martedì 17 maggio 2016

DOMENICO PISANA SU "CON L'INDIA NEGLI OCCHI..." DI ESTER CECERE

IN PUNTA DI LIBRO…di Domenico Pisana. “Con l’India negli occhi, con l’India nel cuore”: la poesia di Ester Cecere tra scoperta, impotenza ed empatia

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Gli occhi e il cuore giuocano un “ruolo ermeneutico” davvero rilevante in quest’ultima raccolta della poetessa tarantina Ester Cecere, come del resto viene dalla stessa dichiarato apertamente nel titolo dell’opera “Con l’India negli occhi, con l’India nel cuore”, Wip Edizioni, 2016.
L’occhio, certo, fotografa per come vede e il cuore assorbe come una spugna, ma la realtà, in questo caso quella dell’India visitata dall’Autrice insieme ad amici, è stata talmente dirompente da non poter non provocare, nella sensibilità della sua anima, il ricorso al verso, non sicuramente per un diletto o per un esercizio letterario, ma per incidere nel suo cuore parole come su pietra, così da divenire indelebili e costringerla a non abbandonare, almeno spiritualmente, i luoghi, i volti, i paesaggi brulli che l’anno sconvolta e costretta ad avviarsi sulla strada della modificazione delle proprie ragioni di vita.
L’impatto della poetessa con l’India dalle “Spinose acacie”; dalla “soffocante polvere”; dalla molteplicità “di buoi, pecore, cinghiali, cani /d’ogni età e d’ogni dimensione” osservati nel loro brancolare ovunque; dai volti di bimbi gracili che s’accaniscono “sulla leva della pompa/per riempire di preziosa acqua/ di lamiera un secchio lercio” nonché di donne intente a preparare “pizzettine gialle”, ci offre il quadro crudo di una realtà che i versi della Cecere trasfigurano in un “grido lacerante” e con una “vis descrittiva” che non lascia il lettore per nulla indifferente.
La struttura poematica della silloge ci mette di fronte ad una “versificazione ininterrotta” che riduce la distanza tra il lettore e il mondo indiano, precisamente quello della regione settentrionale del Rajasthan, così lontano dagli stili di vita del mondo occidentale. E con un verso spontaneo, caldo, asciutto e volutamente lasciato alla sua libertà di espressione e svincolato da esigenze fonico-stilistiche, Ester Cecere lancia messaggi universali per parlare al cuore dei suoi lettori e condurre la loro mente su ciò che lei stessa ha osservato “de visu”: “quella folla di animali per le strade/ dell’igiene e della pulizia a dispetto…”; il “bimbo seminudo” sul braccio di una madre; “Uno scialle rosa sui nerissimi capelli”; “il visetto furbo di birichino/dal bianco sorriso illuminato/tra mucchi di rifiuti e sterco…”.
Sono fotogrammi di una realtà drammatica e impensabile nel Terzo Millennio, che ci provocano e ci interrogano attraverso la poesia della Cecere, alla quale la Musa ha fatto il dono di riportarli sulla pagina per dire una “parola di verità”, sulle grandi differenze che dividono il mondo, sulle diseguaglianze tra i popoli dell’opulenza e i popoli del terzo e quarto mondo.
Scorrendo i versi di questa raccolta, ci si imbatte in un percorso dove il realismo dei luoghi, delle figure, dei paesaggi, degli sguardi che sconvolgono, dei pochi sorrisi che a stento si susseguono, si veste di sofferenza, da un lato, e, dall’altro, riesce a non spogliarsi di quella dignità umana vestita di semplicità, di piccoli gesti, di tenere gioie ritrovate nel gioco con dei sassolini “in un piccolo cortile dai muretti diroccati”, oppure “negli allegri giorni della festa di Diwali, o, ancora, “nei vaporosi lucidi vestiti” indossati da fanciulle simili a “farfalle tropicali”.
La silloge è anche arricchita da un reportage fotografico che – come dice bene la poetessa – non si pone quale insieme di “illustrazioni fedeli alle poesie”, ma come testimonianza di una condivisione esistenziale, di uno status di vita che racchiude in sé povertà e sofferenza, problematiche ambientali e igieniche, ma anche ricerca di senso, bisogno di solidarietà e gesti di accoglienza.
Se consideriamo che il termine fotografia (dal greco antico phôs, luce e graphè, scrittura o disegno) significa scrittura con la luce, lo scopo delle 16 fotografie che accompagnano i versi poetici della raccolta è quello di proiettare una luce sulla storia di un mondo pieno di contraddizioni, nonché di narrare ed esternare, come in questo caso, una indignazione, fermando nel tempo l’intensità di attimi che raccontano la drammaticità della povertà.
Si tratta, infatti, di foto scattate non semplicemente con la macchina, ma fatte con gli occhi, con il cuore, con la mente, quasi al fine di riassumere i tre concetti che caratterizzano l’arte fotografica: il bisogno di rivelare, la voglia di emozionare, l’anelito a catturare.
Direi che poesie e foto di questo libro riescono a creare quella combinazione tra la crudezza della verità (la fame, la povertà, il dolore, l’abbandono, il fatalismo) e il bisogno di far dire all’occhio e al cuore del lettore in uno slancio di solidarietà: è ora di finirla, basta!
Alla Cecere non sembra interessare la fotografia in se stessa, ma catturare la realtà di un dramma che si esprime in tanti dettagli, particolari infiniti, a partire dal colore degli occhi, dei capelli, il tipo di pelle: scura, matura, rugosa. Insomma piccoli frammenti che ti raggiungono mediante ritratti ove il grido dell’anima della poetessa si essenzializza in una forma materica di istanze di giustizia di persone, di uomini, donne e bambini ai quali sono stati rubati sogni, aspirazioni, diritti, pensieri e immaginazione.
Ogni foto crea uno speciale stato d’animo ed evoca una compassione che credo sia davvero dolorosa per il cuore come per l’occhio. Credo che il mondo riprodotto nelle immagini ci offra il senso interiore di una poetessa “altamente empatica” come Ester Cecere, che è in grado di darci le sue poetiche visioni della vita, pur se dolorose, drammatiche e per tanti aspetti semplici, da ogni angolo del globo. La sua “visione” rappresenta una profezia, la speranza che la poesia possa aiutare a rendere migliore e più umano il nostro mondo: la sua opera, poesia e fotografia, è un brivido che scuote i cuori che spesso dimenticano la causa della vita: l’Amore!
In questa raccolta poetica si coglie, dunque, un “continuum” tra poesia e fotografia, un rapporto tra il linguaggio dell’anima e la cromatura delle immagini: il tutto regala al lettore delle emozioni davvero uniche, il desiderio di entrare in contatto con culture assai diverse, di intraprendere con i filmati della memoria un viaggio con cui cogliere i colori e le suggestioni di un paesaggio, osservare e interpretare un particolare, evidenziare le espressioni di un volto o di un corpo.
Proprio grazie a questo “continuum” tra poesia e fotografia, Ester Cecere si rivela una poetessa che non crede alle apparenze ma che cerca sempre le realtà più nascoste e più vere, senza paura nel mostrare le debolezze e le contraddizioni che sono l’essenza e la bellezza delle cose e degli uomini. La poesia di Cecere, insomma, rivela “l’etre” di se stessa in perfetta sintonia con quanto trapela dalle sue immagini: una persona innamorata della vita e che crede nei grandi valori della solidarietà universale, una donna continuamente in movimento e, come spesso accade ai poeti, eternamente con il cuore di “fanciulla”.
Infine, una osservazione merita di essere fatta in ordine al registro stilistico, fonico e strutturale di questa raccolta poetica. Se consideriamo che la Cecere è autrice di quattro raccolte poetiche, ove , e mi riferisco in particolare a “Fragile. Maneggiare con cura”, il rapporto tra scelte stilistiche, contenuto e forma viaggia su livelli di intensa liricità e su coordinate analogiche di ampio respiro poetico che danno al verso significati e ritmi di musicalità rilevanti, in questa ultima silloge si riscontra la scelta di una “poetica diegetica” finalizzata a trasfigurare la realtà, il dato fenomenico senza ricorsi a costrutti metaforici ermetici né a stilemi lirici particolari. E questo perché, a nostro avviso, l’intento dell’Autrice è stato quello di evitare il rischio di “usare la poesia” come strumento di esercizio letterario, prediligendo, invece, di muoversi nella direzione di un “vitalismo poetico” privo di orpelli ed abbellimenti al fine di non stridere con la realtà empirica osservata e con il mondo da lei riportato sulla pagina con il candore di versi che parlano anzitutto a se stessa e poi al cuore dei suoi lettori.
E che per la Cecere la poesia non sia passatempo ma “traduzione della vita” in parole che ti sollecitano “À la recherche du temps perdu ” ce lo rivelano quelle parole da lei stessa scritte nella sua nota: “Ritornata in Italia, rientrando nella mia lussuosa e grande casa, mi sono profondamente vergognata di tutto quello che possiedo, la maggior parte del quale è assolutamente inutile”. Questa è poesia che ha il potere di cambiare la vita!


1 commento:

  1. Nelle poesie contenute in questa plaquette, che ho avuto il piacere di ricevere in dono, l'amica Ester Cecere presenta l'identità culturale dell'India attraverso un'analisi antropologica in chiave lirica, che vola sulle ali delle emozioni. L'autrice segue un registro artistico fruibile ed immediato, che in alcuni passaggi si differenzia timidamente dal suo stile, con un risultato singolare, rafforzato da immagini eloquenti ed estremamente rappresentative...
    Daniela Cecchini

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