I DINTORNI DELLA VITA
Conversazione con Thanatos
Guido Miano Editore, Milano, 2019
Ci sono varie maniere di disporsi alla
lettura di un libro - piccolo universo ancora sconosciuto- soprattutto se
l’autore è noto e, ancora di più, se è un amico: nel qual caso, volendo
esprimere qualche nota critica, bisognerà recuperare serenità e oggettività di giudizio che
sicuramente l’affetto avrà messe in discussione e fatte vacillare. Attratto in
particolare dal sottotitolo, mi sono dato a quest’avventura dello spirito con
affettuosa curiosità, incerto se abbandonarmi all’onda emozionale e al puro
piacere estetico oppure affidarmi senza
indugi ad un percorso critico, indagando l’opera nelle sue peculiarità
caratterizzanti. Ho scelto la prima soluzione, rinunciando, durante la lettura,
a qualsiasi supporto, come matita,
postille e appunti. Aperta la porta del libro mi è accaduta una cosa strana,
difficile da capire e spiegare perché non saprei dire se sono stato io ad
entrare nell’universo poetico di Nazario
Pardini o se è stato quel mondo a venirmi incontro, quasi investendomi con la
sua forza rappresentativa e con la singolarità
dell’argomento trattato. In questo
percorso i versi sono diventati dita che hanno toccato le corde degli affetti,
l’elemento verbale e ritmico ha cullato, con nenia spesso dolente, ogni lacerto
poetico della silloge, ma soprattutto i passaggi dialogici in cui uno dei due protagonisti, l’Uomo, si confronta con la Morte, protestando il suo
desiderio di vita e quello di tutti gli esseri umani, anzi di tutti i viventi.
È scorsa veloce ma coinvolgente questa prima esperienza de I dintorni della vita,
silloge che a me pare già sintetizzarsi nel componimento di apertura Doloroso il viaggio, che sembra assumere,
per questo rispetto, valore
paradigmatico e ruolo
di testo eponimo dell’intera
raccolta. Nel detto componimento, già dal
primo verso, non passa inosservato l’uso del verbo alla prima persona plurale:
“Doloroso il viaggio che facemmo”; il seguito della lettura ci fa edotti che
non siamo di fronte a un plurale di
maestà o di modestia, ma a un vero plurale, che ha valore identitario e indica
comunanza di condizione umana, nella quale il poeta trova sollievo alla sua
solitudine e conforto nel viaggio. Uomo tra gli uomini, li sente consorti e
fraterni.
Un viaggio, dunque. Un viaggio
attraverso la vita è il corpus, la sostanza profonda di quest’opera in versi,
dove tale realtà sormonta, per importanza,
addirittura lo stesso serrato
confronto tra l’io lirico e la Morte, elemento artistico, questo, che definisce la raccolta anche nel titolo . Ora, se si riflette, “via” “ viaggio””viatico” “vita” sono termini accomunati dall’identità della sillaba
iniziale; identità che, seppure non trova il conforto di un’uniformità
etimologica (la parola “vita” ha etimo diverso rispetto alle altre ), si mostra
però, a tutti gli effetti, nei nessi
semantici. Quali sono infatti i motivi di canto o, comunque, gli aspetti complessivamente prevalenti nella realtà poetica
di Pardini? In generale, e sopra tutti gli altri, la memoria, la natura e
l’amore (per Delia). E, sorvolando sugli altri (ammirazione per il mondo
classico, trasporto per la realtà contadina della sua infanzia, partecipazione
emotiva a vicende di bellezza e di dolore, ecc), occorre annoverare -sullo
stesso piano dei temi fondamentali- i
fortissimi affetti familiari, testimoniati in tutte le sue opere e anche in
questa silloge (per il fratello, in Lettera al fratello scomparso, p.18; per
il figlio, in Vai al diavolo!-
l’imprecazione è rivolta alla Morte- ,
p.40; per la moglie, in Nel locale dove
ci sposammo, p. 42; per il padre, in
E tu, quando morì mio padre?, p. 43 ).
Temi, questi, che si incentrano e si sviluppano
nel viaggio esistenziale del Nostro, oltre che nella presente silloge, dove la
vita è vista e sentita come un viaggio che non si può intraprendere senza la
scorta di un necessario viatico. Ed eccolo il viatico: la poesia, compagna di
vita; e la fede nella sopravvivenza dello spirito.
Siamo tornati, dunque, dopo una breve
digressione necessaria per la corretta comprensione della poesia pardiniana, al cuore della silloge in esame, al
dialogo-confronto quasi ininterrotto tra l’Uomo e la Morte. Si può facilmente constatare, infatti, che su
trentacinque composizioni ben sette volte l’Uomo colloquia con la Morte; senza
contare che in varie altre è il primo a rivolgersi alla seconda (e viceversa) in forma di monologo. Ed è
curiosamente ambivalente l’atteggiamento dell’essere umano di fronte alla
Morte. Da un lato egli manifesta una
tensione confliggente, insieme all’orrore
e al ripudio estremo e totale del’altra,
oltre all’intento apotropaico: “volto /
macilento e avvilito” (Non scriverò di certo,
Morte,p. 23); “ ...macilenta, scheletrita, / coi denti radi in fuori, e le
pupille / che come palloncini si dilatano / oltre il tuo viso scarno e
sfigurato (...) infido scheletro” (Dialogo con la morte, p.
26); “maligna e bieca in fronte” (Conversazione con la morte, p. 37); “morte nefanda,
morte senza scrupoli” ( E quella
imbarcazione?, p. 60); giungendo perfino a offenderla e a imprecare contro
di lei : (E
maledetta pure tu, Morte, p.30); “Thanatos vile” (Ho visto, p. 36); “lurida morte” (Senza rimorso, p. 39); “Vai al diavolo!” ( Vai al diavolo!, p. 40); dall’altro lato, invece, pur avvertendone la necessità e
l’ineluttabilità, cerca di esorcizzarne la negatività, di umanizzarla
demitizzandola, di rendersela amica,
complice quasi, peraltro senza risultato “Vieni un po’ qua da me. Restami
accanto. / Non essermi nemica. “(Conversazione
con la Morte, p. 32) - espressione che fa simmetria con quella pronunciata
dalla Morte in un lacerto lirico precedente (“Vieni un pochino qua da me,
parliamone”, Dialogo con la morte, p.
26); salvo poi darsi una spiegazione da sé, in modo intrinseco, con una serie
di interrogative sostanzialmente retoriche, nel senso che sono destinate a
rimanere prive di risposta, perché questa è scontata: “Sarà che il tempo / sta
oramai scadendo e sento vivo / il sentimento obliquo e un po’ perverso / di
perlustrare il gioco oracolare / della tua permanenza. Non puoi dirmi / di più
di quel che so? Non puoi svelare / i tuoi programmi; il tempo visionario / per
aprirmi uno squarcio del futuro? / Cosa sarà di me?” (Conversazione con la Morte, p. 37). Qui emerge, e anzi erompe, la preoccupazione tutta umana per un aldilà
sconosciuto e inquietante, dove s’annulla ogni esistenza con il suo bagaglio di
faticose conquiste, di sforzi vanificati.
Poi i colloqui con la Morte diventano a
mano a mano più pacati: si smussano le asperità e i contrasti e il discorso si
tinge di tonalità filosofiche, assume un piglio speculativo (La mia esperienza, p. 56); toccano anche
il tema dei migranti che muoiono in mare (E
quella imbarcazione?, p. 60): e qui torna in mente, prepotente, l’immagine
eliotiana di Phlebas il Fenicio o i
fluttuanti estatici annegati rimbaudiani de Il
battello ebbro o, ancora, la più torbida visione dannunziana -in Canto Novo, III, 15- del “tragico
viluppo d’annegati” , con il macabro codicillo di due versi in cerca d’effetto
“come serpi staranno aggrovigliati / tentacoli di polpi a membra umane”.
Eppure, a ben vedere, questa silloge, che
si apre e si dipana sotto l’ala incombente della morte (e scorrerla in lettura
in questi tempi di pieno contagio è veramente un’esperienza non comune) e
che agita l’animo del lettore tra varie
ragioni e posizioni, spesso opposte, descrive solamente un viaggio esistenziale:
dove successi e sconfitte, gioie e dolori, acquisti e perdite sono solo tappe
di un percorso disperatamente
irripetibile; dove la stessa presenza
della Morte (prima e vera occasione di questo monologo/dialogo) è comunque
sempre contrastata e pareggiata dalla bellezza della vita che ne riduce o
addirittura annulla l’influenza negativa attraverso -per esempio- l’epifanica rivelazione della natura e il
trionfo della primavera, aulente e carezzevole. È
proprio in questa situazione di opposizione, di guerra -per cosi dire- difensiva che il canto, tenacemente sapido, si fa
struggente, giacché l’Uomo sa di
doversene partire dalla luce: “Se poserai il gelo sul mio capo, / fa’ che mio
figlio sia robusto e fiero, / che la mia donna non ne provi pena, / resti
serena e forte.” (Conversazione con la
Morte, p. 35). In passaggi come questo
si svela con fulgida immediatezza e vigore la calda umanità dell’uomo e
del poeta Pardini che ha scelto di fare della sua vita ( e, di riflesso, di
quella degli altri) un racconto in
versi, prediligendo il registro narrativo-colloquiale, con potenti irruzioni
liriche quando non addirittura epiche, dove il mondo degli umili sale
prepotentemente alla luce e occupa lo spazio che gli è dovuto.
Il viaggio poetico sta per concludersi: una folla sterminata di pellegrini (tali sono
gli uomini nella vita) avanza per un bosco (eco della selva dantesca?) verso il
monte della salvezza, ma si va molto assottigliando a mano a mano che i più
deboli cedono ai triboli e alle sterpaglie e sono ghermiti dalla morte: “E la
morte si saziò degli infedeli / che smisero il cammino verso l’alto; /
piangevano quelli che pervennero / con la preghiera ai piedi del Signore. (Quanti ne contavamo! p. 64). Giungono in
pochi sulla cima illuminata di luce soprannaturale e lì innalzano una croce,
davanti alla quale si prostrano tutti, anche la Morte. La scena e il linguaggio
che la dice assumono potenza biblica. Poi la visione si slarga all’infinito
nell’ultimo lacerto poetico della silloge (Si
aprirono i cieli, p. 67): la luce invade valli e abissi, gli angeli
scendono dal cielo, i morti risorgono, si abbracciano in nodi parentali,
danzano sulle musiche di Schubert, Chopin, Puccini. Gioia, trionfo della vita,
luce accecante. Non notte né tempo, non principio né fine, ma “giorni
universali”. Poi la chiusa: “Vinse l’amore, e nella notte / si accese la
lampada divina, / grande, enormemente forte, / più che d’agosto la calura
estiva. / Più che di giorno la gloria del Signore.” È l’apoteosi della
salvezza, dove si perde in forma di eco ormai lontana e sbiadita anche il
motivo centrale della silloge, e cioè il confronto/scontro tra l’Uomo e la Morte, che
si era peraltro già determinato in forma
di tregua, dunque senza vincitori e vinti. Si potrebbe dire, in estrema
sintesi, che tutto si risolve con un passaggio dalla terra alla luce di un
regno spirituale, superiore, di un gruppo di
uomini che, superando difficoltà di ogni tipo, attingono la salvezza. E anche la Morte è
costretta a piegarsi davanti a tanta bellezza e luce.
Nell’ultima parte della silloge si
intensifica un’atmosfera religiosa e una simbologia con risonanze dantesche,
peraltro già anticipata nella poesia incipitaria e, come già detto, eponima. E
tuttavia questa religiosità, pur rivelando un’area di riferimento
sostanzialmente cristiana (“Quei pochi
che raggiunsero la cima / eressero una croce. Ai suoi piedi / si prostrarono
tutti, anche la morte/ ...”, Su la cima,
p. 66), non segue l’ortodossia di una religione in particolare, se l’Essere
superiore è detto genericamente “Signore” e se,
a rallegrare questa realtà oltremondana,
vengono assunte “serenate di Schubert, notturni di Chopin; cori di
Puccini” (Si aprirono i cieli, p.
67); il tutto condito da umanissime danze e da terreni abbracci. Voglio dire
che qui la salvezza conseguita sembra configurarsi come l’attingimento di un paradiso terrestre (che poi sarebbe già
un bel risultato per anime affrante dalla vita), vista la commistione di
elementi che attengono alle due diverse (opposte?) sfere del sacro e del
profano.
Il viaggio è compiuto, come pure la
conversazione con Thanatos. Negli occhi e nella mente del lettore resta un
universo di luce, infinito, quello che genera la doviziosa fantasia “poietica”
di Nazario Pardini, paladino della poesia del cuore (Infangare Calliope, p. 19): la quale si esplicita, qui, con grande
empito affettivo, regolato metricamente da
ritmo endecasillabo in prevalenza disteso e narrativo; ma non privo di
sfagli e scarti quando l’atto creativo lo richiede. Sicché Pardini, qui e ancora una volta, si
manifesta senza ambagi per quello che è: un poeta autentico e sofferto.
Pasquale Balestriere
Barano d’Ischia, 20 aprile 2020
Barano d’Ischia, 20 aprile 2020
Ringrazio l’amico Pasquale per la lettura perspicace, profonda, filologicamente elaborata, obiettiva e come lui afferma: “... Io ho cercato di fare una cosa onesta e seria, senza inutili lezi e straripamenti encomiastici, così di moda oggi....”. Grazie amico, della tua immensa disponibilità, per me dono incalcolabile.
RispondiEliminanazario
RICEVO E PUBBLICO
RispondiEliminaCaro Pasquale la tua più che una recensione è un piccolo saggio. Complimenti! Sono solo io del trio CANAPA fuori da coro? Bisogna che mi aggiorni ma con argomenti un po' più allegri. Con la Morte ho dialogato anche troppo.
Carla
RICEVO E PUBBLICO
RispondiEliminaGentilissimo Nazario, ringraziandola per le splendide opportunità colte sull'isola e da lei consentite in qualità di blogger, non posso oggi fare a meno di trasmettere la mia gioia. Quando si inizia la giornata così bene, e mi riferisco alla lettura, inserita nel Blog il 21 Aprile, in tal modo espressa, dal collaboratore Pasquale Balestriere, non ci si può esimere dal condividerla. Partirei dal viaggio, così ben argomentato, che egli ha affrontato con perizia di intenti per una lettura onesta, profonda, aderente al viaggio da lei condotto, Nazario, nel testo "I dintorni della vita...", per giungere, come ben evidenziato nel ringraziamento postato, alla piena soddisfazione di tutti noi lettori che abbiamo in animo forme concrete, asciutte. E in quanto, soprattutto, perché ha portato a termine il suo impegno "senza inutili lezi e straripamenti encomiastici". Da ciò sono rimasta attratta e perciò rivolgo i miei più sentiti complimenti, altrettanto asciutti e sinceri, a Pasquale Balestriere.
Cordialmente
Fulvia
P.s.: nel mio viaggio di scoperta, apprendo, mi conforto e condivido.
Grazie, Nazario, e quanto è bello capire come le sue poesie descrivano liricamente i momenti che lei coglie, vivendo intensamente il dono della vita.
Rita Fulvia Fazio
Non ho avuto il privilegio di leggere questa raccolta del Professor Pardini, ma ho letto molte altre sue poesie e ne conosco il valore. Poeta della vita, della natura, dell'amore ed ora della morte. Mi ha sempre affascinata il suo stile e quell'insieme di preziosità e di semplicità che permea i suoi scritti sì che ognuno di noi può ritrovare nei suoi fatti, nelle sue emozioni, parte di sè. Stupenda la lettura che ne fa l'amico Balestriere, a sua volta ottimo poeta oltre che critico, e, soprattutto, persona dotata di qualità personali che non si trovano in tutti. Una lettura ampia, ricca di particolari, accattivante, che di Balestriere ci rivela la profonda sensibilità, l'acutezza dell'occhio e della mente e la straordinaria cultura.
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