Vito Lolli collaboratore di Lèucade |
Nelle
braccia della Benevola
Eraclito e il mistero della Notte
A tutti Voi, diretti alla
volta della candida Leucade abbagliata di generoso sole, venga almeno un alito
di vento dalla misteriosa e solitaria Scherìa, terra estranea ad ogni rotta,
dove nulla ha un nome e dunque non può essere cercato, trovato né evocato. Che
nulla abbia un nome è il necessario e coraggioso lasciarsi alle spalle ogni
residua illusione di conoscenza e dominio delle cose, il passaggio obbligato
perché le cose possano essere di nuovo esperite per ciò che sono e non più per
quanto valgono. Tramonti sereno il sole di quella ragione che ci ha
accompagnati nella nostra stanca storia e si accolga in silenzio la Notte,
nella speranza che possa Lei accoglierci nel suo soave enigma.
"...Ed
ecco ancora venire, in segreto, la luna,
Il
profilo della nostra terra. E viene la notte,
L'estasiata,
la colma di stelle,
Che
forse si cura poco di noi,
E
splende, la stupita, l'estranea fra gli uomini,
Sopra
le cime dei monti, lassù, triste e fulgente.
Meraviglioso
è il favore della sublime, e nessuno
Sa da
dove giunga e che cosa sia ciò che accade grazie a lei.
Sebbene
muova il mondo e l'anima fiduciosa degli uomini,
Nessun
sapiente può comprendere che cosa essa prepari:
Vuole
così l'altissimo Dio che ti ama molto;
Per
questo il giorno avveduto ti è ancora più caro di lei.
Ma,
talvolta, anche uno sguardo chiaro ama l'ombra,
E
cerca il sonno per gioia, prima che per bisogno;
Ed
anche un uomo devoto guarda volentieri nella notte,
Anzi,
è bene che le dedichi ghirlande e canti,
Perché
la notte è consacrata agli erranti e ai morti,
Sebbene
sussista in sé, eterna, in liberissimo spirito.
Ma
affinché, nell'esitare del tempo,
Nell'oscuro,
qualcosa di stabile resti per noi,
Deve
pure, la notte, darci l'oblìo e l'ebbrezza sacra,
E la
parola irrefrenabile, che sia senza torpore,
Come
gli amanti, e coppa più colma e vita più arrischiata,
Ed
anche memoria sacra, tanto da tenerci svegli...
...Rida
allora di ogni derisione una follia gioiosa,
Quando
afferra all'improvviso i poeti nella notte sacra.
E
allora vieni sull'istmo!...
...Di
là viene e indietro indica il Dio veniente..."
Friedrich Holderlin,
"Pane e Vino" 1-2
L'elegia di Holderlin
rimanda alla sacralità della notte l'esperienza di quella follia capace di
invertire l'ordine diurno del tempo, la coattiva e ripetuta persuasione che il
tempo sia solo dal passato al futuro, e coglie il segreto della poesia, la sacra
ebbrezza della "parola irrefrenabile" e della "memoria
sacra", nella rimemorazione profonda, provenienza del Dio veniente che indica
"indietro".
La grande divinità orfica
Mnemosyne, madre delle Muse, rinvia alla estatica visione misterica e additando
il passato riporta, attraverso la poesia,
alla grande iniziazione da cui discendono le immagini degli dèi, in un
riflesso che compensa nella memoria quell’esperienza quando essa è ormai
trascorsa. Ma le immagini degli dèi sono già espressione: ciò che tale sforzo
narrativo vuole esprimere, nel gioco di apparenze non illusorie, è il mondo
reale, è il divino indicibile, la primitiva natura divina. La divinità del
ricordo, quel luogo assoluto che è l’inizio del tempo, l’esperienza dell’Uno
antecedente ogni individuazione, è il segreto dono di Mnemosyne, il luogo
esclusivo della poesia. E la dimensione di questa rimemorazione, il grembo
della Poesia, non può che essere la
Notte, nella cui profondità abitano, forse misteriosamente indistinti, il Sonno
e la Morte.
Negli anni '50 del secolo
scorso Robert Graves, noto per il classico "I miti greci", intuisce, dopo uno sguardo comparato della
varietà dei culti e della produzione poetica dell'umanità, la natura notturna e
lunare dell'insorgenza di un istinto del canto poetico, elemento misterioso
della forza e della possibilità della mitopoiesi e dello stesso venire ad essere del
linguaggio.
Eraclito, l’uomo della
notte, il criptico, l’oscuro. Forse, l’anello di congiunzione con tradizioni di
esperienza psichica profonda di una mente non ancora inquinata dal ridursi del
Logos ad un linguaggio decaduto e autoreferenziale. E’ forse la sensazione di
tale abissalità, che fa delle brevissime sentenze eraclitee quella massima
espressione originaria che è l’enigma, a condurre Platone a creare il termine “philosophia” per indicare uno stato
sapienziale perduto nonché l’intento del “filosofo” di recuperarne le memoria e
la pratica. Il frammento 26 allude alla
qualità dell’esperienza della notte con una espressione polisemantica.
“Nella notte l’uomo accende una luce a se stesso
quando il suo sguardo è spento; vivo, quando dorme è a contatto col morto; sveglio, è a contatto col dormiente.”
La notte è Euphrone, la benevola, colei che ha un
buon cuore, eu phrén: notte potente,
sacra, avvolgente, ove physis e psyché sono integrate perché indistinte,
dimensione di rapimento e angoscia, momento di solitudine decisiva di fronte
alla prova suprema, e per questo opportunità unica.
L’uomo nella notte è al
confine del reale profondo, il nascosto estraneo alla banalità quotidiana: quella
linea di confine congiunge la vita con la morte e il sonno con la veglia. Il
mondo delle apparenze si rovescia, la morte si rivela come la vera vita e il
sonno (il distacco dalle faccende quotidiane) come la vera veglia. Una nuova
sfera di realtà al di là degli stati di coscienza ordinari e massificati. “Verrà la luce e farà giustizia di ogni
cosa” (fr. 66).
Nella notte l’uomo chiude
gli occhi: spegne, cioè, il fuoco della percezione esteriore e accende quello
rivolto all’interiore. Chiude gli occhi e suscita il fuoco che porta insito e
nascosto originariamente in sé. Nel sonno, e attraverso il sonno, da “vivo” si
mette in contatto e in continuità con il “morto”; come il vegliante che si
mettesse in contatto con un dormiente. Il vivo fa vivere il morto allo stesso
modo e nello stesso tempo che il vegliante fa svegliare il dormiente.
Vivificazione del morto e risveglio del dormiente sono lo stesso evento, la
medesima esperienza. Solo pochi decenni prima di Eraclito, il Buddha indicò
negli stati di veglia cosciente, sonno cosciente e sonno incosciente i tre
stadi dell’esperienza umana. Cinque secoli dopo Eraclito, Gesù di Nazareth
accende quella Luce profonda vivificando il “morto” in un evento che tentiamo
di “illuminare” con i piccoli fiammiferi della nostra “scienza”. Pochi decenni
fa la psicologia del profondo ridimensiona le certezze illuministe aprendo la
dimensione insondabile e oscura della psiche profonda, l’abisso dell’”inconscio”.
Forse l’illusione della “storia” è il culmine di un sonno che ancora non
conosce la grazia del risveglio.
Il passo ha un carattere
chiaramente misterico. Il verbo myein significa
chiudere gli occhi oltre che la bocca: concentrarsi nel buio e nel silenzio per
entrare in una dimensione interiore lontana dal quotidiano. Eraclito indica esplicitamente una discesa
nel sonno: un rito con al centro un esercizio ipnotico-estatico? Una procedura nota alla storia delle
religioni fin dai tempi più arcaici, l’incubazione, che rinvia a Creta,
all’Egitto predinastico, per perdersi nella notte del tempo a noi noto ma
rintracciabile nelle orme del linguaggio.
Nella filosofia vedica lo
stato di “sonno veggente e luminoso-illuminante”, il taijasa, già offre un preciso parallelo. Lo “Zohar” ebraico (“Splendore”)
proclama la “neshamah” (lo sguardo
cosciente interiorizzato) “Lampada di Dio”. La mistica Sufi culmina nell’”Uomo
di Luce”, esperienza della realtà totale come Luce pura degradantesi negli stadi del mondo creato
fino all’oscurità . La parola “Pha-Ra”
(Faraone) significa “radiazione luminosa”. La parola accadica “khufa”, che significa “pietra
squadrata”, “cassa”, “contenitore”, fa eco al nome egizio di quel Cheope, “Khufu”, che ci rimanda al mistero di uno
dei più grandi enigmi della storia, un monumento fatto di matematica iniziatica
contenente solo una cassa di granito il cui volume del pieno equivale quello
del vuoto interno. Da khufa derivano kubu (da cui “cubo”, e i relativi
“incubazione” e “incubatrice”) e kefa (da
cui il greco “kefalè”, “testa”, e lo
stesso nome con cui Gesù ribattezza Simone di Cafarnao). Chi vuole seguire la pista del rapporto
semantico tra il giacere all’interno di un contenitore di pietra e una testa
che si fa “contenitore” può ascoltare queste parole, che non smettono mai di
parlare perché solo chi ha orecchie da intendere intenderà. Più autori hanno
valutato come “oscure” le implicazioni del passo di Eraclito, così come altri
hanno colto il parallelismo con lo spirito vedico, non solo per quanto concerne
la via iniziatica del sonno ma anche il senso della vita come debito e
sacrificio di trasmutazione di sensi e sentimenti.
Eraclito si rivolge ai
seguaci dei riti misterici (“… a vaganti
di notte, maghi, baccanti, menadi, mistici…”), coloro che entrano nella
notte, in euphròne: il buio
accogliente, sereno, ricco e propizio di opportunità, la sintesi giorno notte,
il cosmo in atto pervaso di bellezza nascosta, e non nyx, la tenebra primordiale caotica. In questo buio benevolo, pieno di
grazia, l’uomo chiude gli occhi: ma si tratta dell’uomo che sa chiudere gli occhi, che vuole e sa volgersi in direzione inversa rispetto a “…ciò che vediamo a occhi aperti…” che “…è morte…” (fr. 21). Un ri-orientamento, una con-versione, un
chiudere gli occhi che realizza una trance di tipo sciamanico: si separa dal
mondo esterno ed entra in un livello profondo, nascosto, estraneo ai più,
oscurato durante il giorno. Lo stato estatico del “sonno visionario”. In tale stato, lo stato di morte
gemello del sonno, l’uomo “accende il
morto”: così come ha acceso in sé la luce interiore nella notte propizia,
accende il “morto” che è in sé e lo fa vivere. Stati di coscienza profondi,
frequenze sensitive elevatissime, giacenti nella latenza obliante del
non-ancora o del non-più e, per questo, non attivi, de-funti. Morti. Accendere
il morto e svegliare il dormiente sono lo stesso evento: la realizzazione del
sonno luminoso, vegliante e visionario, è la resurrezione del morto.
Forse la “terra straniera” dove, nella poesia di
Holderlin, abbiamo “…quasi perso il
linguaggio…” e, per questo,
“…siamo un segno che non indica nulla…”,
è l’oblìo dell’essere. Allora, forse, nella rimemorazione dell’essere, nel
recupero delle sue funzioni superiori, ci attende il rivivere del linguaggio. Eraclito usa tre volte hàptomai (entrare in contatto, aderire, toccare,
accendere, stimolare): per la luce da parte dell’uomo, per il morto da parte
del vivo, per il dormiente da parte del vegliante, il verbo è sempre polisenso
e in ogni aspetto di ciò che indica è presente con tutta la gamma dei suoi
significati. Il rito
misterico cui il passo rimanda è una sola procedura:
toccare-accendere-vivificare-risvegliare: attraverso il sonno, una trance iniziatica
avvicina la morte e la volge in vita. La verità è l’ascesi che scopre la vita
nascosta insita nella morte.
“Physis kryptesthai philéei”, “La verità dell’essere, la realtà, ama stare nel nascosto” (fr. 123) “Il manifesto inganna” (fr.56) “Quanto
vediamo ad occhi aperti è morte” (fr. 21) “L’armonia nascosta è più forte
di quella manifesta” (fr. 54) “Gli uomini non colgono ciò che fanno da
svegli e dimenticano ciò che fanno dormendo” (fr. 1)
Forse l’insegnamento di
Eraclito diventa oscuro e criptico solo sul limite in cui necessariamente le
parole non possono entrare: là dove il sonno che non dimentica e resta vigile e
lucido fa sì che la veglia quotidiana non si trasformi, come sempre, in un
sonno di false apparenze, si entra al buio e in silenzio. Bisogna calarsi
dentro di sé e cogliere ciò che, sotto lo scorrere delle mutevoli apparenze, è
permanente e fermo per rendersi simile a ciò che è permanente e fermo. Ciò che
è permanente e fermo non è distinto, non è altro, non è “trascendente”, ma sta nel movimento e nel mutamento – e la
sapienza è trovare, nel mutamento, la quiete in cui si vede la verità del
movimento stesso. La storica opposizione alternativa di Eraclito e Parmenide
non ha mai avuto alcuna sostanza se non nell’esercizio di piani di lettura
posteriori e decaduti completamente estranei allo spirito dei loro insegnamenti.
La discesa nel profondo,
il bathys in cui si nasconde il senso
conservato nella parola e nel rito del battesimo, è il lògos inesauribile della psychè,
l’esperienza del totalmente altro, “ciò che mai tramonta”, “la luce che mai
tramonta”, il “Fuoco inestinguibile”, il “semprevivo che accende e spegne
misure”, la Physis che crea il Kòsmos, l’ordine la cui Legge si
manifesta come bellezza e non come nomos; un ordine prima estetico e poi giuridico, in
cui il sentimento della giustizia alimenta la legge e mai questa si rovescia
contro la giustizia.
E’ in questa dimensione
che la Poesia, il fare originario-originante, viene restituita alla sua verità
di rivelazione della verità dell’essere e, dunque, di identità manifesta
dell’Uomo. Possa di nuovo aprirsi l’istante sereno. Possa la Notte, la
Benevola, restituirci la memoria silenziosa della verità nascosta e farsi di
nuovo salvezza. Farsi di nuovo Poesia.
Vito Lolli
L'"ebbrezza sacra", la "follia gioiosa" di cui parla Holderlin è l'avvento di una luce che si accende nella Notte, più ricca e splendente di quella del giorno, qui equiparata alle flebili e artificiali luci della dea Ragione. Vito Lolli, parlando del "buio benevolo", parla "DELL'UOMO CHE SA CHIUDERE GLI OCCHI" e non certo dell'uomo che nel sonno è preda di incubi, mostrando che anche di notte egli può essere facile preda della satanica ragione. Mnemosyne, la "memoria sacra" madre delle Muse, si accende di notte, ma può essere attiva anche di giorno, se L'UOMO SA APRIRE GLI OCCHI ed essere realmente desto durante la veglia del giorno. L'auspicio è che l'interiorità accesa di notte non svanisca all'alba e ci accompagni anche di giorno nella dura lotta quotidiana. Se di notte possiamo tornare dal Molteplice all'Uno, di giorno dovremmo saper invertire la rotta e andare dall'Uno al Molteplice senza mai interrompere la relazione tra i due. Sta qui il segreto dell'Equilibrio e dell'Armonia. Le differenze tra Parmenide ed Eraclito potrebbero forse racchiudersi qui.
RispondiEliminaFranco Campegiani