mercoledì 1 aprile 2020

NAZARIO PARDINI LEGGE: "ALLEGORIA" DI SANDRA EVANGELISTI


Sandra Evangelisi. Allegoria. Biblioteca dei Leoni. Noventa Padovana(PD). 2020


- La parola è dono,/ l’intelligenza curiosità -  e con tale curiosità ci apprestiamo a caricare la scena di figure che reifichino cose, persone, per dare corposità a impulsi emotivi che dentro covano, dato che “non siamo più che un battito/ di rime frastornate dal mare”. E’ il tempo a  dirci della nostra precarietà, del breve frangente concessoci per sbrigare i nostri affari. Quindi sbrighiamoci e diamo fiato a Imperatrici (Teodora dagli occhi di ghiaccio, l’imperatrice/nido di vespe e dono di dei/ troneggia al tuo fianco), Schiave (questo è il mondo in cui viviamo/ e Roma non è immune da corruzione…), Decadenza (la decadenza dei tempi è alle porte), Selene (Qui Selene accorda la cetra/ e continua a cantare,/ con la lingua mozzata, se occorre…), l’amore (se sono libera è perché ho amato), Germanico (E tu, valoroso Germanico, non nutrirti dello stesso/ veleno di Cesare)… Eccola la parola. D’altronde è l’uomo che ha sentito l’urgenza di dare il nome a fenomeni che nome non avevano. Una rappresentazione surreale, uno spettacolo kafkiano, in cui l’autrice porta alle estreme conseguenze i frutti della metafora. E Sandra intraprende un  viaggio di trabucchi e marosi,  senza il timore degli scogli che sbucano dalle acque e veleggia intrepida verso un’isola che  assiepa la mente: vita, morte, amore, interrogativi, questioni che fagocitano risposte; insomma  tutte quelle intrusioni esistenziali che affiancano il fatto di esistere. D’altronde “La morte attraversa la vita e passa oltre,/ ma tu, regina del nulla, allontanati / dal corpo dell’amato,/ del mio bene supremo/ che se dovesse fuggire/ potrei dissolvermi assieme a lui.”. Altro che epigonismi, tuffi mentali, o rigiri di parole; alla fine tutto si fa normale, tutto rientra nei canoni di eros e thanatos e la poesia si fa chiara coi suoi slanci di lirica passionalità. E quella che doveva essere una allegoria per velare un dettato narrativo, alla fine si fa comune poetica di interrogativi e questioni esistenziali dove niente è sperimentale, forse solo il linguaggio, che allunga il tiro per allontanarsi dalla tradizione. Resta, per questo, il fatto che la Nostra rivela tutto il suo disagio di fronte all’antitesi ora-sempre: “Io so, se ho vissuto, è per tremare/ all’ombra di un’anima”. Chi dice che non sia proprio l’anima a dolersi della futura fine del connubio col suo corpo.            
Una silloge ontologicamente zeppa di riflessioni e azzardi verso un mondo che toglie, con le sue icasticità, spazio alle ricostruzioni, alle realizzazioni immaginifiche. D’altronde l’uomo ha bisogno di intraprendere voli che vadano oltre il contingente; rientra nella sua natura, dato che la sola parola non è sufficiente a costruire quei castelli che immaginiamo, e a cui aspiriamo. Lo stesso Montale, come riporta la scrittrice, dice al lettore   di non chiedere la parola dacché il poeta può solo dire e descrivere quello che  vede attorno; e quello che non sappiamo è l’unica certezza che ci ripaga. Allegoria, il titolo della plaquette, che, ripartita in cinque sezioni (Allegoria, Primavera, Le ere e le età, Alta velocità, Nell’Ade) si offre ad un linguaggio afferente alle richieste delle diverse occasioni: ora di ampiezza quasi prosastica, ora di una versificazione in aumentazione o in diminuzione, ora di uno spartito secco e asciutto in cui la sola parola è sufficiente al verso, ora (soprattutto in Alta velocità) di composizioni brevi e apodittiche, i cui ritmi  sono intervallati da interrogativi che fanno da fil rouge nell’epigrammatico corso dell’opera. Credo  che non sia superfluo riportare una pericope tratta dallo scritto di quarta: “L’allegria, si sa, è quella figura retorica per cui in letteratura qualcosa di astratto viene espresso attraverso un‘immagine concreta per mezzo della quale chi scrive esprime e chi legge ravvisa un  significato riposto, diverso da quello letterale, un senso allusivo, ulteriore rispetto a quello che è il contenuto logico delle parole. Ecco la chiave per penetrare fino in fondo nel mondo e nelle intenzioni di questa nuova raccolta intitolata appunto Allegoria…”. Allegoria per allegoria, intraprendiamo un viaggio, e invece di soffermarci alla semplice metafora, prolunghiamone il percorso, come ci insegna Dante con la sua Commedia: un nostos in cui la navigazione è lunga e periglioso. La barca è forte, robusta, esperta di onde, e gli strumenti della navigazione sono pertinenti. Quello che conta è andare, proseguire, e non arrestarsi. Di sicuro la metafora è molto vicina alla vicissitudine umana, alla miopia che la contrassegna se consideriamo il tout e le rien di memoria pascaliana riguardante l’uomo, sebbene questo “manifesti… le sue virtù straordinarie e addirittura miracolose, offrendo opportunità ed esperienze intense e in ogni caso decisive”. Resta il fatto che siamo umani e come tali disorientati in mezzo al mare; e anche se scorgiamo un faro a illuminare una parte  dei pelaghi, il resto è in preda ad una oscurità che intralcia il percorso; che lo rende incerto e insicuro; e anche se in possesso di mezzi (vedi quelli prosodici e filosofico-lessicali di Sandra) non sono di sicuro sufficienti a darci sicurezze risolutive; a invalidare i dubbi che ci portiamo dietro; quelli di cui soffre l’uomo nel vano tentativo di squarciare le tenebre per proiettare lo sguardo al di là dei limiti. Siamo destinati a vivere nella inquietudine del nostro esistere: nessuna certezza, nessuna sicurezza. Ci si può solo affidare alla parola, congegno  morfosintattico debole e fragile come il nostro vivere, come la  nostra storia. Non ci resta che  abbandonare il cuore e la mente   ed iniziare a scrivere di pancia. Senza allungare il collo al cielo, a quelle impennate meditative che ci procurerebbero dolore e splenetica soluzione. D’altronde si sa che il verbo è limitato, in quanto creazione virtuale, umana, mentre quella soglia a cui aspiriamo è di fattura a noi negata, considerando il circuito in cui siamo vincolati.  Non si può fare altro che patire della nostra imperfezione. Sì, ci potremmo aiutare superando il sintagma; magari  con invenzioni stilistiche, dato che la poesia vuole sempre qualcosa di più; magari ricorrendo a quegli accorgimenti prosodici, a quegli scarti topici  per  oltrepassare il confine entro cui è chiuso il lessema, visto che la parola è dispettosa, compare e fugge. Si acchiappa come un passero fra i rami, e i poeti impazziscono   per questo: non possederla appieno quando si concede.  Un linguismo che si avvale di una semplicità complessa e polivalente, questo di Sandra.  Può fare di tutto,  ogni cosa coi suoi mezzi espressivi, e il suo poetare avvince e convince, “solo con le mani sporche di sangue/ si può scrivere”, afferma la Nostra. Niente al caso. Solamente dopo avere percorso la via crucis, e dopo avere ingoiato l’amaro delle nostre vicende; dopo avere pensato e ripensato a quanto sia limitato il nostro essere, si può tentare di partorire dei versi, vere confessioni di patemi: “Discutono/ i poeti letterati/ del più e del meno/ e dell’andare a capo./ Dell’uso di parole e metrica/ e della novità del linguaggio./ Aboliti sogno e redenzione/ la renovatio sta nel dipingere la vita/ così come è…”. Riflettere, dunque, sul bene e sul male, sul perché siamo qui invece che là; riflettere sul cotidie morimur senecano o sul dum loquimur oraziano, significa affondare la lama  nella polpa; soffrire ancora di più, magari, visto che davanti al sempre e al nulla ci accorgiamo della nostra inadeguatezza. Però  significherebbe, anche, non dare spazio solo alla forma che tanto è ed è stata a cuore dei letterati, ma tirare in ballo questioni che tanto assillano il fatto di esistere. Le tante affermazioni che riguardano la poetica in generale e che si traducono in metapoesia, ci offrono lo spunto di accostarci ancora di più a questo spartito ricco di proteiforme valenza epistemologica: un gioco di antitesi  forma-significato, che tanto ha coinvolto la storiografia critica, si fa motivo di riflessione poematica. Meglio sarebbe navigare su una barca in equilibrio fra scafo e peso imbarcato. “E la parola resta muta,/ priva di vita, un suono./ Res composita solvantur./ Non sia così/ storia, tempo, luogo, noi, tu; /non lo Io; gli italiani scrivono/ lo stesso minestrone da un secolo./ Petrarchismo o dantismo?/ lirismo e realismo/  - si escludono?/ … La storia è in noi, noi siamo storia…” (Satira). Una critica a tutto tondo a coloro che colgono sui prati i fiorellini, una vera rivoluzione tecnico-semantica, in gran parte mancata, come da sopra accennato. Ho letto, comunque, tanta roba di autori diretti a rivoluzioni di positura prosastica o altro. La poesia, secondo me, deve contenere una vicenda innescata su una storia consolidata, dato che i sentimenti sono sempre gli stessi, e le inquietudini esistenziali non sono mai cambiate da Saffo a Montale. Tocca, semmai, alla parola piegarsi, contorcersi, allungarsi o placarsi per tenere dietro agli input intellettivo-emotivi. La poesia deve essere di tutti. Un dolore, un pensiero, una storia, una vita; nolenti o volenti ha sempre bisogno di vicissitudine, basta non sia pianto decadente e mellifluo; occorre dignità, quel senso umano che dell’umano tiene il cuore e che dell’umano si porti i fremiti di ognuno, per approdare al tutto.   Comunque attendere che torni la vena non è male: “Tu piangi troppo/ (Scusate non volevo)/ Tu vorresti spiegare la tua poesia/ Ma la  poesia non ha bisogno di essere spiegata/ (mi sto sfogando sperando/ Che la vena torni).

Nazario Pardini                       

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