lunedì 29 maggio 2017

CLAUDIO FIORENTINI: "COS'E' LA SCRITTURA?"


Claudio Fiorentini,
collaboratore di Lèucade



Cos’è la scrittura? Possiamo rispondere da diversi punti di vista: 

cos’è per lo scrittore, cos’è per lo psicologo, cos’è per il grafologo, cos’è per il critico, cos’è e cos’è stata nella storia e via dicendo. Unendo i vari punti di vista, tenendo a mente che, come nei film, c’è sempre un mandante (l’idea), un esecutore (la mano, il movimento, il gesto), un’arma (gli strumenti di scrittura) e una vittima (il lettore).
Personalmente non so se importa qualificarla come disciplina o come passione, di fatto anch’io mi dedico a quest’attività per diversi motivi e mi trovo a combattere con questo codice di comunicazione per rispondere alle email, per comporre qualcosa che prima non c’era, per esprimere delle idee o per giustificare mia figlia di una sua assenza a scuola.
La scrittura, però, è pur sempre un codice: serve a rendere permanente la fragilità delle parole, o meglio, la loro transitorietà.
Serve anche per fissare le idee, e qui occorre una divagazione: se  io prendo appunti scrivo per me, quindi utilizzo un codice (abbreviazioni, sigle, segni e disegni…) che solo io posso interpretare in modo, diciamo, inequivocabile. Se invece scrivo una comunicazione (di qualsiasi tipo, lettera, email, denuncia, dichiarazione, etc…), devo usare un linguaggio che sia comprensibile ad altri. Quindi mi sento di 
chiarire: il linguaggio è il mezzo che trasporta, o comunica, dei contenuti, ed è determinato dalla tipologia della comunicazione; la scrittura invece è una solidificazione del linguaggio, scrivere significa fissare su un oggetto, tramite uno strumento, l’idea che deve trasmettere. Tornando indietro, si scriveva sulla sabbia, sulla terra, si incideva su un tronco d’albero o su una stele, si tracciavano segni colorati sulla pelle… ma cosa? Solo segni o simboli, perché non va dimenticato che veniamo da qualche millennio di analfabetismo. Però sorgeva il problema della trasmissione delle informazioni perché, ammettiamolo, imbustare, affrancare e spedire una pietra o un albero è un po’ complesso. E come veniva trasmessa un’idea nel passato? Come poteva diffondersi tra gli analfabeti? Forse si scriveva nell’aria… O meglio, si ricorreva alla 
voce per trasmettere a distanza e si inseriva il contenuto in un codice facilmente memorizzabile per farlo durare il più possibile, occorrevano forse un ritmo e una musicalità precisi, ecco: metro e ritmo, una poesia, insomma. Pensiamo, ad esempio, ai versetti del Corano, trasmessi
attraverso il deserto dalle voci dei Muezzin, e memorizzati da intere popolazioni per secoli… sono poeticamente perfetti nella lingua d’origine, e ancora oggi non possono essere discussi o alterati perché mantengono quella musicalità che ne permette la memorizzazione. Quando la scrittura era appannaggio di qualche privilegiato e quando Gutenberg ancora non aveva inventato nulla, scrivere era una fatica 
riservata a pochi scrivani, un lavoro, insomma, e non ci curavamo certo della calligrafia. La scrittura, come evento puramente meccanico, diventa importante nel momento in cui si impara a scrivere, e allora la calligrafia si personalizza. Anche gli strumenti usati per scrivere evolvono: si parte da un legno bruciato, poi un bastoncino su una tavoletta di cera o di creta, poi una piuma e un liquido scuro, poi una penna, poi una bic, una Remington, una Lettera 32, una telescrivente, un 
computer… e via dicendo. La scrittura, nella sua meccanica, usa strumenti; che siano evoluti o meno, sempre di strumenti si tratta. E per poterli usare occorre il movimento delle mani, quanto di più personale esista, la gestualità privata si trasferisce anche lì, e si fissa in tracce indelebili, su un 
supporto specifico che noi possiamo osservare, e ritradurre in concetti leggendo. Sul supporto c’è da fare un altro discorso, che sia carta o pergamena poco cambia, ma nel deserto, dove invece non c’è carta, si usavano le pelli di capra che, trattate ovviamente con le tecniche dell’epoca, tendevano ad arrotolarsi… questo obbligava lo scrivente a tenere la pelle tesa con una mano e a scrivere con l’altra, fissando una 
parte della pelle con un peso o con un chiodo… ovviamente questo dà un senso alla scrittura, da destra a sinistra se siamo destri, da sinistra a destra se siamo mancini… e si sa che nella storia vince sempre la maggioranza e i mancini non hanno lasciato il segno. Oggi, però, quando vediamo che la scrittura non è più appannaggio di pochi fortunati, assistiamo a una rivoluzione della meccanica della scrittura, che può a breve rivelarsi una involuzione, infatti gli strumenti utilizzati stanno cambiando rapidamente e da qualche anno scriviamo su una tastiera di un notebook se non addirittura su uno 
schermo di vetro, anche di piccole dimensioni, mentre correttori ortografici, traduttori automatici e convertitori audio-text si fanno carico di un antico lavoro riportandoci all’epoca degli scrivani a pagamento. Credo che sia un esercizio inutile prevedere il futuro, dato che questo 
si inventa da sé, ma forse è necessario affrontare il tema proiettandoci un po’ più in là nel tempo per capire come corriamo il rischio di diventare, mettendo in atto quante azioni possibili per evitare degenerazioni e per utilizzare gli strumenti nel migliore dei modi possibili. Io non ho paura del tablet, non temo il convertitore audio-testo, non demonizzo gli strumenti, semmai stigmatizzo l’invito alla pigrizia 
mentale collegato alle altissime velocità che la comunicazione di domani richiederà. Occorre dominare lo strumento, non esserne dominati. Di pasticci il genere umano ne ha combinati tanti, vedremo quello che saremo in grado di fare e se saremo capaci di convivere pacificamente con le innovazioni prima di trasformarle in strumenti di controllo o, peggio, in armi.
Questo per quanto riguarda la meccanica, rimane tuttavia un mistero il perché della scrittura, o meglio, il perché di una certa scrittura. E qui mi collego alla prima parte del libro, dove il protagonista manifesta il bisogno di scrivere e rinuncia persino ad uscire con la donna che ama pur di soddisfare questa sua intima necessità. Scrivere per scrivere. Una pratica del tutto inutile. Scrive qualcosa di utile il medico quando prescrive una cura, l’ingegnere quando descrive un progetto, il chimico, il fisico o il matematico quando nei loro 
simboli riassumono una formula, il giudice con la sua sentenza, l’assicuratore con la sua valutazione del danno, il critico con la sua recensione… Il poeta, il narratore, il musicista (perché anche le note su uno spartito sono scrittura)… che scrivono a fare? Tradurre in codice 
l’inafferrabile, a cosa serve? Il poeta, poi, che scrive cose che sono nei silenzi e tra le righe, significati sottili… cosa li spinge a scrivere non si sa, ma se noi chiedessimo in giro chi ha scritto almeno una poesia nella sua vita, sono sicuro che almeno uno su due alzerà la mano. Bene, abbiamo parlato del movimento, degli strumenti e della loro evoluzione, abbiamo parlato della meccanica dello scrivere e anche del 
motivo per cui si scrive, ma questo resta una visione personale, per capirne di più occorre fare un viaggio attraverso le varie opinioni dei vari scrittori, in questo ci aiuta l’intervento del critico, che ben raccoglie, nel suo breve e istruttivo saggio, opinioni e appunti di numerosi scrittori.
La storia non può essere negata, da quando il primo uomo ha disegnato, con un legno bruciato, un toro sulle pareti della sua caverna, migliaia, milioni, miliardi di altri uomini hanno tentato di fare la stessa cosa: trasmettere il proprio vissuto ad altri. Oggi che a scrivere siamo in tanti, ci troviamo in un mondo di poeti… dico poeti perché a volte basta 
una dichiarazione d’amore per sentirsi tali, e perché la poesia ha i suoi aspetti pratici: è breve e si scrive in cinque minuti.
Però, oltre al mistero dello scrivere, esiste un altro mistero 
complementare, parallelo, speculare… il mistero della lettura.
Già, perché non va dimenticato che chi scrive vuole che lo si legga. Fanno eccezione i medici, dei quali sappiamo quanto sia difficile decifrare la scrittura, o i politici che legiferano, i quali fanno  di tutto per non essere capiti. Ma in linea di principio diciamo che si scrive per far leggere, e qui non c’è dubbio… non ci si può chiedere se prima viene l’uovo o la gallina… prima viene la scrittura, la lettura è la necessaria conseguenza.


Claudio Fiorentini

1 commento:

  1. Caro Claudio, sei partito da molto lontano per arrivare al concetto cruciale. Si scrive 'per far leggere'... Non credo si possa asserire che il paradigma sia universale. Si scrive per essere letti nei casi che hai citato e in molti altri che appartengono alla vita quotidiana - insegnanti, giornalisti, tipografi, etc, etc.-, ma si può scrivere anche solo per il bisogno intimo di farlo, senza aspettative di alcun genere. Scrivere per amore. Non a scopo catartico, semplicemente perchè si è felici di avere il rapporto con il foglio o con il computer. Succede. E va contemplata anche questa possibilità. Senza escludere che il lettore nella maggior parte dei casi rappresenti l'altra metà dell'equazione. Io scrivo senza pensare a quell'all'altra metà, a meno che non invii mail o non mi rivolga a un interlocutore. Scrivo e conservo nei cassetti. E mi sento serena così. Ti ho dato la mia testimonianza, in quanto non credo sia isolata e, qualora lo fosse, non mi vergognerei di essere l'eccezione. Ti stringo e ammiro la tua infaticabile loquacità espressiva.
    Maria Rizzi

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