FOTOFRAFO FABIO SERCIA:
l'articolo è stato pubblicato nel numero 184 - maggio 2022, del Bollettino Lunigiana Dantesca del CLSD.
ANGELA
AMBROSINI
MANICHINI
E MASCHERE
Le
identità nascoste
MEMORIE
DI UN MANICHINO
Anima
era in me
e
sogno d’ampi azzurri
e
vento ai sensi parlava
di
boschi e rive quando
sussurravano
gli anni nelle crepe
quiete
del corpo che pena batteva
di
lucenti marosi.
Guscio
di stelle tenero incideva
rotte
al mio andare
lento
e un punto io mi fingo
ancora,
un punto di diamante
in
questo cielo che un tempo anch’io
temevo
di fato gravido.
Perduta
è ormai traccia
d’ogni
suo tepore e gelo,
ma non
memoria delle carezze
loro,
né bufera di quel dolore
che
inconsumato annida
sotto
il mio guscio duro,
ora
che agli occhi io
più
lacrime non ho
e
inabitato in sfida sto
sotto
lo sguardo
imperscrutabile
di
Dio.
MASCHERE
Sta.
Appoggiata al buio
che
infuoca dietro la colonna
di
pietra chiara. Ora che la folla
rapida
frange e incide calli
e
ingorga canali dipinti
tra
cangianti spume,
lei
sta.
Avara
di gesti, scrigno
muto
dell’anima che maschera
di
trine e piumaggi scroscia
in
tacito volo a nasconderle
il
volto. D’alabastro il mento
nell’ebano
inquieto del manto.
Sto.
Cerco la celata pupilla,
il
sepolto sorriso nel labbro
di
pensieri bordato, ma livida
m’accorgo
che specchio lei mi è
come
tarantola a mordere
il
viso mio nudo.
Sto. E
vena di pianto
mi
lapida il cuore.
Intorno, ride Venezia.
in Angela Ambrosini, Ora che è tempo di sosta, CTL Editore, 2017
in Angela Ambrosini, Ora che è tempo
di sosta, CTL
Editore, 2017
Questi scatti del fotografo veneto Fabio
Sercia sono la riprova di come la relazione immagine-poesia nelle liriche del mio
libro Ora che è tempo di sosta (direttamente ispirate a opere di linguaggi
visivi) non avvenga, come spiego nella Premessa dell’autore, attraverso
un processo di meccanica sovrapposizione,
tipico dell’ecfrasi, bensì di “accostamento, in una dialettica articolata che
si propone di superare, quindi, la forma di partenza agganciandosi a una
dimensione amplificata nel sottinteso, nel taciuto, nell’adiacente, in una
direzione che vada ‘oltre la soglia’ tanto dell’immagine che della parola”. Nella fattispecie, limitarsi a “descrivere”
poeticamente queste due immagini sarebbe stato arduo, proprio in forza del
senso di negazione e di dilavamento di identità che esse esprimono. La foto del
manichino, ad esempio, è deliberatamente antiestetica, il soggetto è non-bello,
quanto meno cupo e urticante e risulta chiaro come la sua osservazione abbia in
me innescato considerazioni ed evocazioni di sentimenti che esulano dalla foto
stessa, così può evincersi dall’incipit della poesia che, in funzione
antitetica, recita “Anima era in me”. La scelta della modalità in bianco e nero di molte foto di Sercia coincide
con la mia inclinazione, come accennavo, verso un enunciato lirico
sottotraccia, un non detto che tende a prevalere sull’esplicito, orientamento
che il fotografo ha dimostrato di recepire con acuta sensibilità nella
realizzazione dei suoi video scaturiti da alcune mie poesie, in un percorso pertanto
diametralmente inverso a quello che soggiace nelle mie poesie ispirate alle sue
immagini. Spunto letterario per la poesia Memorie di un manichino è stata
la celebre lirica di T. S. Eliot, Gli uomini vuoti (“Siamo gli uomini vuoti, siamo gli uomini impagliati”)
nella quale il grande poeta statunitense denuncia il vuoto di valori
dell’uomo contemporaneo “figura senza forma, ombra senza colore, forza paralizzata, gesto privo
di moto”. Di qui la mia attrazione-repulsione per la portata
allegorica di questo manichino senza trucco né parrucco, abiti e
identità sessuale, la negazione stessa di una qualunque entità umana, un tronco
morto, qui palesemente di plastica o di PVC a giudicare dalla lucentezza con
cui riflette la luce. È un burattino che imita tragicamente un vuoto, una specie di Pinocchio senza vita dell’industria
della moda. Nella mia poesia ho invece voluto ribaltare i termini proposti nella
storia di Collodi, immaginando un moderno Pinocchio che ricorda l’epoca in cui,
prima di anchilosarsi in una larva morta, fu essere umano, animato per di più
da un incoercibile afflato di spiritualità. Molto efficace nel video (che qui
purtroppo non possiamo apprezzare) la scelta del fotografo di visualizzare il titolo della poesia componendolo
proprio al ritmo del ticchettio della macchina da scrivere, evocando
così l’atto stesso della scrittura: è il medesimo protagonista che ricorda ciò
che un tempo fu.
Al tema del manichino si sovrappone il ben
più antico tema antropologico della maschera.
In una sequenza della videopoesia di cui sopra, il fotografo ha inserito
manichini con maschere, l’acme dell’assenza e della perdita di identità. La
seconda poesia, Maschere, è direttamente ispirata alla bella foto di
Fabio Sercia che ritrae una maschera veneziana in atteggiamento assorto, quasi
in agguato, come pare trapelare anche dal titolo che il suo autore ha voluto
attribuirle, Sulla soglia, nel deliberato intento di spostare
l’attenzione dell’osservatore dall’esteriorità della maschera alla sua
intenzione nascosta, quasi ostile. Questo per lo meno è ciò che ho percepito
io, sensazione enfatizzata dall’ambientazione urbana di una Venezia non
storicamente nobilitata dai suoi celebri edifici, ma catturata in un’istantanea
di ordinaria periferia. La stessa scelta del bianco e nero contraddice la
celebrazione convenzionale dello splendido repertorio artigianale carnevalesco
(non certo ignoto al nostro fotografo veneziano) annullandone la policroma
versatilità in una formula criptica e allusiva, anzi deliberatamente “elusiva”
rispetto al volto che si nasconde dietro. “Non dal volto si conosce l’uomo, ma dalla sua maschera” affermava
Karen Blixen, forte della sua esperienza di vita in Africa e sarebbe impegnativo
ora, anche se doveroso, chiamare in causa il nostro Pirandello con la sua
celebre Teoria delle maschere.
Il termine maschera deriva forse, secondo
alcuni studiosi, dal preindoeuropeo masca, che significa “fuliggine”, essendo
usanza rituale nelle società arcaiche imbrattarsi il volto di fuliggine per occultare
le proprie fattezze rendendole irriconoscibili al fine di invocare spiriti ed energie
cosmiche. La maschera ha tradizionalmente costituito non solo uno dei primi
oggetti liturgici nei rituali sacri delle culture tribali, ma anche il primo
strumento scenico per eccellenza nella tragedia e nella commedia classiche. Pensiamo
alla parola latina “persona” (poi diramatasi in italiano, francese, spagnolo,
portoghese, inglese) che etimologicamente designa proprio la “maschera”,
l’intercapedine che gli attori usavano sulla scena non solo per coprirsi il
volto allo scopo di assumere altre identità nel ruolo loro assegnato, ma anche,
come l’origine della parola suggerisce, “per-sonare”, cioè per amplificare la
voce durante la recitazione in epoche in cui non esistevano certo impianti di
amplificazione del suono. Altri termini
dalla nomenclatura scenica classica sono entrati poi nella lingua con diverse
accezioni. Persino la parola
“ipocrita” è desunta dal lessico teatrale, alludendo l’etimologia del lessema
greco ypocrites (cioè “spiegare–sotto”)
all’attore, a colui cioè che interpreta scenicamente il ruolo di un’altra identità.
La maschera denuncia la privazione della propria identità con il conseguente appropriamento di un’altra,
di qui che sia con frequenza assimilata anche al repertorio demoniaco o, più semplicemente,
induca inquietudine, invitando allo sforzo accorto di perforare le apparenze
per intraprendere il processo di disvelamento della realtà ad esse sottesa. Non
a caso, asseriva Nietzsche, “tutto ciò che è profondo ama la maschera”. O, come
nel caso dei miei versi, teme la maschera.
Pubblicato nel n. 184 del
Bollettino Lunigiana Dantesca del Centro Lunigianese Studi Danteschi
La tua Opera "Manichini e maschere" corredata di fotografie artistiche e presentata in questa pagina magica in ogni sua sfaccettatura ha un fascino raro, cara Angela. Tocchi tasti allegorici - soprattutto le maschere - con versi straordinari e nella tua esegesi metti a fuoco vari concetti, per esempio che "La maschera denuncia la privazione della propria identità con il conseguente appropriamento di un’altra, di qui che sia con frequenza assimilata anche al repertorio demoniaco o, più semplicemente, induca inquietudine, invitando allo sforzo accorto di perforare le apparenze per intraprendere il processo di disvelamento della realtà ad esse sottesa". Mi hai spinto sui passi del grande Vittorio Gasman che asseriva che "Non si recita per guadagnarsi il pane, si recita per mentire, per smentirsi, per essere diversi da quello che si è; si recitano parti di eroi perché si è dei vigliacchi, si recitano parti di santi perché si è delle carogne, si recita perché si è dei bugiardi sin dalla nascita, e soprattutto si recita perché si diventerebbe pazzi non recitando". La storia dell'esistenza, amica mia. Si finisce per sentirsi veri solo dietro alle tante maschere che si indossano. E il manichino rappresenta un altro simbolo importante. Reciti:: "Anima era in me / e sogno d’ampi azzurri /
RispondiEliminae vento ai sensi parlava" con metafore di raso, e affreschi la vita desiderata. Roberto Bottari in una mostra che ho visitato giorni fa descriveva i manichini proprio come i simboli dell'attuale società. Come nelle foto postate da te erano in bianco/nero classico, reso ancoro più freddo dalla stampa su specchio, e mettevano in risalto gli sguardi diretti nel vuoto, riflessi simbolici di noi tutti, della nostra mancanza di una vera visione, privi di speranza o forse, solamente, in attesa di risposte. Grazie Angela di questo ennesimo diamante incastonato nell'Isola del nostro Vate. Vi abbraccio forte entrambi.