Il ritmo serrato e melodioso dell’endecasillabo
ricama con colorati riverberi pagine di pregiata fattura , vuoi nella forma ,
vuoi nei contenuti. Un cesello che Nazario Pardini riesce a elaborare con
passione, con emozione, con quella spiccata capacità culturale che lo
distingue in ogni sua stesura. Così come egli agisce con quella energia logica
ed analizzante che si dispiega nei simboli e nelle metafore, variegata da suggestioni, o da ricordi, che inducono ad un lavorio di scavo e di introspezione. “… nel
comporre versi – scrive Sandro Angelucci nella prefazione – si gioca al gioco
più serio del mondo. Scrivere è come arrampicarsi a piedi nudi sugli alberi,
come correre dietro alle farfalle o cercare di acchiappare una piccola
lucertola…. Costruire castelli sulla battigia, vederli franare all’arrivo
dell’onda e riempire di nuovo il secchiello di sabbia è propedeutico, è
fondamentale.” La presenza sulla scena del Parnaso si illumina di una miriade
di poesie, di innumerevoli saggi critici, di contatti corposi, di incisivi
programmi in rete, che affermano nel poeta uno stabile punto di riferimento
per gli esiti raggiunti e per la evidente rifrazione di un tirocinio poetico
quotidiano. Di particolare interesse, in questo volume, la seconda parte,
composta da undici stanze, quasi un poemetto, dedicate a Delia, la donna da
amare, la musa da corteggiare, la carne da accarezzare, la depositaria delle
parole sussurrate “penetranti fra i corpi rosati di cielo”. L’humor che aleggia
rincorre con melodia il mare, per ogni suo ondeggiare, per ogni risacca che
gonfia e lenisce la malinconia, nel tramonto che lento misura il tempo troppo
pigro per chi soffre. Così anche le pressanti preoccupazioni quotidiane hanno
stanze musicali nelle emozioni che si tingono di porpora o nelle fantasie che
hanno risvolti incandescenti, e la sospensione della scrittura ha il movimento
significativo della coagulazione. Il pensiero, amoroso e non, investe
l’inesprimibile nel segno della proiezione, nel segno della fantasia che
diviene di volta in volta fattura lirica, ove l’io poetante risente il tormento
della ricerca e delle corrispondenze.
Antonio Spagnuolo
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