tristi”, tratta da “Le
bonheur d’être triste” di Victor Hugo. Già, può apparire paradossale rinvenire
la felicità nell’essere tristi ma, a ben riflettere, non lo è; o, meglio, lo è
nella misura in cui fenomenicamente si rivela discordante e contraddittoria la
vita stessa.
Poniamoci questa semplice domanda:
quale fine di qualsivoglia esistenza è più manifesto della morte? Nessuno. Vale
a dire che ciò che giustifica la vita risiede nell’esatto suo contrario. Conseguenza
diretta della constatazione, allora, non può che essere la seguente: si nasce
per morire.
È a questo punto che entra in gioco la
fascinazione di cui s’è detto, e la propensione ad avvertire nostalgicamente il
passato può - se ben indirizzata - liberarci dal pensiero della fine. In altre
parole, ossimoricamente, ricordando progettiamo, diamo un valore aggiunto al
presente che stiamo esperendo. Questo intendo con quel “se ben indirizzata”; e
non è cosa di poco conto, in quanto si otterrebbe il risultato inverso se
dovessimo disorientarci.
“Forse
chi avverte ignote suggestioni / chiamato da primitive voci indicibili /
afferra la bisaccia dei sogni e parte: / non cerca nulla se non l’abisso / e
l’abisso vuole lui per divorarlo.”
- canta Concardi -. Parafrasandolo: l’abisso ci vuole per inghiottirci ma chi
decide di partire invitato da richiami aurorali non se ne preoccupa, lo cerca,
addirittura, perché è sicuro di non perdersi, perché sa che verrà fagocitato
dall’erebo e dall’empireo contemporaneamente.
Desidero concludere riferendo una
notazione cui sono giunto grazie alla lettura di questo libro: il poeta - al di
là di una semplicistica interpretazione dell’esistenza - dà della stessa una
decifrazione dicotomica. Mi spiego con l’esempio qui più calzante: la nostalgia
è etimologicamente “dolore del ritorno” ma nondimeno può essere “piacere della
partenza”. Tutto sta nel non separare. I montaliani ‘cocci aguzzi di bottiglia’
(citati nel già considerato Strade
spettinate) rappresentano un ostacolo ed al contempo
la voglia di superare la muraglia: se non li accettiamo così, il Nulla non
potrà mai consistere nel ‘Vuoto Santo’ di cui parlava David Maria Turoldo.
Sandro Angelucci
Enzo Concardi. NAIF
Guido Miano Editore, 2019, mianoposta@gmail.com
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