Maria Grazia Ferraris collaboratrice di Lèucade |
Alla
Musa
Come
vigoroso il lavoratore afferra
la
curva impugnatura dell’aratro,
lacera
il fianco delle terre
e
sotto il torrente dei raggi solari
i
solchi aridi diventano fertili,
come
il grano fulvo nell’aia
si
ammassa e i mulini ruggiscono;
come
trabocca dalla vasca la pasta lievitata,
e il
contadino la cuoce in un forno
che è
sempre acceso,
il
piacere, il vigore creatore
che
diffonde il Pane, il pane consacrato,
tu
insegnami, Musa dei miei padri;
insegnami,
e incorona di spighe la mia lira,
perché
sull’aia, alla fresca ombra del salice,
io mi
possa sedere e generare
le mie
canzoni.
DANIEL
VARUJAN nacque a Perknik, villaggio dell'Anatolia, il 20 aprile 1884. Nel 1886
si recò con la madre a Costantinopoli alla ricerca del padre, scomparso durante
le epurazioni volute dal sultano Abdul Hamid: un dramma da cui la sua
sensibilità rimase segnata per sempre.
Dotato
di ingegno eccezionale, dopo i primi studi nella metropoli turca, proseguì la
sua educazione a Venezia, dove pubblicò la sua prima raccolta di poesie, Fremiti (1906), e successivamente a
Gand. Influenzato dalla crisi religiosa europea di fine Ottocento, attraversò
una profonda crisi esistenziale, durante la quale si rifugiò nei miti
indoeuropei precristiani della sua tradizione.
Di
nuovo in Turchia, si sposò e trovò lavoro come precettore nel paese natale.
La sua
fama di letterato e poeta crebbe dopo la pubblicazione de Il cuore della stirpe (1909) e Canti
pagani (1913). Nel 1912 si trasferì a Costantinopoli, dove ottenne un posto
di direttore di scuola e si dedicò con tutte le sue energie alla rinascita
della cultura e della lingua armena, diventando l'anima del movimento che
faceva capo alla rivista Navasart. È di quel periodo il suo ritorno alla fede,
purificata e rafforzata dopo il travaglio spirituale.
Tre
anni dopo, arrestato con altri scrittori, intellettuali e uomini politici
armeni,Varujan venne deportato verso l'interno ed ucciso il 28 agosto 1915, nel
pieno della sua splendida maturità.
Il canto del pane, il
suo capolavoro, fu pubblicato postumo nel 1921.
Il
libretto è come un messaggio dal regno della morte, carico di significati
allusivi e simbolici.
Un
atto di accusa, basato sul legame fortissimo tra la poesia e la terra dei
padri, le radici profonde e il pane sacro, l’elemento vitale che la terra
produce e di cui viviamo. È giocato sulla sorvegliata ambiguità del racconto
poetico e la qualità onirica delle immagini, come se ogni dettaglio fosse
pervaso dalla consapevolezza della precarietà del mondo che descrive.
Le
traduzioni di Antonia Arslan, Chiara Haïganush Megighian e Levon Zekiyan
provengono dall’edizione a cura di Antonia Arslan pubblicata da Guerini &
Associati nel 1992.
Sul
grande poeta armeno il saggio più completo è ancora quello di Boghos L.
Zekiyan, patriarca degli studi sulla storia e la letteratura armene: Daniel
Varujan: Dall’epos al sogno,
pubblicato a Venezia.
D. Varujan
riveste un’importanza particolare nel panorama dei simbolisti europei. Fonde i
diversi orizzonti poetici in una sintesi poetica originale che su tonalità e
timbri orientali innesta la conoscenza diretta della grande poesia occidentale.
“Simbolista
è la sua poesia, ma non decadente”, sottolinea la Arslan; un poeta che non si
abbandona ai vaghi sogni della decadente gioventù europea degli anni precedenti
la prima guerra mondiale.
Varujan
rimane solidamente ancorato alla cultura della terra, alla gestualità
contadina, alle messi dell’Anatolia, ai semplici riti di una società arcaica ma
profondamente civile.
Fu la
Venezia manniana e decadente d’inizio novecento che maturò la sua sensibilità
poetica insieme ai simbolisti francesi dei suoi studi universitari in Fiandra.
“Due
ambienti hanno influito su di me: Venezia col suo Tiziano e la Fiandra col suo
Van Dick.
I colori del primo e il realismo barbaro del
secondo hanno formato il mio pennello..Sento che Venezia ha influito su di me
con i suoi cangianti tesori di colori, ombre e luci. È una città nella quale
non è possibile pensare senza ricorrere ad immagini…” (lettera a Theodik,1909)
Venezia,
patria ideale dei poeti, accolse Varujan come aveva accolto i Padri
Mechitaristi donando loro l’isola di San Lazzaro, come una madre benevola per
chi, nell’esilio, stava riscoprendo le radici della terra patria, “...proprio
nel momento in cui, storicamente, agli armeni come popolo la patria sta per
essere definitivamente negata e l’unità psicologica della nazione, infranta”,
ci rivela la Arslan.
Ma già
nel 1907 è il sangue il motivo che irrompe nella sua poesia, con il poemetto La strage, scritto in memoria delle persecuzioni
di Abdul Hamid, il “Sultano Rosso” che aveva anticipato l’efferata violenza dei
Giovani Turchi.
Gand,
cuore dell’impero europeo e gioiello di Carlo V, Venezia, porta dell’Oriente e
culla della libertà, Costantinopoli, avamposto della cristianità travolto dalle
orde asiatiche dei turchi, ai quali ha tuttavia trasmesso i germi della cultura
europea. Germi avvelenati poi dal nascente nazionalismo razzista che ha trovato
in Turchia menti ricettive e cuori impenetrabili alla pietà umana.
“Per
tutta la poesia simbolista tardo-ottocentesca la dimensione e la nostalgia
dell’Oriente, le voyage en orient,
rappresentavano infatti una delle forme principali di ispirazione, come meta e
ricerca dell’altro da sé- sognato o realizzato che sia: si tratti del tema del
fascino dei paesi lontani, della scoperta dell’esotismo come occasione in sé
poetica, coi suoi luoghi deputati, o del viaggio in Oriente come scoperta e
appropriazione di una realtà mitica e fantastica, piena di colore, di fantasia,
di favole.. Per Varujan la <dimensione orientale> è il punto di
partenza.” . Non è un altrove da raggiungere, ma un ritorno alle radici della
terra patria.
La
poesia Alla musa- poesia-manifesto, si identifica
con l’attualità della sua gente, dà la parola a un mondo precario e lo rende un
presente infinito. Le bestie dei campi- Il
giogo, la vegetazione- Papaveri,
raggiungono la sfera della sacralità, gli elementi in comunione tra loro , Pioggia di primavera, in movimento a
spirale, che mescola acqua e luna, stelle e pioggia…cielo e terra, corpo e
spirito, gli oggetti, gli edifici come i granai, i fienili, i mulini.
Maria Grazia Ferraris
Poesia avvincente, di un realismo lirico struggente e simbolico; ho sempre amato i versi di VARUJAN, la sua vita, la sua storia, i suoi ideali; io lo ritengo uno dei maggiori poeti a cavallo tra l'800 e il 900; periodo in cui respirò tutti i turbamenti esistenziali, etico religiosi, del tempo; e quelli patriotici che lo riguardarono da vicino. La semplice realtà contadina che si fa musa nelle sue opere, è, in effetti, simbolo e radice di ampi orizzonti storico-sociali a cui è legata la sua vita che tanto prende dalle amare vicende del padre. Inoltre ho sempre letto nei suoi versi, attraverso una comunicazione semplice e al contempo complessa, tanto di lui e della sua biografia. Ringrazio il critico Ferraris di avere approfondito con acume la poetica e di aver riportato una delle sue più grandi composizioni. Veramente brava!!! I miei complimenti.
RispondiEliminaProf. Angelo Bozzi
Straordinaria pagina! Poesia dolce, umile, e forte. Mi commuovono le metafore soleggiate da un'aria di campagna armena, rurale, arcaica. Un grazie alla Ferraris per i suoi passi di convincente sostanza letteraria ed umana.
RispondiEliminaMaria
Non conoscevo Varujan, per questo è stato interessante leggere l'articolo della Ferraris. Grazie!
RispondiEliminaNon conoscevo Varujan né come uomo né come poeta , e non conoscevo al sua storia , per cui questa breve ma ricca lettura non fa altro che accrescere la mia curiosità e il mio desiderio di approfondire.Bene ! L'articolo è agile e accattivante. La poesia forse un po' troppo classicheggiante in questa nostra epoca di corse e rincorse, ma leggibilissima , se si rimane nelle armonia del secolo scorso. Grazie per il testo.
RispondiEliminaSono grata a Maria Grazia Ferraris per averci, magnificamente, presentato il letterato e poeta Varujan e la sua poesia. Una terra che si fa musa e che “dà la parola a un mondo precario..".
RispondiEliminaSonia Giovannetti
Carissima Maria Grazia,
RispondiEliminatrovo che la tua disamina sul poeta armeno sia in realtà quanto mai attuale. Viviamo tempi di 'globalizzazione' solo scritta e annunciata. In realtà 'respingiamo' coloro che appartengono ad altre etnie, se non fisicamente con gli oltraggi... che sono spesso peggiori delle violenze fisiche. Tu presenti un Artista poco conosciuto, che la nostra Venezia adottò e che diede alla luce Opere dedicate al suo Oriente, alle radici, ma anche Poesie - Manifesto come "Alla musa", che citi con grande perizia e con conoscenza profonda dell'Autore e della sua modernità.La persecuzione scatenata, tra il 1915 e il 1918, dai turchi nei confronti del popolo armeno residente in Anatolia e nel resto dell’Impero Ottomano rappresenta forse il primo esempio dell’epoca moderna di sistematica soppressione di una minoranza etnico-religiosa.Quanto é importante oggi, ricordare un genocidio di cui si é sempre parlato troppo poco? Quanto é rilevante comprendere le radici di Poeti che mettono in luce i dolori patiti dai loro connazionali? La storia non ha confini. Non si ferma all'Occidente. Varujan ha tenuto fede alle origini e ha saputo farsi ponte con l'Europa anche per rendere la sua storia quello che tu definisci, in modo superbo, 'un presente infinito'. Un autore che ha messo in rilievo la sofferenza universale dei popoli perseguitati, sofferenza , peraltro, che vede un seguito, infatti, oggi, a distanza di tanti anni, quell'impetuoso rigurgito di intolleranza etnico-religiosa, che scatenò la persecuzione contro gli armeni, sta - paradossalmente - interessando un'altra minoranza, quella curda, che da colpevole fiancheggiatrice di una strage si è trasformata a sua volta in vittima di una logica di persecuzione spietata. Le guerre non si fermano. Spostano gli obiettivi. Sembra che vivere in condizioni di perenne conflitto sia la sorte degli individui. Ritrovare un Autore che ha vissuto il genocidio, ha saputo scrivere poesie degne di divenire risposta al dolore, é poterci inchinare di fronte a un uomo che non ha dato alla paura la possibilità di prendere il sopravvento. E' rimasto turco. Ha difeso i valori della sua terra, e ci ha lasciato Opere come "Il canto del pane", pubblicato dopo la sua morte. In 30 poesie il poeta armeno racconta la produzione e la lavorazione del pane, l’aratura dei campi , la semina, tutte le fasi che conducono alla trebbiatura attraverso le piogge di primavera, o le giornate di sole, fino al granaio e al mulino in cui la benedizione (Antasdan) rende sacro il pane. E la narrazione non è solo realistica, ma ricca di metafore il cui principale significato è appunto il legame del popolo con la sua terra, luogo di riconoscimento identitario. La terra che il poeta vede è grembo, ha carattere femminile, chiama con voce suadente, degna di una madre, i contadini, ricordando loro che rappresentano il seme nel solco. Questo riferimento al ciclo dei lavori nei campi ricorda Autori come Pasolini, come Camon e rende la voce del Poeta degna di essere inserita tra le più potenti della nostra letteratura! Varujan fu deportato, subì lo strappo violento, durissimo, incolmabile, dell'allontanamento dalla sua terra, della fuga nel deserto. E riuscì a far levare altissima la sua voce. A lasciare messaggi che oggi possono considerarsi a dir poco didattici.
Ringrazio infinitamente Maria Grazia per aver dato spazio e luce a un simile Artista e le rinnovo la mia ammirazione...
Maria Rizzi
Ringrazio anch'io la Professoressa Ferraris per aver così efficacemente proposto la poesia di Daniel Varujan, che - concordo pienamente con il Prof. Bozzi - reputo, senza dubbio, uno dei maggiori poeti otto-novecenteschi.
RispondiEliminaHo letto "Il canto del pane" e conservo il libro tra i testi più preziosi della mia piccola biblioteca.
Dello scrittore armeno mi ha sempre colpito ciò che - a ragione - la Professoressa definisce il suo "presente infinito". Proprio così: perché questo canto non conosce epoche e neppure patrie storiche. E' il canto sì dell'esilio ma di quello della terra, della sua sacralità.
E' vero: "Alla Musa" è un manifesto nel quale si enuncia non la poetica di un uomo o di un gruppo di artisti ma quella stessa, universale, della poesia. E fa bene la Collaboratrice di Leucade a riportare il pensiero della Arslan: poesia simbolista, certo, quella di Varujan, ma nella quale il simbolo è profondamente radicato nella realtà; poesia tutt'altro che decadente (come succede nelle società all'apice della complessità), no, in questi canti contadini si rileva, invece, la forza prorompente della civiltà arcaica.
Esprimo dunque i miei più sentiti complimenti a Maria Grazia Ferraris per l'acuta disamina, che dimostra l'ottima conoscenza del poeta ed insieme la volontà di dare seguito alla sua voce e di non credere alle illusioni dell'artificio e della pochezza d'ispirazione. Con stima viva e sincera,
Sandro Angelucci
La maggior parte delle poetiche che nascono dal Simbolismo (Baudelaire in prima fila) resta legata al tema nichilistico che considera i simboli totalmente sepolti nell’universo mentale umano. Esiste tuttavia una via diversa del Simbolismo che inverte questa tendenza, per così dire feticistica, legando il simbolo al mistero e al sangue dell'Essere universale, dello Spirito che dal di fuori avvolge e penetra l'umana realtà. A questa seconda via, purtroppo ben presto caduta in oblio, appartiene la breve, ma intensa stagione letteraria di Daniel Varujan, poeta armeno morto assassinato a soli trentuno anni di età. Come egregiamente argomenta la Ferraris, la sua poetica attinge ai "miti indoeuropei precristiani" e rivela una tensione fortemente legata alla terra dei padri: terra patria, che è anche terra matria. Una poetica intrisa di valori altamente civili ed arcaici, tuffata nelle radici elementari e misteriche della vita, della materia e della spiritualità. Una poetica che viene dal sacro primordiale e che si apparenta anche con il Cristianesimo (nonostante questo, per molti aspetti la rifiuti), risorgendo da una visione sostanzialmente edenica della realtà. Il Primitivismo e l'Essenzialismo, ricordiamolo, sono state componenti fondamentali del rinnovamento artistico e culturale promosso dalle avanguardie storiche, ma tutto questo è svanito miseramente sotto i colpi devastanti della massificazione e dell'omologazione, rendendo oramai indispensabile affrontare il tema della rinascita da angolazioni più originarie ed archetipiche. Ringrazio la Professoressa Ferraris per il dono prezioso di questa boccata d'ossigeno nel clima tossico, non più decadente ma decaduto, dell'attuale (in)civiltà.
RispondiEliminaFranco Campegiani
E' singolare la diversità della poesia di Varujan da quella europea della stessa epoca. In Europa assistiamo, per lo più, ad uno snervato decadentismo, che attraversa il clima di fin-siècle e la condizione esistenziale-(auto)celebrativa della belle époque. Sono gli anni certamente densi, ma tutti incentrati sul clima della crisi esistenziale delle coscienze, scosse dai colpevoli atteggiamenti delle nazioni europee alle prese con la logica dell'imperialismo (e del trionfalismo) della potenza e del potere. a parte la reazione del "maledettismo" in Francia e della fragile Scapigliatura in Italia, la poesia europea, poco più tardi, è già, in gran parte, rarefatta e prelude a oscuri momenti del'implosione delle coscienze e delle libertà personali e civili. Al contrario l'articolo della Ferraris propone la lettura di un altro clima e di un'altra storia, con involuzioni autoritarie già in pectore se non in atto. E allora ecco l'atteggiamento e la poesia di Daniel Varujan, legati ad un mondo che da noi appare già al tramonto, a quel mondo contadino forte e ricco di legami ad una terra,amata e libertaria, per cui si vive intensamente e per cui si nuore. Giovani, come il poeta armeno, che vive gli stessi anni di Catullo. La sua poesia dolce e forte, si oggettiva in un linguaggio robusto ed in immagini spontanee e vive, con quel profumo del Pane "consacrato" (come mi aveva insegnato mia madre, che non voleva "il sacrilegio" che in tavola venisse posto rovesciato), con la sacertà della bellezza "dell'aia alla fresca ombra del salice". Un'altra coscienza. Complimenti a M.G.Ferraris per averci proposto un mondo così diverso.
RispondiEliminaUmberto Cerio
Ringrazio tutti gli attenti ed autorevoli amici del blog Leucade che hanno espresso il loro consenso sulla figura e la poesia dell’armeno Daniele Varujan. Hanno toccato corde interpretative di grande spessore culturale, di grande sapienza filosofica e letteraria. Sono veramente grata.
RispondiEliminaIo penso che un blog letterario così importante, come quello diretto con magistrale autorevolezza dal prof. Pardini, debba ospitare spesso interventi che aprono a nuove letture e a nuove conoscenze anche storiche, filosofiche e letterarie e ringrazio di cuore per la possibilità che offre a tutti coloro che si impegnano di esprimersi e di creare circuiti di letture e interventi stimolanti.
Consiglio coloro che sono interessati all’argomento specifico “Armeni” di leggere i vari e ormai numerosi romanzi di Antonia Arslan, che dopo una vita come docente universitaria di letteratura italiana a Padova, ha riscoperto le sue origini armene e si è dedicata a questa ricerca, consapevole di quanto sia forte nelle suo cuore la voce e la missione delle donne armene che l’hanno preceduta
M.Grazia Ferraris
Commento all'articolo di Maria Grazia Ferraris
RispondiEliminaQuanta primigenia forza che proviene da un arcaico mondo rurale, quello degli antichi padri, sprigiona questa poesia di Varujan e quanta bellezza primordiale di una terra incontaminata emana ! Leggiamo un passaggio :... “ / Il piacere, il vigore creatore/che diffonde il Pane, il pane consacrato,/tu insegnami , Musa dei miei padri; /insegnami, e incorona di spighe la mia lira,/ perché sull'aia, alla fresca ombra del salice,/io possa sedere e generare/ le mie canzoni./”
Ma vorrei proporre altri versi, quelli della lirica “Ritorno” un canto aperto all'amore, alla speranza, alla gioia per la natura, che recita tra l'altro: “ /Questa sera veniamo da voi, cantando l'amore/per il sentiero della montagna/o capanne, capanne;/ di fronte alle corna del bue/lasciate che infine si aprano le vostre porte,/che il forno fumi, che si incoronino/ di un fumo azzurro i tetti/...”
Poesie dunque incastonate in una dimensione mitica e simbolica il cui alone avvolge la sua poetica e soprattutto il capolavoro incompiuto, quel “ Canto del Pane” in cui l'alimento per eccellenza assurge alla massima sacralità e che diventerà manifesto luminoso dell'esistenza di una generazione perseguitata e dispersa.
Tutta la poesia di Daniel Varujan è un canto estremo, incessante alla sua terra, una testimonianza nobile e appassionata delle sue profonde radici, quella di un'anima perennemente aperta alla scoperta del fascino dell'oriente e al ritorno alla madre patria.
Un giusto ed efficace tributo quello dell'amica Maria Grazia Ferraris all'uomo e al letterato che con tanta passione ha difeso la storia e le tradizioni della sua gente, fino alla sua barbara uccisione avvenuta a soli 31 anni e che ci ha inevitabilmente riproposto la tragedia di un popolo, quello armeno, cancellato con la sua fede.
Varujan, massimo rappresentate del rinascimento umano e culturale armeno deve essere classificato tra i grandi poeti, quelli che hanno rappresentato l'anima di un intero popolo, cantandone il lustro e la tragedia ma anche considerato tra i più alti esponenti di una genuina e colta poesia contadina dalla mirabile armonia, visceralmente ancorata all'humus della terra, ai costumi, alle gestualità, alle ritualità di territori di sconvolgente bellezza.
La sua è poesia di forte icasticità, contrassegnata dalla potenza cromatica e dalle pregnanti fragranze, in cui si esaltano i valori semplici, genuini della vita coniugati al senso della libertà e della dignità, ma anche dove è costantemente presente il senso della precarietà esistenziale.
La forza lirica di Varujan, il segno distintivo che lo pone tra gli illustri della poesia, nonostante la sua esigua produzione letteraria, sta nel suo messaggio universale nobile, eroico, di assoluta verità nella rappresentazione lirica; sta nella trascinante testimonianza di un mondo costituito a misura d'uomo, supportato dalla fede e costantemente alla ricerca di un'ascesi spirituale. In lui la morte non è fine ma rinascita, nuova fioritura.
I suoi versi, influenzati dalla poetica orientale e dalla cultura bizantina con una forte propensione alla rappresentazione liturgica, ma allo stesso tempo anche forgiati dal simbolismo europeo, si dibattono tra sofferenza e felicità di un popolo la cui vicenda assume straordinario significato umano e religioso.
Carmelo Consoli