Alfonso
Angrisani: Placor. StreetLib Write.
Vignate (MI). 2016. Pg. 151. Euro 9,99
Immaginazione,
mitopoiesi, trasformazione, riduzione, mélange di realtà e fantasia; di
fantasia e anima; di anima e assalti alla diligenza; novità, generosità,
affondi emotivi:
Conoscevo
un tempo un artigiano
aveva
il suo regno
a
piazza della Pigna
vendeva
ali ricamate a mano
son come le scarpe – mi
diceva -
le ali
non possono essere per tutti
eguali
e poi sono troppo pesanti
alcuni
posson volare sol con gli
aeroplani
io
due paia ne ho comprate
il
primo ha le piume tutte colorate
pere
volare dalla mia campagna
quando
il traffico ristagna
l’altro
è bianco come questo foglio
lo
uso per scrivere e non cedere
quando
l’oscurità mi mette il suoi bavaglio_
Una
semplicità apparente, una complessità ridotta ai minimi termini, cosa non
semplice da attuare; risultati a cui un vero poeta può arrivare dopo anni di
meditazione e di crescita umana:
personalità, ricerca, invenzione lessico-fonica, azzardo verso i vertici della
piramide. Partendo da questa pièce incipitaria ci si imbatte da subito in
quella che è la poetica di Angrisani: simbolismo, materia grezza da plasmare,
da adattare con sensibilità ai risvolti della vita; a ché tali risvolti trovino
le loro pieghe in oggetti e cose della quotidianità: volo, ali, che non a tutti sono adatte; alcuni
troppo pesi possono volare solo con gli aerei; per la poesia occorrono ali
forti per spiriti leggeri; metaforicamente il poeta le indossa per scrivere,
per fuggire, per alzare le vele, per superare i limiti, per sentirsi vivo: in
qualsiasi momento la spinta verso l’oltre può avvenire se posseduti dalla
voglia di volare. Saremo, così, placati dall’aria leggera e vitale del canto
nel distacco da un mondo troppo ingolfato di praticità. Placor, aris, presente
passivo del verbo placo, as…: placare, distendere, calmare. Vengo calmato,
vengo placato. Ma da cosa il poeta si sente placato? Io credo dal suo slancio
verso i confini dell’ignoto, verso un mondo altro, quello a cui noi poveri
mortali non è concesso di approdare per la nostra esile barca a misura umana.
Il fatto di sentirsi in volo verso l’eccelso è già di per sé riposante;
appagante; dacché il Nostro è cosciente della esiguità del nostro cammino;
della futilità dell’attimo; ciò che conta è essere in viaggio; marciare; il
fatto di avvicinarsi a ciò che per noi è inarrivabile ci rende potenti e nuovi
Ulissi. Una serenità che si raggiunge
solo nel pianeta dell’arte, su quella sfera che ti permette di vedere dall’alto
le magagne della terra. Una ricerca, un dedalico salto nella luce; una fuga da
un labirinto che ci tiene chiusi e vincolati. Questa la poetica di fondo di Angrisani;
una poetica intrisa di urgenti abbrivi creativi dati in pasto ad una melodia che
ci spiazza per la sua euritmica sonorità, buttata là con non chalance:
endecasillabi, settenari, senari… un alternarsi di voci per accompagnare
un’anima scintillante di meraviglie e stupori; di sorprese allettanti in una storia
di strappi, di evocazioni, di ironico flusso di consonanze anaforicamente
distribuite su un tessuto di malizia
organizzativa; dove sembra, a volte, prevalere più un congegno intento ad una
dimostrazione che ad una sorpresa emotiva fine a se stessa, ad una confessione
spontanea e viscerale. Non di meno si può notare la forza di un messaggio che
l’autore vuole diffondere alla platea: un parenetico gioco di cui la poesia si
fa portatrice:
(…)
E
alla fine in tutto questo noi scrivani
siamo
solo strani esseri umani
figli
di feriali orgasmi
o
di altri casuali chiasmi
vaganti
come antichi fantasmi.
Una
visione di esseri senza rotta, di viandanti sperduti in una società liquida
(Baumann). Antichi fantasmi alla ricerca di se stessi e di tutto ciò che fu
sottratto al loro viaggio terreno in un disincantato fiorire di rime interne ed
esterne; in una trama che sottintende la vena maestra di un autore che osserva
il tutto intrufolandosi anima e corpo nelle vicende umane, troppo umane con sguardi
apparentemente distaccati. Una poesia nuova, dunque, che niente ha a che vedere
con la tradizionale lirica fatta di fiorellini e tramonti; di georgici impatti
o di bucolici andirivieni profumati di mare e di campagna. C’è, sì, il segno di
una realtà che incide in qualche misura sull’animo del poeta; che lo provoca, e
lo attrae; che lo richiama ad una visione oggettivante. Ogni pezzetto del
naturale si fa piedistallo di una epigrammatica interiorità; di un pensamento,
di un’idea su una società che corre senza rendersene conto; e che si inceppa senza
venirne a capo, dove l’uomo sembra fare di tutto per perdere la sua identità di
uomo; per distaccarsi dalla sue origini affogato in un andirivieni
globalizzante che tende a svilire la sua individualità. Una poetica netta,
onesta, e attuale; uno sguardo lucido e triste sulla vita e sulla morte; sulla
morte e la memoria.
Era
bello
rannicchiati
come gatti
guardare
dal nostro rifugio
arredato
di camini e antenne
la
fuga fino all’orizzonte
delle
case e dei tetti
(…)
(Tetti).
Non
si lesinano i minimi particolari, quasi fossimo trascinati da una voglia
feroce di tenerli in vita, come corredo
di una presenza preziosa; come personaggi, essi stessi, non di secondo piano in
una rappresentazione scenica che respira immortalità. Pur cosciente della
precarietà del vivere e della futilità del presente il Nostro cerca con ogni
mezzo di allungare il tiro ricorrendo ai resti di una storia; a tutto ciò che
ancora brilla nel suo animo. E lo fa con un linguismo suasivo, semplicemente
complesso, con una verbalismo che arriva con forza intrusiva a colpirti e a
farti pensare; a farti riflettere sull’esistere, sugli intrecci delle nostre
vicende, su situazioni che si presentano, magari, anche contro la nostra
volontà, perché facenti parte di un sistema che ci cattura e ci spersonalizza.
Un bel dire, insomma; un racconto fatto di invenzioni e nerbi creativi di
grande valenza artistica. Perché Angrisani si mette in gioco con tutto il suo
bagaglio etico, con tutto il suo patrimonio filosofico-intellettivo e lo fa
accostandosi ad ognuno di noi; rendendo fortemente umano ed oggettivo il suo
racconto, ricercando nella realtà quegli spigoli figurativi che si fanno
esemplari per il suo canto. Naturalmente, ed è quello che più conta e che più
dà voce, è la sua personalità polivalente e plurale a partorire versi intrisi
di figurazioni significanti per una poematica narrazione di indiscussa elevazione odeporica. Di
viaggio, sì, di quel viaggio che tende a elevare l’uomo; a trasferirlo in mondi
diversi, altri, con una epifanica rigenerazione, un catartico moto di
ripulitura. Partire da una realtà costellata di miserie, di aporie sottraenti,
di figure che turbano, o di ombre che sanno di morte, o di altre che sanno di
amore, non è difficile. È difficile portarsela dietro questa sostanza, intatta,
pura, incontaminata; tenerla stretta a
noi, sulla pelle, nell’anima, difesa dall’oblio, in questo viaggio verso
orizzonti di indicibile portata; dacché si sa che durante il cammino, durante
il dedalico iter del nostro esser-ci, tante sono le perdite di una
vicissitudine unica e irripetibile:
(…)
un
dedalo di palazzi
un
giorno che sfuma
una
nave che si consegna al mare
un
uomo che si perde nel silenzio
porto
nel mio zaino queste metamorfosi
interiori
visioni del viaggio. (Visioni del viaggio).
Questo
è l’ambire dell’uomo, il suo miraggio: varcare i limiti, i confini del nostro
essere ingabbiati, la circonferenza del cerchio che ci chiude; e che cosa
meglio del mare può indicare questo nostro desiderio di libertà. Il mare,
quell’immenso profilarsi di onde in spazi senza limiti, magari toccato appena
da un esile fascio di faro che tanto dice del nostro essere mortali di fronte
al tutto: Echi
di Baudelairiani: "Uomo libero /
amerai sempre il mare / il mare è il tuo specchio/ nello svolgersi infinito
delle sue onde / contempli la libertà dell'infinito". Echi pascaliani:
“Cos'è un uomo nella
Natura?/ Un nulla davanti all'infinito/
un tutto davanti al nulla,/ qualcosa di
mezzo tra il nulla e il tutto”. (Pascal).
(…)
Aprire
le braccia nel vento
rubare
lenzuola
e giocare a volare
come
giovani pazzi vagabondi
angeli
di città. (Tetti).
Una
silloge di ampia caratura introspettiva dove ogni tasto dell’umano vivere è
affrontato con soluzioni di sperdimento o di sana inquietudine. D’altronde è
proprio dell’uomo, in quanto tale, sentirsi a disagio di fronte alle
insoluzioni che lo attanagliano; o ai tanti perché di difficile soluzione. Si
cerca di stare coi piedi per terra, di prendere nutrimento da fatti e cose di ogni giorno, anche se spesso in maniera
traslata, per non pensare magari agli intrichi esistenziali o a sorti
misteriose che ci toccheranno:
parole cadute una notte, al
bar, il ritorno di Caterina, l’amore sui prati, il gatto, una croce in A4, i
disegni delle ombre, la perdita di certezze, città deserto disumano,
l’illusione del sogno, il riposo dell’anima, l’alibi del mare, cieli di nuvole
e sorrisi d’amore. Tutto questo nella silloge di Alfonso. Una
panoramica suasiva e persuasiva che, con i suoi tocchi vari e articolati,
intrecciati da rime e assonanze, ci chiama alla lettura perché, in fin dei
conti, è un po’ come le ciliegie, un canto tira l’altro e mai ci sentiamo
pienamente sazi, a meno che non ci sperdiamo come naufraghi nella città; visto
che anche da una città si può ricavare un sogno, un calviniano Marcovaldo che
si stordisce facendo la villeggiatura in piazza o vedendo nel semaforo la luna.
mistico
rosa del mattino
camion
passano come bestioni
a
mezza strada tra la città
e
il cielo
non
ho più bisogno
di
chiudere gli occhi
per
credere
non ho più bisogno
di
allargare le braccia
per
volare
le
stelle andate
il
fresco nelle valli
freme
d’attesa tutto l’orizzonte
un
canto di sirena questa febbre
dell’andare.
(Ulisse in città).
Nazario
Pardini
Carissimo Nazario, la tua recensione mi trafigge come la luna trafigge la notte. Con le parole giuste, con il pugno dolce e autentico del critico letterario, sei riuscito ad aggiungere altro alle relazioni di Paolo e Aurora., sei riuscito a leggere la Silloge nella sua interezza, rendendo l'Autore, forse, un pò più sicuro delle proprie capacità e individuando tutti gli aspetti salienti di "Placor". Una Raccolta, quella di Alfonso, che destabilizza, disorienta, induce a riflettere e a prendere atto della propria vulnerabilità. Intimista, non intima, metafisica e di denuncia civile. Originalissima nella stile, che l'Autore stesso descrive come 'prosodia', e che, senza dubbio, non si allontana dalla tecnica della poesia.
RispondiEliminaE' ritmica, musicale, caratterizzata da rime interne, da assonanze e allitterazioni.
Ma scrivere dopo la tua analisi, Nazario, mi sembra un atto impudico. Sono fiera che sia stato scoperto il talento di questo Poeta che ama lo scrivere e non l'esibizione dello scrivere e che cresce con rara, magnifica umiltà.
Vi abbraccio entrambi... a te, Nazario un abbraccio speciale per il lavoro svolto. Il tuo altruismo non può essere definito con la nudità delle parole.
Maria Rizzi