Un viaggio abitato da tanti viaggi
La prosa è ariosa, fluida ed espansa
per effetto di cadenze e ritmi da poesia, che per altro, nella filosofia del
racconto, appare investita di ruoli di primario rilievo. Così ciò che è, sulle
pagine del romanzo di Carmen Moscariello, diviene anche altro; e cangianze e
trasfigurazioni si levano a sciami. L’itinerario di un viaggio programmato, che
incontra e trattiene nella mente e descrive quartieri di città d’altra
latitudine, bazar e casbah, si muta in un percorso nell’interiorità dell’io,
tra memoria e ricerca, tra bilanci e speranze, tra verifiche e ri-orientamenti
del senso della vita; e le strade si incrociano, si intrecciano, si snodano
nell’orizzontalità delle esperienze del qui ed ora ricche di dettagli, per inerpicarsi
d’un subito nella verticalità che sonda dimensioni profonde del cuore e della
mente. D’altra parte il deserto attraversato, tra Marocco ed Algeria, è luogo
fisico di una geografia estrema, asperrima come sotto l’infuriare di una
tempesta di sabbia che sferza e graffia i viaggiatori o destabilizzante più di
una nausea che disanima come dopo un interminabile cavalcare un cammello;
epperò quel deserto fa eco e discopre amplificato il deserto della nostra
società defedata o il deserto, prima del viaggio, da cui si riconosce inaridita
e impaniata la protagonista che dice io; e ancora è il deserto che accoglie la
concentrazione totale di emozioni e pensieri e la meditazione assorta, che
asseconda l’espansione panica dell’amore di Dio; ed è lo spazio di un
auto-inveramento che è un inveramento della condizione creaturale – lo spazio
vissuto da Cristo, lo spazio ideato per Zarathustra; lo spazio di fondazione
mistico-religiosa di Charles de Foucauld – uno spazio abitato dalla spiritualità.
Alla spiritualità s’appaia, come spesso
nei domini del misticismo, la sensualità, facendone siffattamente una realtà
dell’essere ineluttabilmente umana, durevolmente umana, umanamente panica: i
colori e i sapori, i cibi e le vesti, le tuniche e i veli su cui la penna si
sofferma in taluni quadri di rappresentazione puntano i riflettori sul corpo,
talché la storia di chi si racconta in prima persona è anche quella di una restituzione di sé ad una
giovinezza che a suo modo ritorna e si rinnova, ad un risveglio e ad una
liberazione sensoriali che accompagnano e acuiscono la formazione religiosa che
si consolida tappa dopo tappa lungo il cammino di ricerca.
Mentre in flash-back o in lampeggianti
affacci la storia delusiva di un recente passato e l’universo orrendo dell’oggi
manifestano alcune loro acuzie, che sconvolgono il vivere civile e fanno
sparuti quanti s’oppongono e resistono; mentre l’umana compagnia di rapporti
amicali si rammenta, presenza accanto a presenza, come contravveleno e conforto;
mentre i personaggi incontrati nel viaggio oltre i confini d’Occidente, in un
mondo che affascina e prende l’anima, oscillano tra la realtà e il rapimento surreale
in suggestioni visionarie, a tracciare l’itinerario come iniziatico di colei
che narra e si narra, guida e compagno ideale – da un tempo lontano di consapevolezze
e di atti mai pervenuti a scadenza – è
Charles de Foucauld, di cui si offrono per memoria frammenti di storia (il
romanzo mostra pure brevi inserti documentari, allo stesso modo che cita passi
di riflessione spirituale e filosofica di maestri del pensiero).
Charles de Foucauld ha fatto prova con
il suo corpo e con la sua anima del deserto, ha condiviso la vita e la cultura
dei tuareg traducendone la lingua e apprezzandone come valore da tesaurizzare
la felicità naturale, ha scelto di stare tra (e per) gli ultimi e tra (e per)
gli invisibili, ha aperto l’eremo rendendolo punto di incontro interreligioso e
interculturale. Raggiungere quel romitorio abbandonandosi ad un viaggio ricco
di tanti viaggi significa compiere un cammino di rigenerazione e di rinascita e
ritrovarsi, recuperare l’interezza dell’essere corpo e anima indissolubilmente
insieme; e conduce a rileggere e riqualificare l’esistenza, a ricominciare con
consapevolezza e responsabilità rinnovate, a portare altro nella vita che si
vive e che è vita solo con gli altri e per gli altri; e fa persuasi che
l’iniziazione di cui così si è stati attori nell’esperienza multifocale del
deserto è da riconquistare ogni volta, giorno dopo giorno attraversando i tanti
deserti che incontriamo o scontiamo vivendo.
Questa iniziazione chiede impegno per
la fratellanza, per la pace; e in esse si rivela, in esse si trasfonde. E vuole
gli apporti della poesia, che nell’opera di Carmen Moscariello – l’opera di una prosa ariosa e liricamente espansa – ha la parte di un personaggio-chiave, se frate
Charles è poeta, se l’ultima scena è dedicata ad una festa la più grande dei
Tuareg, una festa che è di poesia ovvero di espressione creativa e di libertà,
di partecipazione collettiva, di appartenenza affratellata ad una comunità che
è un solo corpo vivente.
Marcello Carlino
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