mercoledì 10 maggio 2017

MARCO DEI FERRARI LEGGE: "I CANTI DELL'ASSENZA" DI N. PARDINI





La “luce” dell'assenza nei “canti” di Pardini
Marco Dei Ferrari,
collaboratore di Lèucade

Pardini concepisce l'assenza (il vuoto) come necessaria componente alla luminosità di un poetico volo (Icaro) dal finito all'infinito. Tutto si coagula nel non essere presente per immaginare un mondo antico e nuovo. Campagne, vigneti, fiori, profumi, Natura, genitori, morti per vivi, amori, invocazioni, ricorrenze, stagioni... ogni verso del suo “Canto” cesella emozioni assenti (ma estremamente vitali) in silenzi personificati dai quadranti del ricamo ritmico.
Ancelle promozionali di un inestricabile “logos”che il poeta sigilla nel paradossale del ricordo smemorato, nella strada dei solchi sbilenchi, nelle strida dei rumori che inneggiano alla vita.
La “casa” dei ricordi è l'essenza dell'attesa più clamorosa: tutto si ascolta e declina i passi, i gesti, i momenti di un tempo felice e spensierato (la Buca dei tassi) con gli zufoli nelle spighe, il palpito d'ottobre, il fornello della nonna, i piedi scalzi del bimbo... Attendere un impensabile ritorno...
La “casa” dei ricordi è tentarsi al ritorno nella luce dei trilli di una rondine e della compagnia degli amici tra le chiome del “chianti” dove si incorpora la visione di presenze dolenti, in sensazioni gioiose e pervasive (la mia casa...) sino a perdersi nelle memorie dei pampini. Ecco l'intreccio esaltante tra forze naturali (onnipresenti) e rifugio intimistico di Nazario (il profumo della giovinezza...), un rifugio che si delinea per immagini di “assoli” fugacemente evidenti in una piazza di paese, o in una corsa sulla sabbia... Assoli in una “fuga” intensificata poi nell'incontro di una vecchia zia, o illuminata nel ricordo del primo amore per dissolversi nel riviversi “marmoreo” di una novembrina terra degli affetti (“...vivere la morte con voi miei cari...” così si esprime il poeta).
E' l'anima più interiorizzata che si misura in un vorticare di echi immaginari e vertiginosi tra cielo, mare e terra per approdarsi e confrontarsi con i “perché” eternamente presenti (in quanto assenti) e con le parole dell'ansia e del dubbio. (Di qui l'accorata “fuga” di popoli sul mare e il “precipizio” carsico...). L'ansia di una apparizione spettrale e graffiante dove la “luce” diviene disumana anche per un Pardini altruista e giocoso, ma meditabondo nel contatto con il “sacro” e l'ineluttabilità del tempo. Il “sacro” dei Miti futuri dove si evidenzia la caduta dell'essere (dimentico del cielo...) che soffre il peso delle sue pietre (il sacco aggrappato alle spalle...) rischiando la “gabbia” del limite e confine terrestre.
Noia, malinconia, curiosità dei confini, tormento di parole sfuggenti, “assenza” sinonimo di un “vuoto” presente: pathos che l'amore libera, qualifica ed eleva sino all'eterno, avvalendosi di un sostegno celeste da accogliersi sullo sfondo del suo misterioso assillo.
Ma tutto sembra reale anche oltre l'eterno: e l'assenza si trasforma dinamicamente nella presenza di “nuova realtà” che le appassionate cantiche a Francesca e Delia dimostrano e che il “tempo” potrebbe rioffrire al poeta nel desiderio del padre o nel raggio di una vita a superare l'indifferenza dei pensieri...
L'eterno ritorno è anche il “muro” che si rianima di essenze spirituali (sotto le ombre dei cipressi...) pronte all'incontro alle soglie dei sepolcri: un incontro “totale” dove le immagini della natura si accompagnano alla “luce”  della notte e dove la vita e la morte vibrano nell'aria e nella beatitudine più cristallina.
E la “luce” (flebile lume...) ritorna nell'orizzonte pardiniano per oscurarne le impossibili “corse” tra il vento, le arcane “mete” di alchimie liriche affollate di ricordi e di un pensiero smarrito nel naufragio “del nostro eterno esilio”.
L'esilio che si abbraccia alla sua primavera ora senza memorie e continua la vita di sempre, ma rinnovata da una giovinezza spirituale inaudita che si incontra in spine colorate senza rovi.
L'esilio che il “volo” di Icaro non scopre ma verticalmente brancola prima di precipitare nello sprofondo degli abissi onorando il padre e cercandone l'aiuto alla sfida: il “pendolo” familiare che Pardini pone a simbolo del suo narrare libero e ardito che trova nel “sepolcro” d'Icaria la dimensione più autentica e nella ricerca di “orizzonti” smarriti il corso itinerante del suo tentativo  esistenziale dal finito all'infinito.

                                Marco dei Ferrari        

 


2 commenti:

  1. Un'analisi puntuale che entra nelle viscere ddll'opera e la rende interattiva sotto il profilo di comunicazione critica.
    Leggendo queste notazioni di Dei Ferrari, chi si pepara alla lettura ne può intuire da subito gli intenti emozionali,attuando preliminari collegamenti di Pardini con i Poeti classici ed una certa impostazione pascoliana.
    Tuttavia le sollecitazioni sono anche a riflessioni filosofiche introspettive , come ad indagare anche su una sorta di silenzio ermetico che si presenta e ripresenta pulsante tale ad cuore che batte.
    Marco ci dà la dimensione di una critica espansiva che va oltre l'esame testuale e si addentra nei segreti dell'anima.

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  2. Non ho ancora letto "I canti dell'assenza" di Nazario Pardini e questa analisi di Marco dei Ferrari non può che invogliarmi a farlo.
    Con la consueta maestria di critico e di poeta Marco penetra nelle pieghe più intime del testo e ne rivela l'essenza: il rapporto con il tempo, le antinomie finito/infinito,mythos/pathos.rimandano a una ricerca esistenziale che si pone in una prospettiva universalistica e trova nella poesia l'espressione più propria, per la densità di significati e le suggestioni culturali e letterarie che vi si respirano.
    A Marco dei Ferrari il merito di aver colto ll senso dell'opera nella sua complessità e di avercelo restituito con la consueta profondità e finezza.

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