mercoledì 10 maggio 2017

N. PARDINI: LETTURA DI "PLACOR" DI ALFONSO ANGRISANI


Alfonso Angrisani: Placor. StreetLib Write. Vignate (MI). 2016. Pg. 151. Euro 9,99












Immaginazione, mitopoiesi, trasformazione, riduzione, mélange di realtà e fantasia; di fantasia e anima; di anima e assalti alla diligenza; novità, generosità, affondi emotivi:

Conoscevo un tempo un artigiano
aveva il suo regno
a piazza della Pigna
vendeva ali ricamate a mano

son come le scarpe – mi diceva -  le ali
non possono essere per tutti eguali
e poi sono troppo pesanti alcuni
posson volare sol con gli aeroplani

io due paia ne ho comprate
il primo ha le piume tutte colorate
pere volare dalla mia campagna
quando il traffico ristagna

l’altro è bianco come questo foglio
lo uso per scrivere e non cedere
quando l’oscurità mi mette  il suoi bavaglio_

Una semplicità apparente, una complessità ridotta ai minimi termini, cosa non semplice da attuare; risultati a cui un vero poeta può arrivare dopo anni di meditazione  e di crescita umana: personalità, ricerca, invenzione lessico-fonica, azzardo verso i vertici della piramide. Partendo da questa pièce incipitaria ci si imbatte da subito in quella che è la poetica di Angrisani: simbolismo, materia grezza da plasmare, da adattare con sensibilità ai risvolti della vita; a ché tali risvolti trovino le loro pieghe in oggetti e cose della quotidianità: volo,  ali, che non a tutti sono adatte; alcuni troppo pesi possono volare solo con gli aerei; per la poesia occorrono ali forti per spiriti leggeri; metaforicamente il poeta le indossa per scrivere, per fuggire, per alzare le vele, per superare i limiti, per sentirsi vivo: in qualsiasi momento la spinta verso l’oltre può avvenire se posseduti dalla voglia di volare. Saremo, così, placati dall’aria leggera e vitale del canto nel distacco da un mondo troppo ingolfato di praticità. Placor, aris, presente passivo del verbo placo, as…: placare, distendere, calmare. Vengo calmato, vengo placato. Ma da cosa il poeta si sente placato? Io credo dal suo slancio verso i confini dell’ignoto, verso un mondo altro, quello a cui noi poveri mortali non è concesso di approdare per la nostra esile barca a misura umana. Il fatto di sentirsi in volo verso l’eccelso è già di per sé riposante; appagante; dacché il Nostro è cosciente della esiguità del nostro cammino; della futilità dell’attimo; ciò che conta è essere in viaggio; marciare; il fatto di avvicinarsi a ciò che per noi è inarrivabile ci rende potenti e nuovi Ulissi. Una serenità  che si raggiunge solo nel pianeta dell’arte, su quella sfera che ti permette di vedere dall’alto le magagne della terra. Una ricerca, un dedalico salto nella luce; una fuga da un labirinto che ci tiene chiusi e vincolati. Questa la poetica di fondo di Angrisani; una poetica intrisa di urgenti abbrivi creativi dati in pasto ad una melodia che ci spiazza per la sua euritmica sonorità, buttata là con non chalance: endecasillabi, settenari, senari… un alternarsi di voci per accompagnare un’anima scintillante di meraviglie e stupori; di sorprese allettanti in una storia di strappi, di evocazioni, di ironico flusso di consonanze anaforicamente distribuite su un tessuto  di malizia organizzativa; dove sembra, a volte, prevalere più un congegno intento ad una dimostrazione che ad una sorpresa emotiva fine a se stessa, ad una confessione spontanea e viscerale. Non di meno si può notare la forza di un messaggio che l’autore vuole diffondere alla platea: un parenetico gioco di cui la poesia si fa portatrice:

(…)
E alla fine in tutto questo noi scrivani
siamo solo strani esseri umani
figli di feriali orgasmi
o di altri casuali chiasmi
vaganti come antichi fantasmi.

Una visione di esseri senza rotta, di viandanti sperduti in una società liquida (Baumann). Antichi fantasmi alla ricerca di se stessi e di tutto ciò che fu sottratto al loro viaggio terreno in un disincantato fiorire di rime interne ed esterne; in una trama che sottintende la vena maestra di un autore che osserva il tutto intrufolandosi anima e corpo nelle vicende umane, troppo umane con sguardi apparentemente distaccati. Una poesia nuova, dunque, che niente ha a che vedere con la tradizionale lirica fatta di fiorellini e tramonti; di georgici impatti o di bucolici andirivieni profumati di mare e di campagna. C’è, sì, il segno di una realtà che incide in qualche misura sull’animo del poeta; che lo provoca, e lo attrae; che lo richiama ad una visione oggettivante. Ogni pezzetto del naturale si fa piedistallo di una epigrammatica interiorità; di un pensamento, di un’idea su una società che corre senza rendersene conto; e che si inceppa senza venirne a capo, dove l’uomo sembra fare di tutto per perdere la sua identità di uomo; per distaccarsi dalla sue origini affogato in un andirivieni globalizzante che tende a svilire la sua individualità. Una poetica netta, onesta, e attuale; uno sguardo lucido e triste sulla vita e sulla morte; sulla morte e la memoria.

Era bello
rannicchiati come gatti
guardare dal nostro rifugio
arredato di camini e antenne
la fuga fino all’orizzonte
delle case e dei tetti
(…) (Tetti).

Non si lesinano i minimi particolari, quasi fossimo trascinati da una voglia feroce  di tenerli in vita, come corredo di una presenza preziosa; come personaggi, essi stessi, non di secondo piano in una rappresentazione scenica che respira immortalità. Pur cosciente della precarietà del vivere e della futilità del presente il Nostro cerca con ogni mezzo di allungare il tiro ricorrendo ai resti di una storia; a tutto ciò che ancora brilla nel suo animo. E lo fa con un linguismo suasivo, semplicemente complesso, con una verbalismo che arriva con forza intrusiva a colpirti e a farti pensare; a farti riflettere sull’esistere, sugli intrecci delle nostre vicende, su situazioni che si presentano, magari, anche contro la nostra volontà, perché facenti parte di un sistema che ci cattura e ci spersonalizza. Un bel dire, insomma; un racconto fatto di invenzioni e nerbi creativi di grande valenza artistica. Perché Angrisani si mette in gioco con tutto il suo bagaglio etico, con tutto il suo patrimonio filosofico-intellettivo e lo fa accostandosi ad ognuno di noi; rendendo fortemente umano ed oggettivo il suo racconto, ricercando nella realtà quegli spigoli figurativi che si fanno esemplari per il suo canto. Naturalmente, ed è quello che più conta e che più dà voce, è la sua personalità polivalente e plurale a partorire versi intrisi di figurazioni significanti per una poematica narrazione  di indiscussa elevazione odeporica. Di viaggio, sì, di quel viaggio che tende a elevare l’uomo; a trasferirlo in mondi diversi, altri, con una epifanica rigenerazione, un catartico moto di ripulitura. Partire da una realtà costellata di miserie, di aporie sottraenti, di figure che turbano, o di ombre che sanno di morte, o di altre che sanno di amore, non è difficile. È difficile portarsela dietro questa sostanza, intatta, pura, incontaminata; tenerla stretta a  noi, sulla pelle, nell’anima, difesa dall’oblio, in questo viaggio verso orizzonti di indicibile portata; dacché si sa che durante il cammino, durante il dedalico iter del nostro esser-ci, tante sono le perdite di una vicissitudine unica e irripetibile:

(…)
un dedalo di palazzi
un giorno che sfuma
una nave che si consegna al mare
un uomo che si perde nel silenzio
porto nel mio zaino queste metamorfosi
interiori visioni del viaggio. (Visioni del viaggio).

Questo è l’ambire dell’uomo, il suo miraggio: varcare i limiti, i confini del nostro essere ingabbiati, la circonferenza del cerchio che ci chiude; e che cosa meglio del mare può indicare questo nostro desiderio di libertà. Il mare, quell’immenso profilarsi di onde in spazi senza limiti, magari toccato appena da un esile fascio di faro che tanto dice del nostro essere mortali di fronte al tutto: Echi di Baudelairiani: "Uomo libero / amerai sempre il mare / il mare è il tuo specchio/ nello svolgersi infinito delle sue onde / contempli la libertà dell'infinito". Echi pascaliani: “Cos'è un uomo nella Natura?/  Un nulla davanti all'infinito/ un tutto davanti al nulla,/  qualcosa di mezzo tra il nulla e il tutto”.  (Pascal).

(…)
Aprire le braccia nel vento
rubare lenzuola
 e giocare a volare
come giovani pazzi vagabondi
angeli di città. (Tetti).

Una silloge di ampia caratura introspettiva dove ogni tasto dell’umano vivere è affrontato con soluzioni di sperdimento o di sana inquietudine. D’altronde è proprio dell’uomo, in quanto tale, sentirsi a disagio di fronte alle insoluzioni che lo attanagliano; o ai tanti perché di difficile soluzione. Si cerca di stare coi piedi per terra, di prendere nutrimento da fatti e cose  di ogni giorno, anche se spesso in maniera traslata, per non pensare magari agli intrichi esistenziali o a sorti misteriose che ci toccheranno:
parole cadute una notte, al bar, il ritorno di Caterina, l’amore sui prati, il gatto, una croce in A4, i disegni delle ombre, la perdita di certezze, città deserto disumano, l’illusione del sogno, il riposo dell’anima, l’alibi del mare, cieli di nuvole e sorrisi d’amore. Tutto questo nella silloge di Alfonso. Una panoramica suasiva e persuasiva che, con i suoi tocchi vari e articolati, intrecciati da rime e assonanze, ci chiama alla lettura perché, in fin dei conti, è un po’ come le ciliegie, un canto tira l’altro e mai ci sentiamo pienamente sazi, a meno che non ci sperdiamo come naufraghi nella città; visto che anche da una città si può ricavare un sogno, un calviniano Marcovaldo che si stordisce facendo la villeggiatura in piazza o vedendo nel semaforo la luna.

mistico rosa del mattino
camion passano come bestioni
a mezza strada tra la città
e il cielo

non ho più bisogno
di chiudere gli occhi
per credere

    non ho più bisogno
di allargare le braccia
per volare

le stelle andate
il fresco nelle valli
freme d’attesa tutto l’orizzonte

un canto di sirena questa febbre
dell’andare. (Ulisse in città).


Nazario Pardini

1 commento:

  1. Carissimo Nazario, la tua recensione mi trafigge come la luna trafigge la notte. Con le parole giuste, con il pugno dolce e autentico del critico letterario, sei riuscito ad aggiungere altro alle relazioni di Paolo e Aurora., sei riuscito a leggere la Silloge nella sua interezza, rendendo l'Autore, forse, un pò più sicuro delle proprie capacità e individuando tutti gli aspetti salienti di "Placor". Una Raccolta, quella di Alfonso, che destabilizza, disorienta, induce a riflettere e a prendere atto della propria vulnerabilità. Intimista, non intima, metafisica e di denuncia civile. Originalissima nella stile, che l'Autore stesso descrive come 'prosodia', e che, senza dubbio, non si allontana dalla tecnica della poesia.
    E' ritmica, musicale, caratterizzata da rime interne, da assonanze e allitterazioni.
    Ma scrivere dopo la tua analisi, Nazario, mi sembra un atto impudico. Sono fiera che sia stato scoperto il talento di questo Poeta che ama lo scrivere e non l'esibizione dello scrivere e che cresce con rara, magnifica umiltà.
    Vi abbraccio entrambi... a te, Nazario un abbraccio speciale per il lavoro svolto. Il tuo altruismo non può essere definito con la nudità delle parole.
    Maria Rizzi

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