IL Centenario del genocidio armeno
Il 24 aprile commemorazione dei cent’anni del
genocidio commesso tra il 1915 e il 1917 dall’impero ottomano
Le
uccisioni di massa di cristiani armeni, siro cattolici, siro ortodossi, assiri,
caldei e greci furono effettuate in Turchia tra il 1915 e il 1916; “Il grande crimine” per gli Armeni. Iniziarono
tra il 23 e il 24 aprile 1915. In un mese si ebbe la deportazioni di più di
mille tra giornalisti, scrittori, poeti e parlamentari verso l’interno dell’Anatolia. Lo sterminio
era stato deciso dall’impero Ottomano. Perché gli Armeni, nella prima guerra
mondiale, si erano alleati coi Russi contro l’impero. Il resto della
popolazione fu massacrato con delle marce della morte, che coinvolsero più di
un milione di persone: centinaia di migliaia morirono per fame, malattia,
sfinimento o furono massacrati lungo la strada. Questo il contenuto di “Il grande male”: poesia
densa, folta, sentita, i cui versi, con elastica duttilità, affiancano il
dramma della vicenda armena. Una vicenda
poco conosciuta e venuta a galla in questi giorni per l’intervento del Pontefice. “Venne la primavera colorata”. Così inizia il
poeta: uno sprazzo di profumi e frutti che la stagione giovanile non dimentica mai
di offrirci col miracoloso ripetersi dei cicli naturali. Quelli di una natura
che accompagna il canto con un panismo esplorativo e concretizzante. “Frutti
che l’uomo amico più non colse”. Attraverso un percorso di cospirazioni fenomeniche,
di un ossimorico gioco fra luci ed ombre, fra silenzi ed urli, Francesco ci
prende per mano accompagnandoci, gradatamente, nel dipanarsi di uno spartito di
amara e sofferta pienezza ontologica. Lo fa con un grido alla Munch, con tutto
quel pathos racchiuso nel “l’urlo di barbaro/ orgoglio del grande
impero”; con un parènetico invito alla fuga, come se egli stesso fosse presente
alla sconcertante scena: “Fuggite, salvatevi non sentite/la campana tace.”. Il
silenzio della campana, il canto delle allodole, l’anaforico ripetersi della
primavera, il senso dell’amara terra, le donne custodi della vita, l’annullamento
dell’essere umano, lo strappo dell’anima, tante contrapposizioni ex abundantia
cordis; tanti polemos fra luce e buio,
fra male e bene, fra lupo e agnello che
danno forza emotiva, potenza poematica, e intensità visiva a un epilogo di
chiese silenziose e di deserti umani: (… le vostre [campane] sono sepolte
dall’oblio/ senza radici, senza dimora/ solo il deserto dell’umanità.).
Nazario Pardini
IL GRANDE MALE
Venne la primavera colorata
fiorirono mandorli e ciliegi
ma i loro frutti la mano
amica più non colse
Ballaste voi ignari le ultime danze
nella masseria si spensero tutte le feste.
Fuggite, salvatevi non sentite
la campana tace.
Si udì invece l’urlo di barbaro
orgoglio del grande impero.
Il canto delle allodole si disperse
insieme al popolo dell’arca.
Venne la primavera portando il suo silenzio
le ciliegie caddero a tingere
di vermiglio succo l’amata terra.
Le donne custodi della vita
subirono il martirio per portare
a frutto i bambini.
Non c’è paura nella morte
quanto dolore nella tortura
un viaggio verso l’eterno soffrire
ad annullare l’essere umano
strappandone l’anima
Se non ebbero la vostra fede
si presero la vostra vita.
Viene la primavera
le allodole non ritornano più a fare il nido
le campane suonano altrove
le vostre sono sepolte dall’oblio
senza radici, senza dimora
solo il deserto dell’umanità.
Viene la primavera ora come allora
fioriscono mandorli e ciliegi
il GRANDE MALE è vecchio d’un secolo
ma ancora giovane nel dolore,
vive il silenzio delle urla di genocidio
aspetta ancora sulla collina il vento della verità
Francesco Casuscelli
Il male non può essere aggettivato. Il male non è mai un'entità. È solo ed esclusivamente una lacuna. È mancanza deficit vuoto in assenza del bene che invece è ed esiste. Eppure l'uomo e in questo caso il poeta lo definiscono grande per sottolineare la barbarie che conduce al deserto dell'umanità. Bello questo canto questo inno di Francesco Casuscelli che mette in evidenza con stile pacato e nello stesso tempo efficace come la bellezza della primavera è sempre a prevalere e come la verità e il bene prevalgano sempre col tempo sul male e sulle barbarie.
RispondiEliminaMaurizio Soldini
Poesia intensa che con delicatezza racconta uno degli episodi più drammatici dell'altro secolo. Tutto verte a quella verità tardiva come lo sono altrettante verità nascoste da una storia non sempre "sine ira et studio".
RispondiEliminaProf Angelo Bozzi
Una poesia intensa e struggente, profondamente radicata nella storia e nella cultura armena.
RispondiElimina“Venne la primavera colorata…”. Così inizia il poeta Francesco Casuscelli….
L’incanto misterioso di profumi e frutti che la nuova stagione non dimentica di offrirci col miracoloso ripetersi dei cicli naturali è profondamente intima nell’animo armeno, nel più grande poeta armeno DANIEL VARUJAN, una delle prime vittime del massacro, assassinato dai turchi, assieme al collega e amico Rupen Sévak il 26 agosto 1915, autore del famosissimo Canto del pane:
Dolce notte estiva. La testa abbandonata sull’aratro
l’anima sacra del contadino riposa sull’aia.
Nuota il grande silenzio tra le stelle divenute un mare.
L’infinito con diecimila occhi ammiccanti mi chiama.
Cantano di lontano i grilli….
E…”Nella masseria si spensero tutte le feste….”
Il silenzio devastante, il ruolo sacrificale delle donne custodi della vita, l’annullamento dell’essere umano, lo strappo dell’anima,… : come non ricordare Antonia Arslan con la sua La masseria delle allodole? nel suo ricordo, nella sua nostalgia, nel suo dolore:
“ Parlare d’Armenia, per la gente della diaspora, ha sempre voluto dire immergersi in immagini di sogno, nelle visioni dell’arca di Noè e delle fertili pianure dell’Ararat, vegliata dalle due cime della grande montagna. Là, secondo la leggenda, scorrono fiumi di latte e di miele, matura l’uva dolcissima, le albicocche e i melograni e il paesaggio aspro e rupestre è ammorbidito dal colore dorato dei tufi colorati e del grano e reso sacro dalle croci di pietra (i chatchkar) che dovunque testimoniano l’attaccamento alla fede di un popolo che convertito nel 301 d.C. da Gregorio l’Illuminatore- ne ha fatto il più potente simbolo di identità nazionale…”.
M.Grazia Ferraris
Un grazie speciale per il Prof.re e amato poeta Nazario Pardini che ha accettato di commentare e pubblicare questo mio "urlo poetico". Poi un sentito grazie anche a Maurizio, prof. Angelo e M.Grazia, che hanno commentato arricchendo questo dialogo.
RispondiEliminaFrancesco