venerdì 19 novembre 2021

GIAN PIERO STEFANONI LEGGE: "CE FU NU MONNE"


 

Gian Piero Stafanoni,
collaboratore di Lèucade










Mario D'Arcangelo, Ce fu nu monne.

Edizioni Cofine, Roma, 2021.                            

 


Sempre cara e incisiva nella penetrazione dalle sue risonanze, dalle zone in ombra delle mancanze, delle sue antiche richieste la poesia in dialetto che nel nostro paese nelle più diverse espressioni continua a incalzare e a stupire a fronte di una impasse sempre più evidente di una poesia in lingua evidentemente ferma alle logiche monologanti di un'epoca compressa tra le sue negazioni. E ancora più caro forse il dire poetico nella parola d'Abruzzo, terra da cui sono uscite tra le più valide espressioni della poesia neodialettale, tra gli ultimi ancora Giuseppe Rosato, ancora Marcello Marciani e ancora la dolce, dolcissima figura di Mario D'Arcangelo. Una parola quella che esce da queste montagne, da queste marine e coste insieme aperte agli interrogativi dei suoi più evocativi orizzonti e insieme nella ritrosia di una custodia che la sa smarrita se non timorosa e offesa ai disconoscimenti del moderno, che sa farsi paradigmatica, soventemente, progressivamente più che esemplare di un mondo alla prova dei mutamenti drammatici e comunque epocali che andiamo vivendo. Un mondo non più ordinato, fermo e quasi immutabile, comunque riconoscibile e riferibile pur nelle complessità di logiche e dinamiche per natura incalzanti ma spazi, frammentazioni di spazi, di circuiti di esercizi a innalzare e poi a smentire condizioni, aspirazioni, esigenze di un umano non più atto allo strumento critico di sé ma il più delle volte semplicemente strumento, forse, delle sue spoliazioni. La poesia ha, avrebbe allora il merito di rimemorare la vita là dove l'umano ha vita nell'espressione piena delle sue aspirazioni, dalle sue espansioni come dalle sue ferite certo se dignità è dapprima nel riconoscimento del valore e poi nell'evocazione suo racconto, suo tragico o felice incantamento. Un ridisegnarci dai confini, dalle terre dunque che ci hanno informato e formato nella sacralità continuamente rinominata ed ivi rimessa di una creaturalità che comprehendoci continuamente ci ridice perché di lì, da lei nella dialogicità dell'evocazione ci rimemora.  È quello che fa Mario D'Arcangelo, splendidamente, nella lingua della natia Casalincontrada (Chieti), in un'opera instancabile e ricchissima che lo vede tra l'altro autore di testi per canzoni e favole musicali per l'infanzia, oltre che paroliere di musica sacra. Nello stordimento di giorni "sotto il segno inafferrabile di un presente di senso incomprensibile", come bene rivela Nicola Fiorentino nella prefazione a questo ultimo lavoro che già dal titolo sa risucchiare nella spirale delle sue sparizioni, ecco lo scatto, la scossa sì dell'uomo prima che del poeta  a lasciarsi vestire ma non investire dalle provocazioni a perdere della Storia, nella parola allora lo sguardo a tu per tu con quel buio che quella parola come detto di vita sembra voler cancellare. Così nella franchezza di una terra salda nelle sue proposizioni ecco la voce, il grido atteso, vegliato dalle contrade e dai campi ad imprimersi subito in tutta la forza emotiva e la logica della sua intelligenza:"Ce fu nu monne, sacce mode i'/che la parole ere na scretture/lu tempe ere sote/ e no suttile" ("ci fu un mondo, e io conosco il modo/ che la parola era una scrittura,/il tempo era sodo e non  sottile"). Il tempo della formica su cui reggeva il mondo nell'aiuto a ricordare (e alla mente altri echi, altri mondi di formiche e centauri nella polemica contro la permuta della Storia), nel segno adesso di una cadenza in cui il tutto oscurandosi  sgretola, assottiglia, dissomiglia nell'arroganza, nell'albagia radici e lontananze; dal cielo segni appunto di spazi che vanno accorciando ma non spiegando le distanze, già come in quella Scrittura più alta a cui sempre questa parola si riferisce, la ciclicità del tempo come interrotta tra le spine di un tormento che non ha senso. Chiaro però sia bene dirlo che l'imprimatur del dettato che sa affondare negli abissi della luce dispersa non ha il vacuo, e vano dunque, tratteggiamento, di un mondo statico nella sclerosi di un freno a fronte di un presente che non può e non vuole, per sua incapacità o per sua natura riconoscere ma l'interrogativo di un mondo che senza guida, senza strumenti come accennato e sotto i colpi dei suoi predatori cerca avanzando di ristabilirsi dalle fondamenta di ciò che d'umano, ancora ed è bene ricordarlo sempre, lo implica rappresentandolo dalle urgenze. Così eticità e religiosità del vivere vanno di pari passo, intrecciandosi, coinvolgendosi, provocandosi in quella forza espansiva di un'espressione ora panica ora urgentemente concreta che ha la sua verità di remissione nell'umiltà del dire basso, dal basso, di una fede, sgomenta, come di avi, e in quel tono di ninna nanna che ora pare di scorgere ancora ogni tanto a sera, a cercarci presso le case nel saluto ("E a le scretture m'arevote, quande/all'are de lu 'ddòsele parlive/ a lu prufete, 'ncime a l'alture"- "E alle scritture mi rivolgo, quando/sull'aia dell'ascolto parlavi/ai profeti, in cima alle alture"). Perché l'uomo è nel coraggio, D'Arcangelo ne è consapevole, e col poeta lo sa bene che l'essere non è nel nascondimento ma nella sua fuoriuscita, di qui allora la rinominazione dei luoghi dove l'uomo è stato messo, nel perché e con chi è stato messo, che è ciò che poi è stato dimenticato e ci va uccidendo. Così l'umile parlata del suo borgo diventa "la lingua che dice i dolori e le speranze del mondo" (ancora Fiorentino) dalla bocca di un cantore che sa donarsi al buio nell'accettazione nella provvidenza di una meraviglia ancora viva, e bruciante nel proprio riconoscimento e nella propria insufficienza, e che ha nei bambini, e nelle giovani generazioni cui il mondo va derubando l'incidenza, nel passaggio, la sua prima direzione. Là nell'affondo tra le piane e le valli della vita e dell'esistenza stessa, tra memorie e presenze ancora attive il potere e il dovere della parola nello sguardo ancora stupefatto di un canto alla riscoperta di sé e del mondo per capire se di nuovo "pò cresce/aunite a la vite, sencere, la pîte" (" può crescere/insieme alla vita, sincera, la pietà"), motore di una salvezza che solo di qui adesso sembra possibile nel riconoscimento della fragilità comune, là dove, nati da un soffio "de leto e de cretone" ("di limo e creta"), ancora l'astore domina le sue vittime e "il padrone della passatella" ("lu patrone de la passatelle") perso non ha "il vizio e il piacere/ di mandare a secco il sotto" (lu vizie e lu piacere/da fà olme lu sotte").  La sezione conclusiva allora ("Mo scì"- "Adesso sì") ci regala a fronte di un tempo di ipocondria e di morte (che guarda "rrete a le porte,/de botte e senza refiatà"-" dietro le porte,/di colpo e senza respiro") l'intensità di una spinta che il canto vuole fuori dai confini, il dolore esposto sotto un più aperto cielo, l'uomo nella sua speranza a risuonare nella  spina insieme alle sue piccole stelle, costellazione  e figura di ciò che gli è caro, lo fa caro a sé e agli altri nel condiviso limite della sua condizione "p'abbruscià de sblandore/nu refiate d'amore/addè regne la pîte/ pe nu munne sturdite" ("per bruciare di splendore/un respiro d'amore/dove regna la pietà/ per un mondo stordito").  Dunque ancora la pietà come chiave, come modalità di proposizione e resistenza, di salvezza allora nell'invito fraterno a coltivare i segni che pure dal buio risalgono a dirci l'infinita possibilità della semina. Un testo allora che in conclusione anche per questo, per la sua voce d'ogni giorno in espansione ed amore d'alba, di veglia di stagioni in ritorno di consolazione e speranza, con forza andiamo a segnalare confidando nella fede di una parola profondamente radicata nell'uomo.

 

 

2 commenti:

  1. Carissimo Gian Piero, porti avanti la tua meritevole e superba lotta per la difesa dei dialetti e, nello specifico dell'idioma a te tanto caro, quello abruzzese. Presenti l'Opera di Mario D'Arcangelo, di Chieti, e nella tua esegesi puntualizzi che: "Un ridisegnarci dai confini, dalle terre dunque che ci hanno informato e formato nella sacralità continuamente rinominata ed ivi rimessa di una creaturalità che comprehendoci continuamente ci ridice perché di lì, da lei nella dialogicità dell'evocazione ci rimemora." L'Autore nel dittato poetico è legato alla sacralità delle radici, ci ricorda, attraverso il tuo dire, che ciascuno è unico e irripetibile; e al tempo stesso inconfondibilmente legato alla sua terra. Essere figlio e figlia, infatti, secondo il disegno di Dio, significa portare in sé la memoria e la speranza di un amore che ha realizzato se stesso proprio accendendo la vita di un altro essere umano, originale e nuovo. Quindi non è vero che l’unica cosa che conta è dove uno riesce ad arrivare, è vero il contrario: importa solo da dove uno proviene.Bellissimo in tale contesto ciò che esprimi riguardo al Poeta: "l'intensità di una spinta che il canto vuole fuori dai confini, il dolore esposto sotto un più aperto cielo, l'uomo nella sua speranza a risuonare nella spina insieme alle sue piccole stelle."Le radici non sono vincolanti. Lo dimostra la tua storia, Gian Piero, la mia. Si può nutrire la gioia di farle conoscere altrove, di creare talee e sentirsi parte del fango da cui siamo stati tratti e di altre terre. Un messaggio di grande importanza soprattutto in questo momento storico che vede solo separazioni. Ringrazio te, amico mio e l'Autore, che non ho la gioia di conoscere, e mi permetto di stringervi entrambi!

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  2. Maria cara grazie, la terra ci racconta.. rendiamole onore in quel che possiamo..un abbraccio forte, e un saluto caro al nostro Nazario che ci consente di condividerci..

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