venerdì 20 maggio 2016

N. PARDINI: LETTURA DI "TEMPORALI D'ESTATE" DI MARIANO MENNA



Mariano Menna: Temporali d’estate. Casa Editrice Limina Mentis. Villasanta (MB). Pag. 46. € 10,00

Uno schioccar di calici che nasconde tanta tristezza, tanta melanconia


Temporali d’estate

Il sole lascia posto a un cielo cupo,
squarciato da fulmini e folate
di vento, che ottenebra le strade
e lacrima sul mondo senza indugio.

Avevo già dimenticato il suono
ipnotico della pioggia che cade;
così ogni vita è una lunga estate
di bruschi e devastanti temporali.

Questa è la poesia incipitaria che, carica di metaforicità, assume la funzione di valenza eponima: estate, sole, luce, gioia, orizzonti lontani; pioggia, fulmini, strade ottenebrate, lacrime sul mondo, cieli cupi. La vita, tutta,  nella sua complessità esistenziale, dove il bene e il male, la luce e il buio, formano una dualità di elementi la cui simbiotica fusione dà luogo allo scorrere  del tempo; di un tempo che ti guarda in faccia, senza risparmiarti avvenimenti negativi, sottrazioni, e ferite che ci portiamo dietro fino alla fine.  Il poeta è cosciente di questa fragilità nei confronti del tutto ed invita a brindare, a scrollarsi di dosso le malinconie della quotidianità:

(…)
Brindiamo al brindare che ci rende felici,
che ci unisce tutti, amici e nemici.
Brindiamo a chi legge le nostre parole.
Potrà venirle a cantar quando vuole. (Osteria).

Uno schioccar di calici che nasconde tanta tristezza, tanta melanconia:
  
(…)
I brividi corteggiano i pensieri,
li invitano a danzare senza tregua,
mentre la sensatezza si dilegua
e il panico mi mostra i suoi poteri. (Crisi di panico).

D’altronde l’uomo si sente e sempre si è sentito a disagio nei confronti della morte, visto che il suo intelletto è stato commisurato per spazi brevi; e perdersi nei meandri di un cielo senza limiti o in una notte carica d’infinito è cosa umana per la cecità di cui soffriamo, dacché lo sguardo ambirebbe a superare i confini che ci delimitano, ma la terra ci tiene stretti nelle sue braccia, e i nostri azzardi si perdono nei dubbi e nelle inquietudini del vivere. I versi corrono limpidi e armoniosi su una struttura di euritmica fluidità, che non disdegna l’endecasillabo, rafforzato da misure più ampie o più brevi che ne esaltano la potenza iconico-espressiva; ad aggiungere eufonicità allo spartito le rime baciate o alternate, che rappresentano un po’ la novità nella scrittura del Nostro. Quasi a nascondere nella melodia il senso del redde rationem che s’insinua costante nel percorso della plaquette:

(…)
Più forte è il richiamo alla morte,
alle rapide ingorde,
questa notte sarà priva di stelle:
il tuo fiume prosciuga la pelle. (Bambino del fiume).

Ricorrere alle acque del fiume, alla loro corsa imperturbabile e irreversibile, ai gorghi del mare, al loro  vorticoso impeto che tutto macina e dissolve, credo sia la maniera migliore per simboleggiare la filosofia della vita. Quanta vicinanza in tale analogia con lo scorrere della clessidra verso un ignoto che segna il nostro essere; possiamo anche azzardare voli verso orizzonti impossibili, ma non ci è consentito più di tanto: la vita è il tempo prestato dalla morte; e il rapporto della vicenda umana col tempo è una ontologica meditazione dai frutti amari:

(…)
La nostra vita è una malattia grave
che condurrà di sicuro alla morte;
la sua morfina è una tragica corsa,
 vince chi giunge per primo alla fine,
ma sarà certo un risultato beffardo:
non c’è alcun premio oltre il traguardo. (La tentazione di esistere).

D’altronde anche la felicità è frutto di una corsa infinita: stringe, scompare, gioca con noi col suo misterioso andare e venire, per non restare:

(…)
La inseguirò ancora in una corsa infinita,
sapendo che torna, ma non per restare:
mi stringe di nuovo; poi dopo scompare,
ma è questo il mistero che chiamano ‘vita’. (La felicità).

Un susseguirsi di accoppiamenti di quinari che fungono da significante metrico col loro guizzare ritmato.
Forse la memoria con l’onirico riuscirà a sconfiggere in parte l’idea del destino. Rievocare giorni andati, primavere senza scadenza, filtrate dal tempo,  significa affrontare il destino non ad armi pari, ma, perlomeno, con intenzioni di prolungare la nostra vicenda:

(…)
Con un fiore torna il mio passato,
nastro di ricordi ormai sfocati:
all’inconscio resterà saldato.

Innaffio il bocciolo coi miei occhi;
sui petali, cristalli di memoria:
il tempo non l’ha mai cancellato. (Il ciclamino).

Ma persino le memorie per Menna sono soggette al passar dei giorni, e sfumano, si riducono e subiscono l’ingordigia dell’ora:

(…)
Con un fiore torna il mio passato,
nastro di ricordi ormai sfocati. (Ibidem).

In un sonetto di tradizione nostrana il poeta dispiega la sua poetica di vita (memoria, tempo, saudade, fragilità) ricorrendo a quegli elementi naturali che danno corpo alla sua epigrammatica interiorità.
Ed il cammino procede con una versificazione attenta a concretizzare gli input emotivi; le riflessioni di una storia qui spiattellata senza epigonismi o accorgimenti parafrastici che ne ritarderebbero la comunicabilità. Una vera confessione, aperta, schietta, sincera, spontanea, che nutre della sua portata tutto il processo poematico. Sta qui la novità della scrittura di Menna. Sta, appunto, in un dire più semplice e più comunicativo del solito; più riposato; reso duttile da rime e accorgimenti asso-consonantici che ne accentuano la mobilità: rimorsi, date, 1641, 2014, alienazioni, orizzonti, cieli stellati, fragilità, vertigini, vite precarie, incontri; fino a Nichilismo:

(…)
Queste mie rime sono polvere amara,
il vento le spazza lontano già ora,
sono una vacua preghiera a me cara,
un requiem disperso nella gelida bora. (Nichilismo),

dove una conclusione amara sull’essere e l’esistere, su orizzonti di escatologica portata, fanno da chiusura a tutto un processo di meditazione sulla vicenda umana; questo è Menna; e la sua poesia, pur cambiando alquanto da un punto di vista formale, mantiene la rotta di un navigante senza precisi orientamenti; di un navigante che, alla deriva, non scorge il chiarore del faro; e, una volta approdato, non vede luce in questa terra turbata da ingiustizie e diseguaglianze; dal divario che c’è in ogni città tra grande ricchezza e disagi della povertà; e anche perché scorge all’orizzonte una ineluttabile conclusione; un bilancio a cui non può che appendere una resa incondizionata  dopo i travagli del suo viaggio.

(…)
Aspettate il vostro momento,
tanto arriverà comunque:
sarà vecchiaia per tutti. (Vecchiaia).

 Nazario Pardini




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