Cinzia Baldazzi legge
«L’ultima lacrima» di Domenico Pujia
L’ultima lacrima
di
Domenico Pujia
L’ultima lacrima sarà per te.
Prima di danzare goffamente
nell’aria.
Prima di ascoltare il loro
rifiuto di farmi vivere.
Io che non ho avuto nessun
diritto a difendermi.
Sono qui, seduta in riva ad un
mare colmo di un’infinita tristezza.
Sarò come un fiore spezzato.
Ma riposerò in pace.
Riposerete in pace voi?
Eppure io sono pronta: con le
mani serrate mentre salgo verso il cielo.
Già le sento urlare le loro oscene
voci, mentre sul mio viso cala ormai il sipario.
Mentre il mio corpo freme, si
ribella e si dibatte inutilmente.
L’ultima lacrima sarà per te,
madre.
Domenico Pujia nasce
a Roma nel 1956. Dal 1983 è docente di scuola primaria. Nel 2016 pubblica il romanzo
Calabria terra di passaggio (Leonida
edizioni - Premio speciale Amarganta a Rieti). Nel 2017, sempre con Leonida
edizioni, esce La vergine della soglia
(Menzione d'onore al premio Amarganta). Nel 2018 con Montag edizioni pubblica I giorni dell'odio, romanzo che vince di
nuovo il Premio Speciale Amarganta e nel 2019 l'Holmes Awards a Napoli per la
narrativa gialla inedita. Tra i racconti prodotti, e ancora inediti, Portatemi in paradiso - ispirato a un
fatto di cronaca avvenuto a Caivano nel 2014 - ha ricevuto numerosi
riconoscimenti tra il 2017 e il 2019. La poesia L'ultima lacrima ha ricevuto nell'ottobre 2019 il premio speciale
dell’Associazione Culturale Il Percorso delle Muse nel concorso "I Colori
delle Parole" a Roma per la sezione poesie inedite.
I versi di Domenico Pujia tra dolore
e pacificazione
Note critiche su L’ultima lacrima
di Cinzia Baldazzi
Nella
retorica antica, il termine σημεῖον (sèmeion, “segno”) rappresenta un indizio
piuttosto ambiguo, meno sicuro del τεκμήριον (tekmèrion) con cui si indica un segno “indistruttibile” che
coincide con ciò che è, né potrebbe essere altrimenti. Precisa, a riguardo,
Roland Barthes:
Perché il segno sia probante,
ci vogliono altri segni concomitanti; o ancora, perché il segno cessi di essere
polisemico (il σημεῖον è infatti il segno polisemico), bisogna
ricorrere a tutto un contesto. [1]
Transitando
con il pensiero dal mondo classico a quello della poesia contemporanea di
Domenico Pujia, il segno complessivo di questi versi è fortemente polisenso e, sebbene all’interno del
testo intervengano vari fattori collaterali, la sua lettura genera aspettative
sempre flessibili tra vero-sognato, vita mortale ed eterna, la sopraffazione e
l’esserne vittima indifesa. Come scende, insomma, quest’«ultima lacrima»?
Prima di danzare goffamente
nell’aria.
Prima di ascoltare il loro
rifiuto di farmi vivere.
L’anafora
stessa («Prima») anticipa la misura in cui i sentimenti coltivati dal
destinatario, ascoltando o leggendo, resteranno sospesi in un intervallo
temporale mai esaurito, nel senso che non siamo più soli proprio mentre assistiamo
a un’irreparabile solitudine: avvertiamo così l’obbligo di percepire ogni
apparizione come se nulla avesse di gratuito, di inspiegabile, in attesa si possa,
proprio noi, essere in grado di decidere cosa pensarne, cosa sentire. Ma quali
orizzonti aprono le parole di Domenico Pujia? Cosa svelano le parole della sua
sfortunata protagonista? La sfera purtroppo atroce di qualcuno privato del
diritto vitale alla difesa:
Io che non ho avuto nessun
diritto a difendermi.
Sappiamo
poco delle circostanze accadute in precedenza, ma il presente mostrato risulta sufficiente
e quanto rimane di misterioso è all’altezza di farsi accettare sul piano di un
segreto umano ineffabile.
Il
filosofo Michel Foucault ha osservato:
Non bisogna concepire il
progetto dell’enunciato come identico all’autore della formulazione […]. In
effetti esso non è causa, origine o punto di partenza di quel fenomeno che è
l’articolazione scritta o orale della frase. […] È un posto determinato e vuoto che può
essere effettivamente colmato da individui differenti; ma questo posto, invece
di essere definito una volta per tutte e di conservarsi inalterato per tutta la
durata di un testo, di un libro o di un’opera, varia, o meglio è abbastanza variabile
sia per poter perseverare, identico a se stesso, attraverso molte fasi, sia per
modificarsi con ciascuna di esse. [2]
Nell’antefatto
de L’ultima lacrima immaginiamo sia
avvenuto un confronto totale del mondo con una coscienza e una esperienza
inconsapevoli dell’imminente fine, poiché, quando sopraggiunge la danza fatale,
si manifesta con pause “goffe”, senza che il dato sperimentale, catapultato
nell’assoluto, sia riuscito a consumare, in quanto immotivato, la ragione di
superare la tragedia perversa e brutale di un crimine sessuale. Ritrovo, tra le
righe del componimento di Pujia - con i suoi punti fermi a ogni riga, quasi
fossero chiodi piantati nel legno o stazioni di una personale via crucis -
l’eco di tanta nostra letteratura dove la poetica del ‘900 si fa scarna,
incisiva, tendente agli scorci dell’epigramma.
Con
un altro «Prima» scorgiamo un abisso di affetti e passioni divenuti ormai incommensurabili,
poiché qualcuno ha troncato il flusso vitale della nostra protagonista. Ma non
incontriamo sottolineature di commenti sentimentali: si spalanca invece il
baratro dell’angoscia, esplode un urlo silenzioso di gioventù, si assiste al
macabro rito di un’adolescenza spezzata. Il poeta espressionista austriaco
Albert Ehrenstein così rappresentava la disperazione di un giovane:
Io, il fanciullo, mi vidi in
sogno angelo, cavaliere
Mi atterrò una folgore.
La vita mia si disfece.
Domandai:
Ove sono i doni della mia esistenza?
O mondo, come sei amaro!
Lamentai:
Il tempo è Dio,
luogo la morte.
Conoscere vorrei la bestia
che divora il tempo! [3]
Negli
anni Sessanta, in una serrata analisi della struttura logica generale insita nel
comunicare, ancora Foucault sosteneva:
Non nascosto né visibile,
l’enunciato si trova al limite del linguaggio: in se stesso, non è un insieme
di caratteri che si offrono, anche in maniera non sistematica, all’esperienza
immediata; ma non è neppure quel resto enigmatico e silenzioso che gli sta
dietro e che esso non traduce. È lui a definire la modalità della sua
apparizione: più la sua periferia che la sua organizzazione interna, più la sua
superficie che il suo contenuto. [4]
Nel
proprio cliché poetico, Domenico
Pujia pone così a definire l’apparizione del proprio enunciato nell’immagine
della giovane martire «seduta in riva ad un mare colmo di un’infinita tristezza»:
invero una desolazione immensa, un dolore sconfinato. Del resto, il filosofo Ludwig
Wittgenstein ha scritto:
Il concetto «dolore» l’hai imparato con il linguaggio. [5]
Ne
L’ultima lacrima, contemporaneamente,
non celato né tuttavia visibile, il messaggio sosta alle soglie della
comunicabilità espressiva, camuffato e nascosto e, insieme, pronto a deflagrare.
In altri termini, non rappresenta una classe di pertinenze esposte in qualità
di esperienza immediata, nella fisionomia di un hic et nunc subitaneo: piuttosto, nel disperato appello creato da
Domenico Pujia, nel tormento privo di risposta di una sopraffazione fisica
coincidente con la morte, permane qualcosa di enigmatico, di taciturno, idoneo a
indugiare al di qua dei parametri semantici destinati a rimanere intraducibili.
Sarò come un fiore spezzato.
Ma riposerò in pace.
Così
confessa la voce narrante, e non possiamo contraddirla. Di conseguenza,
l’acquietarsi nella «pace» - mentre ogni colore scompare, qualsiasi elemento si
ammutolisce - riesce con maestria a suscitare emotività ignote, nondimeno
precise, poiché accanto alla denotazione del riposo sussiste la scelta di connotare il messaggio ottenuta per
mezzo del predicativo legato alla pacificazione,
scendendo tra le metafore in ombre incorporee ma, nella consueta ambivalenza
dei segni del brano, al contrario concrete ed essenziali.
D’altronde
questo pianto, incline a sciogliersi nella pace, non è un pianto antico,
cultuale, auto-celebrativo, pur strozzato dall’angoscia inconsolabile: è un
lamento intenso, le cui suggestioni sono offerte a noi come i poeti in epoca
romantica offrivano i propri versi articolandoli in simbolica successione,
anzi, quasi il movimento originale della poësis
convergesse nella domanda in progress
a chi destinarli, per nobilitarli e nobilitare l’atto stesso di parole evocato. Scriveva il critico
Walter Benjamin:
Che cosa comunica la lingua?
Essa comunica l’essenza spirituale che le corrisponde. È fondamentale sapere
che questa essenza spirituale si comunica nella lingua, e non attraverso la
lingua. […] L’essere spirituale s’identifica con quello linguistico solo in quanto è comunicabile. Ciò che in un essere
spirituale è comunicabile è il suo essere linguistico. [6]
Nella
poesia di Domenico Pujia subentra, nella vittima, uno spazio di calma assoluta
conquistato al di là della violenza estrema, la quale occupa un ambito nefasto oltre
i sacri, prioritari diritti umani: solo che, per meritarla, una siffatta quiete
conciliatoria esige meccanismi eroico-sacrificali di massimo grado, propensi a concedere
estrema fiducia ai principi del vero e una maggiore purezza della propria
coscienza, al punto da rimanere totalmente estranea agli assassini.
Senza
predire il futuro, consegnato comunque alla precarietà, l’Io in campo, la voce
narrante afferma e chiede:
Ma riposerò in pace.
Riposerete in pace voi?
Tutte
le cose appena dette, le frasi in sospeso, i pensieri semiverbalizzati, i
frammenti di un monologo infinito quale sembra essere L’ultima lacrima, finiscono per comporre il tessuto e la struttura
di una tipologia di discorso così ben illustrato da Foucault:
Il “dato” del linguaggio non è
la semplice lacerazione di un mutismo fondamentale; […] le parole, le frasi, i
significati, le affermazioni, le concatenazioni di proposizioni, non si
appoggiano direttamente alla primitiva notte del silenzio; […] l’improvvisa apparizione
di una frase, il bagliore di un senso, il brusco indice della designazione,
sorgono sempre nel campo di esercizio di una funzione enunciativa. [7]
Nel
Creato, dove gli elementi ricevono il segno semantico distintivo dall’uomo, nel
cui esclusivo nome parla e procede la langue,
ecco allora la succube del sopruso, l’oggetto della furia omicida, dichiararsi «pronta».
A cosa? Come? Con le «mani serrate» a salire «verso il cielo». Non solo,
quindi, dovremmo crederle per fede (il che coinciderebbe già con una legittima scelta);
ma dovremmo anche ascoltare quanto suggeriva Benjamin sull’identità tra la
dimensione dello spirito e l’insieme linguistico:
La lingua è allora l’essenza
spirituale delle cose. [8]
Nonostante
tutto, le urla non svaniscono né si fermano le «oscene voci». Nella poesia di
Domenico Pujia è implicata una forte tensione oggettivo-soggettiva fra il reale
vissuto e quello vivente tipico dell’arte. Quest’ultimo si rivela prezioso
nell’evocare una struttura temporale inesistente se misurata su piani
obbiettivi, ma fulminea nell’aura di un perpetuo divenire: all’altezza,
insomma, di segnalare l’irriducibilità umana al trionfo assoluto del male, sia
pure a patto di affidarne il compito a una luce al momento spenta, a un sipario
ormai calato.
L’epilogo
del brano dà respiro, come può, a una denuncia senza riscatto:
Mentre il mio corpo freme, si
ribella e si dibatte inutilmente.
Subito
dopo, però, ascoltiamo le parole
L’ultima lacrima sarà per te,
madre.
dove
si spalanca il confine dell’amore oltre il quale è permesso fermare gli oggetti
deperibili o già distrutti, le creature condannate a iniqua scomparsa,
coglierli insieme e di colpo farne strumento di una suggestione, di un incanto,
di una musica che allarga il senso della morte alla sopravvivenza, tale da
consentire almeno di danzare nell’aria, finalmente, con armonia. E, in un siffatto
destino crudele, non sembra di poco conto.
Ringrazio Adriano Camerini per
la collaborazione alla stesura del testo.
[1] Roland Barthes, La retorica antica, trad. Paolo Fabbri, Milano, Bompiani 1972, p.
73.
[2] Michel Foucault, L’archeologia del sapere, trad. Giovanni
Bogliolo, Milano, Rizzoli 1971, p. 111.
[3] Albert Ehrenstein, Urlo, in Poeti espressionisti
tedeschi. Dai precursori ai dadaisti, a cura di Maria Teresa Mandalari,
Milano, Feltrinelli 1970, p. 71.
[5] Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, a cura di Mario Trinchero, trad. Renzo
Piovesan e Mario Trinchero, Torino, Einaudi 1983 (I ed. 1967), p. 156.
[6] Walter Benjamin, Angelus
Novus. Saggi e frammenti, trad. Renato Solmi, Torino, Einaudi 1982 (I ed.
1962), pp. 54-55.
Ringrazio Cinzia Baldazzi per la sua sensibilità e la sua vicinanza nel commento di questa emozionante poesia. Grazie
RispondiEliminaComplimenti!!!
EliminaIl commento è dell'autore della poesia , Domenico Pujia.
RispondiEliminaGrazie, Domenico, per la "vicinanza" che mi hai attribuito!
EliminaLeggendo la poesia, ho sentito brividi lungo la schiena e mi è sembrato di stare dentro la scena descritta. Una ragazza che lotta con tutte le sue forze e nello stesso tempo che si arrende con dolcezza alla morte liberatoria. L'ultima lacrima è per sua madre, un ultimo gesto d'amore per chi le ha donato la vita. Una poesia bellissima. Complimenti all'autore.
RispondiEliminaGrazie di cuore, Rosanna!
EliminaRecensione magistrale ad una lirica veramente toccante
RispondiEliminaGrazie, cara Marianeve. Sono contenta tu abbia colto come me la grande capacità di toccare il cuore, l'anima, espressi da questi versi.
EliminaLa nostra pur ricchissima lingua avrebbe necessità di nuove espressioni per descrivere pienamente l'apprezzamento su questa recensione.
RispondiEliminaLe parole mancano a me, caro Elio, per ringraziarti di quanto hai scritto!
EliminaMi permetto di aggiungere all'approfondita critica di Cinzia alla bellissima lirica una preghiera al Dolore. L'ultima lacrima è solo la prima, o Dolore, che si versa oltre le frontiere della vita. L'ultima lacrima è rivolta a chi dà la vita, oasi primigenia nel deserto di un prima che è il nulla che precede la nascita come il dopo lo è rispetto alla morte. Vita e morte sono, stabilizzano l'essere, o Dolore che accompagni la prima e l'ultima luce dell'esistenza. Danze goffe, rifiuti di vivere, diritti a difese impossibili, fiori spezzati? O Dolore, a cosa serve immolarli a te? Sono la strada ove "panta rei", nella vita e nella morte, baluardi eraclitei di un essere immutabile che il divenire della vita scalfisce solamente con il suo aleatorio corso. E tu, o Dolore, assisti dall'alto. Così sia. Grazie dell'ospitalità. Massimo.
RispondiEliminaCaro Massimo, ti ringrazio per questa preghiera rivolta al dolore perché finisca: certo, difficile è la fine di un principio avanti a noi ignoto. Ma forse l'amore, il quinto elemento di Empedocle, che trapela dalla tue righe, colmerà la mancanza.
EliminaComplimenti!!!
RispondiEliminaGrazie da parte mia, caro Matteo!
EliminaQuesta poesia colpisce nel profondo dell'anima, perché condensa in pochi versi un mix di violenza,angoscia,solitudine,in cui l'ultima lacrima diventa un estremo dono d'amore.
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