LA DANZA DELLE NUVOLE di Mara Benedetti
Recensione di Rossella Cerniglia
La silloge poetica di Mara Benedetti, dal
titolo La danza delle nuvole, subito ci sorprende per la levità e la
purezza delle immagini che traducono l’intimo connubio
dell’anima con l’elemento naturale. Nei versi trascorrono realtà e fantasie,
sogni di panica vitalità e grazia ed armonia dove affiorano le suggestioni tenute
in serbo dall’infanzia (La foresta
vivace).
Il paesaggio, perciò, ci appare come
specchio dell’anima, di pensieri solari e gioiosi che hanno il loro cuore nell’infanzia,
e splendono con il lume del giorno. Ma a volte, pure accade che le immagini appaiano
annuvolate da pensieri più inquieti che si fanno invadenti e oppressivi, e riportano
a esperienze di vita, a dubbi e contrasti interiori: “...Pensieri dimenticati
bussano; / con le lacrime scivolano via. / Tormenti antichi, imprigionati nel
petto, / nelle vene si diramano...” (Terra). In genere, tuttavia, la visione interiore è più assimilabile
a un panorama di nuvole, miti e benevole, che, nella loro leggera e mutevole
consistenza, vagano per il cielo e portano lo sguardo sulla trasparente
bellezza delle cose. La loro danza, che è sinonimo di leggerezza e mobile
multiforme armonia, esprime l’essenza dell’anima dell’autrice, la sua vitalità
e la spontanea carica di entusiasmo nei confronti della vita: “Sarebbe bello
volare/ nei boschi sopravvissuti/ o accarezzare l’oceano./ Il vento può farlo!/
Con le mie ceneri, un giorno,/ se volesse portarmi./ Volteggiare all’infinito/
in ogni angolo del mondo,/ e sperare che si accorga/ della mia anima danzante”
(La mia anima).
Anche l’amore è un tema più volte
visitato. E talora un’elegia sottile e struggente pervade il tessuto dei versi,
come è in Amore eterno, dove esso si mostra come idealizzazione estatica
che non ammette contaminazione con la realtà, perché solo così il sogno può
rimanere eterno, incontaminato e puro, nella sua eterea simbolica rappresentatività:
“ ...Ti ho giurato amore eterno,/ soltanto se non ci rivedremo/ durerà tutta la
vita.” Anche nei versi di Il poeta siamo di fronte a un Amore
immateriale e intangibile, che non chiede di incarnarsi, di farsi concreta sostanza:
“Non rispondere!/ Se ti riesce fallo tra un mese,/ un anno, mai!/ Un silenzio
di trent’anni ci ha divisi/ eppure mi conosci più di tutti,/ perché nulla è
impossibile ai poeti! (...)” o nei versi di Il profilo che ci pongono di
fronte a un che di refrattario, di impermeabile, come se l’altro rimanesse a se
stesso, pura distanza, pura esclusione, figurina di carta inanimata, creata
dalla nostra fantasia: “Sei diventato invisibile./ Distinguo il profilo, è nero./
con le dita lo sfioro,/ prima la testa, poi le spalle/ e piano piano giù, fino
ai piedi./ Tocco la mano; c’è solo il contorno,/ non emana calore/ e io ho
molto freddo. (...)”, e di contro a tanta glaciale lontananza, sta pure un
sentimento incorporeo e volatile, come appunto sono i sogni, le fantasie a
lungo vagheggiate che rimangono lontane, e quasi isolate in altra terra: “Ho
bisogno di abbracci, di carezze,/ di nuovi colori da cercare/ in fondo ai tuoi
occhi./ Ti svelo un segreto:/ ogni giorno ti invento diverso,/ matite e
pennelli diventano complici. (...)”. Si tratta di un sentimento sfuggente,
quasi inafferrabile, e tuttavia pervasivo, che proferisce il senso dell’inarrivabile,
dell’inattingibile che è nelle cose e in noi, e nello stesso tempo, la grazia
struggente di ciò che rimane incompiuto e inappagante.
Altre volte, enigmatiche figure spirituali
si situano di scorcio, all’interno di una prospettiva che sembra restringersi
perché si focalizzi lo sguardo su di esse. Ma esse rimangono lontane e come
inviolabili, in una distanza che le isola nel loro fuoco ardente “Dal cancello
ti spio./ Seduta nel chiostro,/ hai un libro tra le mani./ Attorno a te una
fortezza: il monastero./ (…) Solo la tonaca si agita,/ animata dal vento./ (…)
Pochi metri ci dividono./ Tu e io, eppur così distanti. (…)” (La Fortezza).
L’enigma di una relazione di sguardi, di sentimenti misurati, vicini eppure in
se stessi conclusi, isolati, fa, delle due misteriose figure, icone di luce e
di candore che attingono al senso smisurato di un’eterea arcana bellezza.
Una stessa atmosfera rarefatta anima i
versi di Il monastero:“Le piante di arancio/ sono colme di frutti./ Il
suono dell’acqua/ disturba il silenzio;/ la fontana domina/ il centro del giardino.(...)
Non vi è traccia dei suoi abitanti. (…) In essi, manca l’elemento umano, il
silenzio domina la scena, ne è il protagonista.
Ma pur nella peculiarità dei momenti narrati,
i paesaggi sono comunque vibranti di estasi e di sogno, di tenerezze recondite
e lontane, additano un desiderio inesprimibile che rimane sempre elemento di un
tendere e di un anelito struggente e vago verso qualcosa che non si
materializza, rimanendo a sé, struggentemente isolato.
Rossella Cerniglia
Mara Benedetti, LA DANZA
DELLE NUVOLE
Guido Miano Editore,
2019, mianoposta@gmail.com
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