ALBERTA BIGAGLI:
STO LEGGENDO “SI AGGIUNGONO VOCI”
Poesia di Sandro Angelucci
La vita detta
per coppie antitetiche
la vita come
un pas-doble incalzante.
Gli amanti che
inneggiano al sole
ed un
canticchiare in lontananza.
L’arsura che
maturerà le spighe
il mancare
dell’acqua un desiderio.
Dire è fissare
gli aspetti e i gesti
ma quali. Dire
è falsare dolcemente.
Il poeta
delira mente e improvvisa
ma partorisce
e crea solo toccando.
È lui la vera
carne che l’insetto punge
è lui l’altro
rispetto a una calda groppa.
Dimmelo tu che
il gioco l’hai giocato
si soffre
molto nello snidare parole?
Essere nella
vita stando al di fuori
come avere il
comando a specchiarsi.
Essere doppi
nel corpo che pesa ma
con l’anima
essenziale come nube.
Io e non io
che contro di me mi amo
e mi rivelo
anche di materia vegetale.
E ho il
movimento celeste e terrestre
nell’apparente
nulla forte e fecondo
Ora tu amico
plani canti a piede fermo
ma io ti prego
di stordirmi ancora.
Tu intreccia
fede e verità in angoscia
nelle domande
quotidiane e nuove.
E aiutami in
questo passare del tempo
in questo mio
respirare gli animali.
Alberta Bigagli
Sandro Angelucci |
Sandro Angelucci: SI AGGIUNGONO VOCI LietoColle. Faloppio (Co). 2014. Pg. 96. €. 13,00 |
DALLA PREFAZIONE
DI
NAZARIO PARDINI
Un cammino verso una natura perduta, una terra abbandonata, verso la madre più antica
... E quale stagione migliore dell’autunno per concretizzare queste inquietudini tanto esistenziali, quanto fertili per un ricco poema? La stagione dei poeti, delle melanconiche soluzioni umane, delle foglie smeraldo che si fanno memorie, del redde rationem. È questa la stagione di Angelucci, perché è il tempo des feuilles mortes che lo invita alla meditazione sul vivere e il morire; sul destino ed il mistero del nostro limitato soggiorno e su quello della Poesia. Sì, della poesia, questo racconto infinito della vicenda umana, che sa di realtà, d’immaginazione, ma tanto di folgorazioni in voli eterei, in spazi di abbrivi verticali che connotano la pienezza ontologica del Poeta. Quel Poeta che ricorre alla Natura, ai suoi messaggi, alle sue approssimative soluzioni, alle sue cromatiche identificazioni. Ed è ad essa che volge tutto il suo poema, alle sue configurazioni plurime, alla significazione della sua plurivocità, dacché in quei corpi vuole leggere la malinconia delle sottrazioni, o la gioia per gli sperdimenti in tanto naturismo (...) Ed il vero della vita sta tutto nella simbiotica fusione degli opposti. Meditazioni che in Angelucci si trasferiscono agilmente dalla soglia del soggetto a quella dell’universo. Perché ognuno di noi si identifica in questo impulso a superare i limiti dell’orizzonte.
D’altronde è proprio la simbiotica fusione fra le antinomie del vivere che dà una lucida idea della realtà: No, io non ti condanno./Come potrei? A cosa servirebbe?/Ripetere l’errore/per consumare ancora altro sangue/per giungere ad odiarmi./Meglio ammettere,/una volta per tutte,/che ho le ali, che sono un demone:/solo così posso sentirmi un angelo (Icaro).
Una chiara visione di un soggiorno da cui tanto ambiamo sottrarci per elevarci oltre. Ed il poeta lo fa con un volo di generosa levatura, con una apertura d’ali che gli permette di aliare sulle cime innevate, da cui lo sguardo può estendersi verso distanze infinite, ma anche irraggiungibili per il nostro essere mortali. Ed è umano, fortemente umano aspirare all’al di là delle nostre inconsistenze, delle nostre ristrettezze di esseri apodi, coscienti delle labilità e delle precarietà del tempo e del luogo, ma anche spinti dalla nostra superbia a cercare paradisi inesistenti a scapito di un amore più vicino: Proprio quello l’errore: la superbia./Mentre pioveva amore/non accorgersi/che stavi camminando sulla stella/che più desideravi,/e tu, in volo, a cercarla chissà dove,/in quali mondi,/in quali paradisi inesistenti (Icaro).
Per il poeta la poesia è verticalità, sostanza umana, affondo intimistico, spiritualità esplorativa, e soprattutto visione di un futuro luminoso, ammesso che poggi su nature rigeneranti di epifanica rivelazione. Un vero affondo nel pozzo del mistero dei meandri dell’anima; è da là che il Nostro, con tutta la sua potenzialità creativa e introspettiva, parte per concretizzare il suo pathos nella metaforicità e nel fonosimbolismo del verso; per configurare i suoi abbrivi emotivi e speculativi nelle esplosioni di panica consistenza che, comunque, non annullano mai l’essere nella loro vivacità visiva o auditiva, ma, anzi, ne rafforzano la valenza(...) Sta qui il forte impatto con questa silloge; sta nel sorprendersi di fronte all’espansione delle strutture verbali oltre l’etimo al fine di agganciare lo slancio delle intime meditazioni verso i confini vasti della vita.
Nazario Pardini
ESTRATTO DA:
Sandro Angelucci
SI AGGIUNGONO VOCI
LietoColle
Parte Prima
ICARO
Abiezione
Abbrutiti. Schizofrenici. Impazienti.
Ma l’uccello non finisce di cantare,
il vento
prende a respirare con le foglie
e le montagne
(immobili, sicure)
aspettano l’arrivo della luce.
Era già alto il Sole
e intorno
ancora s’ascoltava la preghiera.
Noi,
soltanto noi
(distratti, inebetiti)
a spargere catrame, a bestemmiare.
Saranno i voli
Sono i nidi delle rondini.
Sono le traiettorie
senza nessuna logica apparente
la speranza.
E non la linea retta
che si perde
nella sua stessa, vuota inesistenza.
Non è la strada comoda e sicura
che percorre
chi non conosce cosa voglia dire
picchiare, risalire
e poi planare.
E poi picchiare ancora,
ancora risalire, fino a sera
finché c’è fede
e amore e forza nelle ali.
Saranno i voli
che portano gli insetti dentro i nidi
a dare l’appetito
a chi, da noi,
si aspetta in dote il dono del futuro.
Icaro
Proprio tue erano le ali
che mai permetteranno di volare.
Sulle spalle, invece,
deve gravare il peso di una croce
che non è zavorra
ma polvere di cielo che si sfalda
ed incessante, da secoli,
cade sulla terra.
Proprio quello l’errore: la superbia.
Mentre pioveva amore
non accorgersi
che stavi camminando sulla stella
che più desideravi,
e tu, in volo, a cercarla chissà dove,
in quali mondi,
in quali paradisi inesistenti.
No, io non ti condanno.
Come potrei? A cosa servirebbe?
Ripetere l’errore
per consumare ancora altro sangue
per giungere ad odiarmi.
Meglio ammettere,
una volta per tutte,
che ho le ali, che sono un demone:
solo così posso sentirmi un angelo.
Merlo infinito
Le bacche che pilucchi
merlo infinito
sono le parole che non so ridire,
piccolissimi grani di un rosario
che solo tu conosci.
Mentre ti guardo, mangi.
Mentre tu preghi, ascolto
becco giallo.
Ma dove voli, dove ti rifugi
quante ali possiedi
quanto sei grande?
È questo che mi sfugge.
E non perché non parli.
La vita che tu vivi non inganna.
Quella che vivo io m’insospettisce.
E non perché non taccia.
Se fossero di piombo le tue bacche,
se al posto del becco
avessi una mitraglia
t’inviterei a spararmi addosso
perché nella mia carne
con il tuo cibo
penetri il volo, la libertà,
l’immensità di un merlo.
Da terra verso i rami
In volo.
Tutti insieme.
Da terra verso i rami.
E l’albero
torna con le foglie.
Come se non le avesse
mai perdute.
Come se ancora fosse
primavera.
Parte Seconda
IL GRANDE RESPIRO
Il grande respiro
L’inchino dell’erba piegata dal vento:
preghiera e bestemmia.
Parola che sento diversa,
più vera del suo stesso silenzio.
Rimango.
Mi stringo al suo soffio
ma nulla trattiene l’abbraccio.
Non posso legarmi alla fuga
del Grande Respiro,
non posso.
Mi è dato soltanto (soltanto ma è tutto)
d’unirmi al peccato e alla gloria,
genuflesso
di fronte al mistero
e in piedi
di spalle all’altare del vento
per non rinnegarlo
mentre bestemmio.
Salto d’acqua
Solo ieri
erano gialle, erano alte
le corolle delle dalie.
Oggi però
somigliano alla sabbia dei deserti,
sono terra bruciata
sono spente. Effimero,
e tu lo chiami effimero
questo rapido succedersi del tempo.
Eppure
così lento non è stato mai
se nel volgere di un giorno
sento
tutta insieme l’eternità
uscire da se stessa
e riversarsi
come fiume in piena
nella cascata delle perplessità,
nel salto d’acqua
di cui mi bagno e non conosco altezza.
Sul fondo del bicchiere
Una goccia di miele
che cade nel latte bollente,
precipita sul fondo del bicchiere
e si dissolve.
È questo
la parola di un poeta.
Un grumo di bellezza che si scioglie
per rendere più dolce
la bevanda.
Ma la sua forza,
ciò che la distingue
più dello zucchero è quel dissolvimento
quello sparire
per regalare ancora una speranza,
quel velocissimo
battere le ali
che tiene l’ape in stallo
e il cielo in equilibrio sul creato.
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