domenica 15 maggio 2016

N. PARDINI: LETTURA DI "LA LUNGA ATTESA" DI BENEDETTO MAGGIO



Benedetto Maggio: La lunga attesa. Casa  Editrice Kimerik. Patti (ME). Pag. 188. € 13,50


Dove sei tu, bambino di quei giorni,
dove sono gli amici, dov’è il cane

che aspettava impaziente i tuoi ritorni?
E’ come un ciclo di avventure vane
questo inseguire, come fan gli storni,

qualcosa d’invisibile. La vita
li sospinge più in là, oltre i contorni
dei tuoi sogni più audaci, tra le dita

di una mano che regola e governa
senza incertezze. È cosa troppo ardita
cercarne un solo senso. Calaverna

ha come steso un manto sui pensieri,
ché non veda, non senta, non discerna
nient’altro che sopiti desideri.

(…)

Un distico iniziale e quarantasette terzine di versi in rima incatenata che mettono subito in guardia sull’abilità del poeta nel versificare. Una struttura di endecasillabi che con la sua sonorità crea uno spartito di eufonica partecipazione; uno stile che fa da supporto a contenuti di generosa valenza emotiva.
Essere ed esistere; niente e tutto; umano e disumano: quel pascaliano “… milieu entre rien et tout” simboleggiato in un fiore reciso dalla falce del tempo. E qui il tempo fa la sua parte nutrendo di sé la filosofia del Nostro; e lo fa in un significante metrico che dà corpo all’ontologica espansione dei sentimenti. Ho scelto questa poesia perché con tutta la sua eufonica  misura avvolge con eleganza e sapienza gli input intimi di Maggio.  Emistichi che interrompono l’andatura cantilenante del re dei versi, e danno respiro alla lettura. E cosa fa il poeta? Cosa ci dice in questa lunga composizione? Racchiude tutto il travaglio della sua vicenda esistenziale; di un viaggio il cui arrivo è di difficile conquista. Dubbi, incertezze; perplessità sui perché del nostro essere, dacché l’uomo in quanto tale parte svantaggiato nei confronti del tutto:

Qui oggi
qualunque timida speranza
conta di più
di ogni
nostra
consapevole certezza. (Questo mucchietto).

E’ a quel porto che il Nostro ambisce arrivare ma al contempo è cosciente della sua precarietà:

Questo mucchietto
di carne vivente
non è nostro.
Si esaurisce
qui
il nostro fine. (Ibidem).

Può essere la memoria a soccorrerlo, a riportarlo a primavere che con la loro lucentezza vincono le sottrazioni della vita:

Ricordi le storie
che i vecchi raccontano ai bimbi
sulla soglia di casa?
E quell’aria afosa di giugno
e l’incerto ma caro e soave
profumo del vento marino
oltre i campi di stoppie? (Ricordi le storie?).

Ricordi passati che, rimasti a decantare nei meandri dell’anima, si traducono in  poesia.
 Sì, un odeporico percorso attraverso mari ora in burrasca, simbolo delle difficoltà di una traversata; ora calmi, invito a riflettere, a sognare, a riposare, a immergersi in mondi che non conoscono le aporie dell’esistere: memoriale, incantamenti, saudade, coscienza dei limiti  del nostro esserci, fughe e ritorni,  illusioni e delusioni, eros e thanatos, affetti, solitudini. Insomma tutti quegli ingredienti che arricchiscono la navigazione dello spirito umano.  D’altronde cosa di più vero della nostra inquietudine? del nostro  tormento nel misurarci col tempo e con l’oltre?

Solo fumo sarà, solo nebbia sarà di noi
ciò che ora non siamo
ciò che ignari già siamo
più niente, più nulla
di noi solcherà la storia; di noi
resterà solo un sorriso. (Di noi resterà solo un sorriso).

Sta qui lo sperdimento  della nostra sostanza umana.  Sta qui la dicotomica dualità che ci rende vulnerabili: piedi a terra  ed occhi al cielo. Sonno e morte: “… Il mistero del sonno e della morte è l’unico tema della grande arte..” affermava De Chirico.  E Höldernin nove anni prima di essere ricoverato in una clinica per alienati mentali, chiede nella lirica Iperione o l’Eremita della Grecia, al “canto” che sia per lui “rifugio amichevole”, affinché la sua “anima, raminga e senza radici/ non smanî di oltrepassare la vita” e divenga “luogo di felicità (…) giardino curato con premuroso amore,/ ove aggirandomi tra fiori in perenne fioritura,/ in sicura semplicità io abbia dimora,/ mentre di fuori con tutto il suo ondeggiare/ il tempo possente, il tempo mutevole rumoreggia lontano”.  Questi i motivi ispiratori che, intrecciati tra loro, creano un mélange  di polisemica valenza metrica; e lo fanno con ritmi ora ampi, ora brevi, secchi, apodittici; con ritmi che cercano di concretizzare, con efficacia, il tourbillon intimo del poeta.
Un volo verso l’alto, verso il cielo; un tentativo di vincere la gravità della terra che ci tiene avvinti con la sua calamita:

Ma nei giorni ritrovo lontano
il mio orizzonte
e dentro me
un uomo sogna invano
il volo eterno
di una capinera. (Non scade in questa notte (1974)).

La lunga attesa, il titolo, e cinque le sezioni in cui si divide l’opera, che deve la sua compattezza ad un filo rosso che la percorre: un sentimento di melanconia che fa da terriccio fertile alla fioritura del canto; all’esplodere  della vita; una realtà vissuta e ri-vissuta in un mondo che appartiene solo al poeta; la coscienza di una avventura che gli è capitata casualmente, e alla quale, in fin dei conti, deve il fatto di esistere in tutta la sua complessità. E anche se a volte una vena di solitudine, di tristezza e di precarietà percorre i versi della plaquette, alla fin fine, è l’amore a vincere su tutto: una fiamma che rende vivo l’altare del poièin, dove sembra che tutto si plachi in un approdo panico, in un rifugio di corpi profumati di storie e di colori; fra gerani e capelvenere indifferenti al sopraggiungere del buio:


Dimmi di sì. dimmi di sì
stasera!
ché la notte non vaghi più
curiosa
tra le alcove segrete
d’altri amanti.
Che si fermi immortale
su di noi
dacché imbrunì la felce
al davanzale
e il geranio si fuse al capelvenere
nel buio. (Dimmi di sì).


Nazario Pardini

1 commento:

  1. Lieto di essere stato io a "presentare" l'opera dell'amico Benedetto Maggio al prof. Pardini nella quale avevo colto molti interessanti elementi.Un'altro autore si unisce ai tanti, degnissimi, che procedono Alla volta di Leucade.
    Ubaldo de Robertis

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