Mariano
Menna: Temporali d’estate. Casa
Editrice Limina Mentis. Villasanta (MB). Pag. 46. € 10,00
Uno
schioccar di calici che nasconde tanta tristezza, tanta melanconia
Temporali
d’estate
Il
sole lascia posto a un cielo cupo,
squarciato
da fulmini e folate
di
vento, che ottenebra le strade
e
lacrima sul mondo senza indugio.
Avevo
già dimenticato il suono
ipnotico
della pioggia che cade;
così
ogni vita è una lunga estate
di
bruschi e devastanti temporali.
Questa
è la poesia incipitaria che, carica di metaforicità, assume la funzione di
valenza eponima: estate, sole, luce, gioia, orizzonti lontani; pioggia,
fulmini, strade ottenebrate, lacrime sul mondo, cieli cupi. La vita, tutta, nella sua complessità esistenziale, dove il bene
e il male, la luce e il buio, formano una dualità di elementi la cui simbiotica
fusione dà luogo allo scorrere del
tempo; di un tempo che ti guarda in faccia, senza risparmiarti avvenimenti negativi,
sottrazioni, e ferite che ci portiamo dietro fino alla fine. Il poeta è cosciente di questa fragilità nei
confronti del tutto ed invita a brindare, a scrollarsi di dosso le malinconie
della quotidianità:
(…)
Brindiamo al brindare che ci
rende felici,
che ci unisce tutti, amici e
nemici.
Brindiamo a chi legge le
nostre parole.
Potrà venirle a cantar quando
vuole. (Osteria).
Uno
schioccar di calici che nasconde tanta tristezza, tanta melanconia:
(…)
I brividi corteggiano i
pensieri,
li invitano a danzare senza
tregua,
mentre la sensatezza si dilegua
e il panico mi mostra i suoi
poteri. (Crisi di panico).
D’altronde
l’uomo si sente e sempre si è sentito a disagio nei confronti della morte,
visto che il suo intelletto è stato commisurato per spazi brevi; e perdersi nei
meandri di un cielo senza limiti o in una notte carica d’infinito è cosa umana
per la cecità di cui soffriamo, dacché lo sguardo ambirebbe a superare i
confini che ci delimitano, ma la terra ci tiene stretti nelle sue braccia, e i
nostri azzardi si perdono nei dubbi e nelle inquietudini del vivere. I versi
corrono limpidi e armoniosi su una struttura di euritmica fluidità, che non
disdegna l’endecasillabo, rafforzato da misure più ampie o più brevi che ne
esaltano la potenza iconico-espressiva; ad aggiungere eufonicità allo spartito
le rime baciate o alternate, che rappresentano un po’ la novità nella scrittura
del Nostro. Quasi a nascondere nella melodia il senso del redde rationem che
s’insinua costante nel percorso della plaquette:
(…)
Più forte è il richiamo alla
morte,
alle rapide ingorde,
questa notte sarà priva di
stelle:
il tuo fiume prosciuga la
pelle. (Bambino del fiume).
Ricorrere
alle acque del fiume, alla loro corsa imperturbabile e irreversibile, ai gorghi
del mare, al loro vorticoso impeto che
tutto macina e dissolve, credo sia la maniera migliore per simboleggiare la
filosofia della vita. Quanta vicinanza in tale analogia con lo scorrere della clessidra
verso un ignoto che segna il nostro essere; possiamo anche azzardare voli verso
orizzonti impossibili, ma non ci è consentito più di tanto: la vita è il tempo
prestato dalla morte; e il rapporto della vicenda umana col tempo è una
ontologica meditazione dai frutti amari:
(…)
La nostra vita è una malattia
grave
che condurrà di sicuro alla
morte;
la sua morfina è una tragica
corsa,
vince chi giunge per primo alla fine,
ma sarà certo un risultato
beffardo:
non c’è alcun premio oltre il
traguardo. (La tentazione di esistere).
D’altronde
anche la felicità è frutto di una corsa infinita: stringe, scompare, gioca con
noi col suo misterioso andare e venire, per non restare:
(…)
La inseguirò ancora in una
corsa infinita,
sapendo che torna, ma non per
restare:
mi stringe di nuovo; poi dopo
scompare,
ma è questo il mistero che
chiamano ‘vita’. (La felicità).
Un
susseguirsi di accoppiamenti di quinari che fungono da significante metrico col
loro guizzare ritmato.
Forse la memoria con l’onirico riuscirà a
sconfiggere in parte l’idea del destino. Rievocare giorni andati, primavere
senza scadenza, filtrate dal tempo, significa
affrontare il destino non ad armi pari, ma, perlomeno, con intenzioni di
prolungare la nostra vicenda:
(…)
Con un fiore torna il mio
passato,
nastro di ricordi ormai
sfocati:
all’inconscio resterà saldato.
Innaffio il bocciolo coi miei
occhi;
sui petali, cristalli di
memoria:
il tempo non l’ha mai
cancellato. (Il ciclamino).
Ma
persino le memorie per Menna sono soggette al passar dei giorni, e sfumano,
si riducono e subiscono l’ingordigia dell’ora:
(…)
Con un fiore torna il mio
passato,
nastro di ricordi ormai
sfocati. (Ibidem).
In
un sonetto di tradizione nostrana il poeta dispiega la sua poetica di vita (memoria,
tempo, saudade, fragilità) ricorrendo a quegli elementi naturali che danno
corpo alla sua epigrammatica interiorità.
Ed il cammino procede con una versificazione
attenta a concretizzare gli input emotivi; le riflessioni di una storia qui
spiattellata senza epigonismi o accorgimenti parafrastici che ne ritarderebbero
la comunicabilità. Una vera confessione, aperta, schietta, sincera, spontanea,
che nutre della sua portata tutto il processo poematico. Sta qui la novità
della scrittura di Menna. Sta, appunto, in un dire più semplice e più
comunicativo del solito; più riposato; reso duttile da rime e accorgimenti
asso-consonantici che ne accentuano la mobilità: rimorsi, date, 1641, 2014,
alienazioni, orizzonti, cieli stellati, fragilità, vertigini, vite precarie,
incontri; fino a Nichilismo:
(…)
Queste mie rime sono polvere
amara,
il vento le spazza lontano già
ora,
sono una vacua preghiera a me
cara,
un requiem disperso nella
gelida bora. (Nichilismo),
dove
una conclusione amara sull’essere e l’esistere, su orizzonti di escatologica
portata, fanno da chiusura a tutto un processo di meditazione sulla vicenda
umana; questo è Menna; e la sua poesia, pur cambiando alquanto da un
punto di vista formale, mantiene la rotta di un navigante senza precisi
orientamenti; di un navigante che, alla deriva, non scorge il chiarore del
faro; e, una volta approdato, non vede luce in questa terra turbata da
ingiustizie e diseguaglianze; dal divario che c’è in ogni città tra grande
ricchezza e disagi della povertà; e anche perché scorge all’orizzonte una
ineluttabile conclusione; un bilancio a cui non può che appendere una resa
incondizionata dopo i travagli del suo
viaggio.
(…)
Aspettate il vostro momento,
tanto arriverà comunque:
sarà vecchiaia per tutti.
(Vecchiaia).
Nazario Pardini
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