mercoledì 4 maggio 2016

VITO LOLLI: "LA LETTERA MORTA E LA PAROLA VIVENTE"




Vito Lolli collaboratore di Lèucade

La lettera morta e la parola vivente

Credo sia sempre giusto, anche se il tempo della vuota retorica è imperante, derivare ciò che si propone da un vissuto, così come è giusto mantenere le parole vicine alla loro origine. Se quello poetico è un "fare" dovremmo pur rendere giustizia a questa parola - e se c'è da tirare le somme di una fase "vissuta" fino al suo esaurimento, lo spirito del fare non può che tirare tale conclusione. Sappiamo che l'oblìo dell'essere è la diagnosi del linguaggio perduto: l'alba della conoscenza è l'esperienza visionaria di quella memoria totale nascosta nel profondo, un vissuto mistico-intuitivo; la parola è il frutto del tentativo di interpretazione-comunicazione-politicizzazione della conoscenza, e la storia della ragione errabonda, la filosofia parolaia, è il frutto della dimenticanza della conoscenza.                                       Solo la conoscenza dà senso alla parola: questo è il luogo della poesia, ma la nostra poesia culmina con la coscienza della perdita del suo senso. 

"Siamo un segno che non indica nulla                                                Siamo dolore                                                                                E abbiamo quasi perso il linguaggio in terra straniera" 
                                             (Hoelderlin)                                                                                                     
Colgo qui l’occasione di rimandarvi alla dotta trattazione che il nostro grande Nazario fa su Hoelderlin nel suo articolo di viaggio in mia compagnia – compagnia della quale sono io ad essere onorato.               
Dopo questa sentenza poetica sul poetare, e non mi sento di azzardare un pronunciamento sulla speranza nascosta nel "quasi", la poesia ha espresso un dolore privo di segno e ha continuato a sperare e credere di produrre i segni perduti in terra straniera. Forse il naufragio della parola è già avvenuto e cerchiamo di non accorgercene: non stiamo dicendo più niente proprio perché, a partire dall'oblìo della conoscenza, che è visione pura, diciamo il niente. La parola, il linguaggio, sono il frutto della fecondazione di una visione interiore. Questo ne fa qualcosa di vivente. Il non-nominabile è il seme di tale gestazione: perduto questo mistico amplesso interiore, la parola diventa lettera morta, corpo luteo in fase mestruale.
Ma la poesia è un fare, pòiein. Fare cosa e come? Essa nacque come funzione che preparava l'esperienza visionaria rimemorativa, preparava cioè un fare qualcosa ma non era quel fare. Qui aveva il suo senso: le parole pilotavano la creazione di immagini mentali che diventavano veicolo di approfondimento nello spazio psichico fino all'origine delle cose. La totalità dello spazio psichico è la totalità del creato, l'uomo è l'autocoscienza dell'universo perché anima e divinità coincidono. Questa consapevolezza era diffusa dovunque fosse viva, nel mondo "antico", la tradizione di questa esperienza.                                    Da poco più di un mese abbiamo festeggiato la Pasqua, l'evento in cui i credenti ripongono le proprie speranze di "vita eterna", quello in cui i non credenti vedono una proiezione della paura di morire e quello semplicemente sconosciuto, avvolto nel disinteresse o nella disinformazione. Ho sentito alcuni di voi mantenere viva l’attenzione per Gesù di Nazareth. Proviamo a riallacciare qualche filo e riportare il "passato"qui, ora.                                                                     
E' nota a tutti la storia delle ricerche sulla Sindone di Torino da quando un negativo fotografico ha rivelato il volto e il corpo che abbiamo visto in tutte le salse. E' del 2010 la conclusione di un lavoro che ha messo in moto ai massimi livelli il potenziale della computer-grafica tridimensionale. Ray Downing il nome dell'ennesimo viaggiatore, e straordinaria la sua testimonianza: due storie si intrecciano, quella di una transizione dal bidimensionale al tridimensionale e quella della trasmutazione dalla morte alla vita. Un'immagine tridimensionale, fatta di luce, codificata in un oggetto bidimensionale quale un telo di lino, diventa il velato messaggio dell'esistenza di una dimensione superiore, una dimensione di Luce nascosta nelle pieghe della nostra imperfetta e parziale realtà. Nell'era delle questioni aperte dalla fisica quantistica, il fatto che la Sindone contenga informazioni "ultradimensionali" in un'immagine a base dimensionale più bassa, è un fatto dalle enormi implicazioni: la fisica ha speso gli ultimi 40 anni cercando la possibile esistenza di dimensioni invisibili più elevate e si chiede se , forse, non stia guardando nella direzione sbagliata. Forse il mondo intorno a noi invia di continuo informazioni da dimensioni superiori e noi non siamo in grado di riconoscerle?
I fatti di Gerusalemme della primavera del 30 d.C. misero in fermento gli ambienti gnostici, in particolare quello di area alessandrina, erede dei grandi misteri egizi e del Mediterraneo, propagatisi fino a Creta ed Eleusi.          La "vittoria" di Gesù di Nazareth sulla "morte" non fece altro che confermare la grandezza degli insegnamenti della Tradizione Primordiale sul "Corpo di Luce", scienza sacra che i sacerdoti israeliti di Melki-tzadeq ("Vero e Giusto") già da età mosaica avevano ereditato da quelli di Horus-Mezdau del tempio di Heliopolis ("Ahura Mazda" in medio oriente) e avevano poi trasferito a Qumran, dove Gesù li apprese.                     Si trattava del segreto dell'energia definita "Zed" nel culto di Osiride - appunto, sua “spina dorsale” -  e della liberazione di tali energie divine nell'uomo attraverso l'emissione di un fascio di energia elettromagnetica che fluisce a doppia spirale lungo l'asse mediano dorsale. Presente nelle immagini di tutte le sottotradizioni ("Risveglio del doppio serpente kundalini" nell'esoterismo induista, il caduceo di Hermes in quello ermetico, il "Nehustan", bastone serpentino innalzato nel deserto in Numeri, in quello ebraico), questo potere è capace di riattivare i sette chakras eterici, equivalenti alle dieci sephiroth dell'Albero della Vita interiore. Anche il Corano, custode della sapienza esoterica islamica, in una delle pagine più belle e misteriose della spiritualità di ogni tempo, vi accenna: "Dio è luce dei cieli e della terra e la sua luce ricorda una nicchia, in cui è una lampada, e la lampada è in un cristallo, e il cristallo è come una stella lucente... Ed è luce su luce" (Corano, 24:35).                        Quest'ultima espressione, che rimanda alle "luci sephirotiche" (i "Cieli" del "Padre Nostro", preghiera rinvenuta tra i frammenti di Qumran), trova corrispondenza, nella fisica quantistica, nei 10 strati quantico-dimensionali del livello subatomico, compenetrati l'uno nell'altro: una vera e propria Scala di Giacobbe, che Gesù percorre in sé stesso trascendendo la morte per realizzare la Vita Eterna, ritornando cioè ad essere ciò che era sempre stato, un Dio, l'Uomo Perfetto immagine e somiglianza di Luce. Si tratta del segreto operativo della scienza alchemica, la trasmutazione di materia in energia, dell'anima carnale in anima spirituale e luminosa, espresso nel lòghion 34 del Vangelo di Tommaso: "Se lo spirito si fa carne (la cosiddetta "caduta", la condensazione) è la meraviglia, ma la carne che si fa spirito (il processo opposto, la "redenzione", la rarefazione) è la meraviglia delle meraviglie". La materia del corpo fisico si trasforma in pura Luce Eterna e una scarica plasmatica impresse con qualità fotografica la sua figura sul telo sindonico, fin nei minimi dettagli: il divino in noi (il "Padre") si ridesta dal lunghissimo letargo dell'oblìo. E qui si coglie la corrispondenza simbolica con il cuore della spiritualità greca: il dio che muore sublimando la natura animale dell'uomo (Dioniso), sperimenta la rimemorazione trasmutante della psichica profondità abissale (Ade) e culmina nella Luce totale della Visione assoluta (Apollo).                                                                                                                         

Questa è la Poesia , il fare che trasmuta. La creazione di linguaggio d'immagine e-vocatrice, preparatoria di questo mistico viaggio interiore verso la Luce che noi siamo, è l'unica funzione poetica delle parole. Il resto è per sua natura privo di senso e, per questo, riflesso di un vuoto, creatore di nulla. Cioè oblìo, decadenza.
Ora, è a partire da un’immagine poetica che prendo le mosse per andare avanti. Dalle più antiche tradizioni, che già si rifacevano ad altri retaggi di esperienza per noi ora non reperibili, fino alle canzoni odierne, c’è l’idea di essere figli delle stelle. Bella, accattivante, ci fa alzare talvolta gli occhi al cielo con un sospiro che sospende per un istante gli affanni quotidiani. Beh, la cosa sembra più seria di un istante diversivo.  La tradizione ermetica egizia insegna che l’uomo vive una morte mistica in cui partorisce “sé stesso”, un secondo sé contenente lo spirito e fornito di un corpo simile all’umano, di materia invisibile, eterna e indistruttibile. E’ un Corpo di Luce, ma non si tratta di quella comunemente visibile, considerata il cadavere della vera Luce. E’ una Luce totale, senza fine o decadimento, eterna, lo “en sof haur” dei cabalisti. Quella che per pochi istanti si manifestò nel corpo di Gesù nell’evento che chiamiamo “trasfigurazione”.               In quello che, invece, chiamiamo “resurrezione”, forse per la prima volta nella storia umana o certamente in quella a noi nota, un uomo acquisì il Corpo di Luce e lo fece manifestando una potente emissione di plasma, di natura simile a quella delle stelle. L’anima umana, nella Tradizione Primordiale, è una stella decaduta nella materia corporale, cioè un essere di Luce immerso nell’oblìo, il cui Corpo di Luce deve essere reintegrato. Questa promessa di reintegro, cioè la cosiddetta “Nuova Alleanza”, è testimoniata da vari riferimenti presenti nelle scritture: “Lo glorificai e di nuovo lo glorificherò” (Giovanni 12-28), a conferma dell’antica promessa fatta ad Abramo di ritornare ad essere stelle, cioè esseri di Luce: “Osserva le stelle… Tale sarà la tua discendenza” (Genesi 15-5), discendenza da non confondere con la riproduzione biologica in gran numero. Il Cristo-Stella è questa discendenza, chiamata “Figlio dell’Uomo” perché mediante la morte mistica, il sacrificio d’amore, rigenera l’uomo interiore come un vero e proprio parto: Gesù ha partorito il Cristo, rigenerando la divinità interiore e realizzando la profezia messianica centrata sulle figure del Melkitzadeq, il Principe di Luce “Vero e Giusto”, autogenerato come autogenerata è la Luce Eterna. Luce di Stella, perché nella tradizione degli Esseni di Qumran il Messia Melkitzadeq è Bar-Kokhba, “Figlio della Stella”. Non è superfluo ricordare che i nostri presepi domestici hanno tutti la stella sulla casetta dove alloggiano le figurine della sacra famiglia, e che il nome di uno dei Re-Sacerdoti che si riuniscono in cerca di Gesù seguendo la Stella è Melchiorre, cioè Melki-haur, “Verità di Luce”.
Il tema della stella nascosta nella forma umana è molto antico. In Numeri 24:17 si profetizza la futura manifestazione della stella in forma umana: “…Io lo vedo, ma non ora… una stella spunterà da Giacobbe…”, mentre in Apocalisse 22:16 il Cristo si presenta come “la radiante stella del mattino”. Le antichissime e segretissime Tavole Smeraldine di Toth recitano testualmente “L’Uomo è una stella incatenata ad un corpo fino alla fine, fino a quando si libera attraverso la propria lotta. Colui che conosce il principio di tutte le cose libera la sua stella dai regni della notte”. Da ricordare che il rituale dell’iniziazione faraonica, dimenticato dal tempo dell’assassinio del faraone Seqnenra II per mano dei cananei, era centrato sulla misteriosa trasmutazione nell’eterna Luce di Osiride simbolizzato dalle stelle della costellazione di Orione.                                                               
Il Corpo di Luce sottintende l’immagine della Terra Promessa, in un simbolismo cui si rifà la teoria di Henri Corbin secondo la quale gli eventi storici sono espressione di eventi che accadono nel Mundus Immaginalis, la dimensione del Mito: la vicenda di Mosè che libera gli ebrei dall’Egitto per condurli alla Terra Promessa diventa l’immagine delle energie che iniziano ad innalzarsi lungo l’asse cerebro-spinale per giungere alla testa, creando il Corpo di Luce attraverso il “matrimonio mistico nella camera nuziale”, l’amplesso unificante di conoscenza e verità, la sincronia dei due emisferi cerebrali e la generazione dell’unicervello.                         
La materia morta trasmuta in energia divina vivente: “…Vattene dal tuo paese… verso il paese che io ti indicherò…” (Genesi 12:1). Nel linguaggio del testo biblico paese, città, non vanno presi alla lettera ma sono immagini di stati di coscienza. Ogni stato di coscienza si manifesta in un veicolo appropriato: la dimensione fisica si esperisce come corpo carnale, la dimensione astrale come corpo di sogno e quella spirituale come corpo di luce, quello che li vive tutti contemporaneamente. Il fatto che a Mosè non fu concesso di entrare nella terra promessa significa che egli non raggiunse il corpo di luce; solo Giosuè-Yeshue vi entra, profetizzando il Yeshue futuro che compirà l’opera del Carro di Fuoco (“merkaba”). In base alla similitudine tra “Merka” (“stella” in antico egizio), “Merkaba” (il “Carro di Luce” dell’esoterismo ebraico) e “America”, si vuole vedere anche nella scoperta dell’America un’allusione alla riconquista del corpo di luce. Lasciamo il beneficio d’inventario ad ogni apparenza e ad ogni gioco di parole.
“E ora, Padre, glorificami innanzi a te con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse” (Giovanni 17:4). Questa è la piena consapevolezza del sacerdozio della trasfigurazione in Luce, il sacerdozio di Melkitzadeq professato a Qumran, che venera il “Dio vivente”: un uomo può trasmutare lo stato di morte in quello vivente innalzando il proprio stato di coscienza nel Corpo di Gloria. La coscienza è di per sé immortale, ma può restare nella morte eterna, nel travaso di corpo in corpo. Il termine “resurrezione” non indicava la reincarnazione, ma una vera e propria rinascita dopo la morte mistica: “… i giusti che risplenderanno come soli nel regno del padre loro…” (Matteo 13:43).                                                      Il principio del Corpo di Gloria è universale, non è limitato alla tradizione giudaico-cristiana, anche se è la storia del suo messia a culminare con la sua manifestazione. Il sufismo lo conosce come “Wujud al aqdas” (“corpo più sacro”) e “Jism asli aqiqi” (“corpo sovraceleste”), il Taoismo come “Corpo di Diamante”; nel buddhismo è il “Corpo Arcobaleno”, nel neoplatonismo è l’Augoeides. Ed è probabile che la Kaaba della Mecca abbia a che fare con il Mer-kaba, il Corpo di Gloria, e con i princìpi egizi del Ka (spirito) e Ba (anima) uniti nella nozze mistiche.
L’effusione di Luce dall’interno verso l’esterno, quella che vediamo nel suo effetto sul telo sindonico, è in sostenza una potentissima irradiazione energetica proveniente dal chakra cardiaco (il “sacro cuore”, l’esperienza incarnata del doloroso travaglio della morte mistica).                                    Il centro segreto di irradiazione di questa energia è l’indistruttibile particella di luce chiamata Luz, il “prodigio dell’osso sacro”, così chiamato proprio perché residenza della Luce nascosta nell’uomo dormiente nell’oblìo.    La natura cristica umana è il Luz, da elevare al centro cardiaco affinché inizi a irradiare dall’interno verso l’esterno. La luce-plasma si libera ed erompe come una folgorazione, un’energia globulare elettro-magnetica che investe come un fulmine l’asse cerebro-spinale dissolvendo tutti i sigilli (i “klipphoth”, da ricollegare all’immagine dell’”apertura dei sette sigilli” dell’Apocalisse, visione mitico-poetica di tale ascesi), cioè le porte di passaggio tra un centro energetico e l’altro, e riattivandoli tutti e sette in apertura totale.             Oggi farebbe ridere il credere che un uomo possa irradiare energia-plasma, visto che il plasma si produce ad altissime temperature. Eppure il mistico Jakob Boehme disse che “… lo spirito di Dio entra come un lampo…”, facendo eco a quello che Matteo 24:27 fa dire a Gesù: “…Come il fulmine viene da oriente (il settimo centro, il sacrale) e brilla fino a occidente (il primo, sopra il capo), così sarà la venuta del Figlio dell’Uomo…”. Fu quel fulmine ad imprimersi sul telo sindonico, ed è quel fulmine a provocarci, cioè a chiamarci in avanti, verso la rimemorazione della nostra natura luminosa nascosta nelle pieghe dell’oblìo.

Se la poesia, conformemente al significato del termine, è un fare, allora il solo vero fare non è altro che questo. Se la storia del pensiero e del linguaggio è l’oblìo dell’essere e l’oblìo di tale oblìo, allora la poesia ha cessato di esistere quando è avvenuto questo oblìo ed è stata la voce dolorosa di questo vuoto errabondo nel non-essere o l’istante entusiastico della rimemorazione. La Luce non è un fenomeno fisico che diventa metafora letteraria filosofica o teologica, è la realtà di cui siamo fatti, la realtà di cui, a vari livelli di complessità e stati di coscienza, a vari stadi di condensazione o rarefazione, tutto è manifestazione. La poesia è camminare verso la Luce per diventare Luce e quindi lasciare tracce e indicazioni del cammino, non leggere o abbracciare i cartelli senza camminare, perché il cammino reale è allontanamento dal cartello.                                  Sappiamo tutti che non si feconda un tessuto mestruale e il ciclo di questa storia deve compiersi. Chi pensa di occuparsi di poesia questo deve viverlo.   

Dimenticata la Luce, la realtà spirituale è stata alienata nel valore del denaro, in nome del quale stiamo follemente realizzando la “redenzione” della terra nella trasformazione in denaro, puro valore assoluto astratto e, come tale, autentica creazione del pensiero religioso. Accumulare denaro, per noi, è spiritualizzare la realtà creando un dio sempre più grande: realtà come Svizzera,Panama, o altro, sono, infatti, il “paradiso fiscale” che protegge dalle forze del male la ricchezza che qualcuno vuole profanare pensando di “materializzarla”, cioè redistribuirla, reinvestirla in attività produttive di beni di consumo primari e mantenimento dei necessari equilibri dell’ecosistema. Di fronte a tutto questo, qual’è il grande, folle gesto poetico, quello che avrebbe come epifenomeno la resurrezione della lettera morta in parola vivente? 
Vi ascolto.

Vito Lolli

3 commenti:

  1. ERRATA CORRIGE
    Nella citazione di Hoelderlin, il verso "...Siamo dolore..." è in realtà "...Siamo senza dolore..."
    VL

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    1. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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    2. Tardivamente rispondo a questa sollecitazione di Vito Lolli perché non ho voluto monopolizzare un dibattito oltremodo stimolante che da qualche mese va avanti, ma che rischia di diventare un dialogo a due (e non capisco perché, visto che in altre sezioni del blog discussioni analoghe sui fini e sui destini della poesia godono del calore di molti contributi). Ho voluto aspettare che altri prendessero la parola, ma così non è stato (ad eccezione di Giusy Frisina) ed è arrivato il momento che io mi esprima. L'oblio dell'Essere è una strada che l'Occidente ha imboccato nella notte dei tempi, si può dire fin dai suoi albori, nel momento in cui il pensiero logico-razionale ha preso il sopravvento sulla più arcaica cultura mitico-sapienziale. C'è da considerare, tuttavia, che il razionalismo è una tendenza della psiche umana precedente alla nascita e allo sviluppo della filosofia. E' quell'indirizzo impostosi nei processi culturali da quando l'uomo scelse di uscire dal Giardino. E' nell'Eden infatti, che risiede l'Albero della Vita ed è lì che prende forma e suono la Parola Vivente, mentre la Lettera Morta nasce dai frutti dell'Albero Proibito che danno la Scienza del Bene e del Male: razionalismo, appunto. La missione del poeta, come di ogni altro essere creativo, è di trasmettere la Parola Vivente, il sangue della vera Sapienza, non certo la funesta putredine e la fetida melma della Lettera Morta, prodotta da un uso insano della sua Ragione. I due Alberi, tuttavia - è detto nell'esegesi ebraica - erano uniti nell'Eden e solo successivamente Adamo ne separò le radici. Là dunque la Vita e la Morte erano strettamente connesse tra di loro? Non è mia intenzione addentrarmi in bibliche esegesi, ma fuor di metafora intendo dire che all'uomo è concesso di vivere contemporaneamente nell'Armonia e nella Disarmonia. Perché non potrebbe? Ce la detto la Fata Morgana? Non è forse questa l'interpretazione più corretta e profonda dell'Armonia dei Contrari? Se l'Essere è, esso è dovunque, nel suo oblio come nel suo Risveglio, senza problema alcuno. Si può riuscire a vivere nel fango senza insudiciarsi, purché con gli occhi (mentali) si riesca sempre e comunque a vedere le stelle. La Luce non potrà mai venire distrutta dalle tenebre, delle quali anzi si avvale. Il danaro, per venire al discorso, non va demonizzato: senza di esso non si fanno neppure le opere buone. Il demonio è l'uomo, non il danaro, ed è un demonio che esiste da sempre, da molto prima che il danaro fosse inventato. Ma il demonio in fondo è anche un angelo, perché tutto è convivenza e la stessa distruzione (che ovviamente nessuno si auspica) occorre all'armonia. Il materialismo oggi imperante non va combattuto con un misticismo parimenti integralista e settario. Caino e Abele sono fratelli, anzi sono un unico uomo. Sbaglia il poeta che si contrappone all'arido mondo dell'oblio dell'Essere in maniera faziosa e partigiana. Deve bonificarlo dall'interno, invece, crescendo in quell'amore che abbraccia anche l'odio, in quella luce che si fa strada nelle tenebre, consapevole che è solo lì che può apparire. In fondo, il valore spirituale dell'uomo d'oggi è superiore a quello dell'uomo di un tempo, proprio perché il materialismo oggi imperante gli impone, per potersi difendere, di dare fondo a tutte le proprie risorse, a tutta la propria luce interiore.
      Franco Campegiani


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