giovedì 25 maggio 2017

N.PARDINI LEGGE: "POESIE" DI GIORGIO MANGANELLI

Giorgio Manganelli: Poesie. Crocetti Editore. Milano. 2007. Pagg.  360. € 20,00


Un massiccio volume di ben 360 pagine, editato per i caratteri di Crocetti Editotre nel 2006 e nel 2207 come seconda edizione,  suddiviso in Poesie, Appendice I, Appendice II, Appendice IIA, II Altre poesie, III Poesie giovanili, che contiene l’attività poetica di un’intera vita di Giorgio Manganelli. Un libro di grande valore documentaristico e epigrammatico per conoscere la poetica e la filosofia di vita di questo grande personaggio del mondo intellettuale dell’altro secolo. E quello che risulta da una lettura diacronica del testo è un crescendo di attenzione che l’Autore pone alla forma, Forma come vita, come desanctisiano risultato, forma come totalità di pensiero, come contenitore di un’anima tutta volta a dire di sé a volte anche con un certo distacco, ma soprattutto a dire del rapporto fra l’esistere e la morte, fra thanatos e eros. La vita in tutta la sua complessità gioca la parte principale nella narrazione. L’inquietudine del fatto di vivere in spazi ristretti, l’insoddisfazione di fronte all’impossibilità di risoluzione delle questioni dell’esistere. D’altronde l’autore ricorre a rocambolesche strutture metrico-sinestetiche, a slargature sintagmatiche, a forzature sintattiche, anacoluti, a stratagemmi retorici per cercare di protrarsi al di là di un linguismo calcolato a misura umana. È lì il bisogno di fuga di Manganelli, quello  di andare oltre la gabbia in cui è chiusa  la sua permanenza terrena: un tentativo di volare o di agguantare il cielo, però coi piedi appesantiti dal fango della vita. Un peso che non ti permette di affrontare viaggi troppo spaziosi. Le ali s’ingrumano, sbattono sugli alberi, cadono al suolo. Ci sono orizzonti che vanno oltre i limiti del nostro sguardo, e che denunciano la povertà della nostra permanenza; una sottrazione che si traduce in saudade, spleen, malessere, inquietudine, coscienza di una precarietà di fondo che ti rende umanamente troppo umano. Il verso cerca con tutte le sue forze di agguantare gli input del pensiero, dell’intelletto, o della cavità emotiva; si fa sdegnato a volte, a volte sarcastico, irriverente, ironico, raramente lirico; risponde al bisogno di un nichilismo spesso invadente e anche quando le emozioni appaiono più placate e distese sono sempre in preda ad una melanconica visione dell’oggi e del poi, confessando con voce franca e schietta “La gioia di essere tristi” come afferma V. Hugo. In una lotta corpo a corpo con l’immagine di Thanatos; in un confronto, a volte, all’ultimo sangue in cui Manganelli non cede le armi; si ribella fino a trovare un elemento di gioia persino nella morte:

C’è nel morire un elemento di gioia,
quando s’abbrevia il corpo
nella positura del grembo,
e la nudità fusiforme
s’appunta ad uno sforzo di luce:
mentre il niente morde
il cuore paziente, rosso,
della maturità. (Pg. 77)

Nazario Pardini


DAL TESTO

Sia lode a Dio per lo spazioso inferno
per l’assenza del sole, la sdentata
fame del vento sulle rosse foglie,
a la blesa querela dementi:
per ogni forma prefigurante
la violenza attiva
del ragionevole niente:
per la città sotterranea dagli angoli esatti,
luogo sintetico, oggettivo,
esente da speranza, imperfettibile –
per il, suo cielo di rame.
(1958, estate)


III

(il morto)
Eh noooo!
D’accordo ci riescono tutti/
Muoiono gli analfabeti, i cani
cimurrosi, i re di damasco,
i pederasti, figurati:
muoiono anche i fascisti.
Eppure:c’è morte e morte, cavaliere!
Eppure: io sono un feto:
fu facile, credi? No.
Un pezzo di dio salato d’anima.
Senza parole. Non stupido, ignaro.
Interrogami! Mi chiedi di dio:
del male e del bene.
Io sono figlio di dio, nient’altro:
un escremento.
31/III/ ‘61


L’indemoniato

Resterò qui accanto alla tua croce
Luogo sgombro, distante, solitario:
qui non salgono i dèmoni a toccarmi.
Ho capelli lunghi come fuochi
sottili,  aggrovigliati: ho la luce
che brucia nelle mani.
I dèmoni ogni giorno
cavalcano il mio corpo.
La mia carne ha paura di bruciare:
non so che pentirmi.
Porto i peccati sulle labbra:
non li voglio ingoiare.
Stringo il tuo corpo
deserto, lungo nell’aria:
la mia chioma minuta mi spaventa,
le dita rapide e sottili:
il terrore mi abbacina, mi salva.

Giuda

La notte estiva è lacerata
dai piedi degli angeli:
hanno spade ferme
nell’aria, hanno lance le mani luminose:
ora sono le mie mani
come quelle degli angeli: le mie membra
non sanno più corrompimento:
già mi ardono i capelli.
Ecco le spade, ecco le lance
ferme sopra di te nell’aria:
il mio corpo  illumina
la strada dove c’incontriamo:
ecco su di me discendere
il vento dolce delle lame.

Giorgio Manganelli


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