AUTRICE |
MARIA GRAZIA
CALANDRONE E LA COMUNITÀ ORIGINARIA
in ricordo di mia madre, Adriana
La
poesia come indagine seria e severa sul reale, come coscienza di chi siamo e
come dovremmo vivere a partire dal riconoscimento dell'altro come simile. È questo, nella memoria di una comunità
originaria, il fondamento di una scrittura
che ha nella misura del suo compatire la capacità di riformulare il
futuro. Il richiamo civile e sociale del canto dice dalla ferita l'umano nella
forma della bellezza e della giustizia, la sua naturale inclinazione alla gioia
e all'amore. L'attenzione al mondo come pratica di esistenza ha in sé pertanto
la voce di una materia dove non c'è separazione, la storia come dimensione di
un agire tra identificazione e scelta, coscienza del male e rivelazione. La riflessione nella coralità dei suoi
scomparsi, delle sue vittime, di uomini e donne nella dirompenza della perdita,
è voce di un medesimo volto nella verità e nella sacralità della terra. Per
questo, dichiara, il fare poetico è anche un' azione politica: siamo tutti
infatti una stessa persona ("l’anima mia è un dio umano,/un uccello
d’altura//che ogni notte nidifica nel chiaro/del tuo petto/come un
endecasillabo perfetto//(cosa) bianca e copiosa, ala sottile – rosa/e roveto, cenere
– parva/tra stelle profuse,/bianco
sangue/di spugna tubolare/nel bianco planetario, bianca tigre/seduta ai bordi
della bianca strada senza dolore//l’anima mia cresce dalle tue ossa/come una
rosa da una lingua viva/– a stille,/a emoraggia/– dal tuo alfabeto/inimmaginabile//ma
è da questo corpo,/dalla sua silenziosa mietitura/che viene il verbo,/questo
pane assoluto/che ti offro questa bellezza/ viva, fatta per te"). La resa
espressiva nello svelare l'umanità nascosta è data nella lotta di una lingua nell'evocazione
di un'unità d'amore che investe il creato. Nella semantica del corpo, della
luce, di una natura nel suo esempio di aderenza e rinascita, la parola si muove
nella dinamica di una comprensione che dirompe dal tutto. La lettura allora
dalla verità di uomini e cose dette nel loro nome, nello sforzo trasfigurante
del verso lungo e della metafora, è racconto di una promessa fra rischio della
perdita e sua accelerazione nell'ordito elegiaco della visione. La preziosità
di questa poesia è allora tutta nella corposità di un dettato che lavorando sul
senso critico ne è insieme sua educazione nella tenuta di una presenza che non
è mai solo individuale. Il dire nella forza di un' immagine strappata alla
cancellazione della cronaca e riportata al segno della reciproca appartenenza
ha il valore di una riaffermazione natale là dove la morte, appunto, è nel non
poter più comprendere. Dare conto del nostro essere esposti, nella vocazione
alla grazia che ci viene dagli altri, è questo il richiamo fermo di una scrittura
che risale dal buio del moderno.
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