INFANZIA FELICE
Pietro Rainero, collaboratore di Lèucade |
“E tu cosa mi dai in cambio dei miei
cinque giornalini di Topolino?” chiese
Wanda.
“Io ti regalo il pendolo di Galileo” le
promise suo cugino, di passaggio in quei giorni a Montechiaro, ospite della
famiglia di Wanda.
Io, sentendo quelle parole, ero
divertito e dubbioso: come poteva, il ragazzo, possedere proprio il pendolo del
grande scienziato? D'accordo, studiava alla Normale di Pisa, ma a me, nella mia
ingenuità di bimbo di sette od otto anni, sembrava inverosimile che egli
potesse dare a sua cugina il pendolo di Galileo, quello originale.
La famiglia di Wanda, composta da
padre, madre, un figlio di nome Giovanni, mio carissimo compagno di giochi, e
appunto Wanda, ragazzina di 12 o 13 anni, era proprietaria del mobilificio del
paese. Il mobilificio, naturalmente, aveva anche annessa una segheria che,
praticamente tutti i giorni, produceva come scarti di lavorazione segatura e
piccoli pezzi, parallelepipedi di legno, lunghi al massimo quasi un palmo.
Il cugino di Wanda (del quale, mi rincresce,
non mi ricordo proprio il nome) prese uno di questi pezzetti di legno, gli legò
attorno uno spago e poi fece dondolare il tutto, tenendo il capo del fil di
spago.
“Ecco, questo è il pendolo di Galileo!”
annunciò con aria seria, quasi pronunciasse un oracolo in quel di Delfi.
E quando mi sentì ridere (già, ero
scoppiato a ridere, pensando a come fosse scema Wanda a credere a
quell'impostore) mi rimproverò sottolineando: “Sì! Questo è il pendolo di
Galileo!”.
Quella stupida oca della sorella di
Giovanni gli diede i 5 giornalini da lui desiderati e tutto finì lì.
Erano giorni felici, quelli!
Io abitavo a poche decine di metri
dalla segheria, al terzo piano di una casa che ospitava anche, al livello del
suolo, l'ufficio postale e subito sotto di me, al secondo piano, un cancelliere
di Tribunale con moglie e figlia piccola.
Avevo due amici inseparabili, Giovanni,
il fratello di Wanda che già conoscete, e Beppe. Anche quest'ultimo abitava
vicino alla segheria dei genitori di Giovanni, nei pressi della quale c'era
anche il meccanico, che ogni tanto osservavamo mentre aggiustava qualcuna delle
poche automobili che a quei tempi transitavano sulla Statale, di fronte alla
mia abitazione.
Eravamo sempre insieme, noi tre: io,
Beppe e Giovanni. Qualche volta coglievamo nei prati delle margherite, alle
quali staccavamo tutti i petali tranne uno o due. Così il fiore diventava un
pellerossa fornito di penne sulla testa. Naturalmente al capo della tribù
toglievamo solo la metà dei petali per cui la parte superiore della margherita
assomigliava davvero alle foto di Nuvola Rossa o degli altri prestigiosi capi
indiani.
Andavamo anche a caccia, a caccia di
uccellini, nei campi, armati con i nostri fucili ad aria compressa. Cosa
usavamo come proiettili?! Ma semplice! Piccoli tappi di sughero ai quali
avevamo attaccato dei chiodi! Quanti uccelli abbiamo abbattuto? Beh...il conto,
ovviamente, ammonta a ...zero.
Facevamo anche torte, oh sì! Torte per
la merenda. O meglio, le bambine (oltre a Wanda frequentava il nostro gruppo un'altra
bimba di origini meridionali) facevano torte. Ed erano buone? Non so che dirvi:
non le ho mai assaggiate. Però sicuramente erano belle! Le due bambine le
facevano con il fango. Modellavano con
le mani il fango per dargli la forma di piccole torte e poi tutti noi, anche i
maschietti, le decoravamo con scritte varie, incidendo con le dita parole ed
immagini. Le lasciavamo poi essiccare e via! Il gioco era fatto! Erano dolci
bellissimi, lo ribadisco, torte di color grigio o marroncino.
Proprio davanti alla casa di Beppe
c'era poi, e c'è rimasto a lungo, un mucchio di sabbia che a noi bambini
sembrava di grandi dimensioni. Quante ore passate su quel mucchio di arena!
Disegnavamo stradine che poi lastricavamo con ciotole levigate e piatte: e la
sabbia diventava un'antica città romana attraversata dalla via Appia o dalla
via Salaria. A turno, due di noi tre
erano consoli di quell'antica Roma e decidevano quali opere intraprendere e le
modifiche da apportare all'architettura della capitale dell'Impero. Oppure il
mucchio di fini granelli diventava, in altre occasioni, un vulcano, il Vesuvio
dei tempi di Pompei. Praticavamo un buco alla sommità del cumulo di sabbia e
nel buco buttavamo carta che poi incendiavamo: ed ecco che la montagnola,
magicamente, si trasformava nel vulcano napoletano che eruttava fumo, cenere e
lapilli.
Altre volte, catturato un ignaro gatto
che passava nelle vicinanze, i nostri giochi di colpo si trasformavano in uno
spettacolo circense con le evoluzioni fatte da una tigre feroce per divertire
gli spettatori.
Ma il gioco che io adoravo era un
altro.
Come materiale di scarto della
segheria, ormai lo sapete, venivano prodotti dalla cinghia metallica dentellata
usata per tagliare il legno dei piccoli pezzetti a forma di parallelepipedi, lunghi
qualche centimetro.
Sapete come li utilizzavamo? Piantavamo quattro chiodi nella faccia
inferiore del pezzo, uno obliquo in quella posteriore e due anteriormente verso
l'alto ed il pezzo, per magia, diventava un vitello, od una mucca. Eravamo proprietari di intere mandrie di
bovini, eravamo allevatori, eravamo ricchi.
Giocavamo con i vulcani, edificavamo
l'antica Roma, litigavamo per fare i Consoli, governavamo capi di bestiame,
creavamo torte di fango, cacciavamo uccelli e ci arrampicavamo sugli alberi.
Ah, sì, ora ricordo: simulavamo anche
partite di calcio con le figurine dei calciatori. Io ero l'allenatore della
fantastica nazionale brasiliana di Pelè.
Ecco, questo io ricordo della mai
infanzia.
E ricordo pure quando, la sera,
aspettavo mio padre nascosto tra il legname posto a metà strada tra la mia
abitazione e la panetteria del signor Costante, e tutte le sere papà si stupiva
e sorprendeva nel vedermi, e pure di quando mi regalarono una piccola anatra
(adoravo la fiaba del brutto anatroccolo), di quando, a metà agosto,
accendevano un enorme falò nel campo dietro la mia casa.
E di quando, al calar delle prime
ombre, la sera, mi recavo a prendere il latte, come voleva mia madre, alla
fattoria dei miei cugini, distante qualche centinaio di metri.
E tornando verso casa, nel fosso che
costeggiava la strada Statale numero 30, mi fermavo immancabilmente a guardare
le stelle, incantato, e sognavo di diventare astronomo.
E mi ricordo anche del sciur Giovanni,
sì. Un signore molto anziano che abitava con la domestica in una casina proprio
di fronte a casa nostra e che mi aveva preso in simpatia. Il povero sciur
Giovanni che, poco prima di morire, aveva avuto ancora un pensiero per me
dicendo“Mi raccomando, dite a Piero di essere buono!”
Queste, e poche altre cose mi ricordo
della mia infanzia a Montechiaro, quando nel borgo alto del paese c'erano
ancora i ruderi del vecchio castello, poi rimossi.
Ora il cucuzzolo della collina è
spoglio, anonimo.
Ora io sono un insegnante di
matematica.
Beppe? Beppe l'ho rivisto ancora poche
settimane fa, è in pensione ed è stato sindaco del paese che confina con
Montechiaro.
Giovanni, che ha fatto anche il maestro
di tennis, che sappia io è ancora vivo e vegeto pure lui.
Non so nulla di Wanda e degli altri, a
parte Bruno, che suona sporadicamente in un complesso musicale nelle feste di
paese.
Qualche mio compagno di scuola di
allora purtroppo non c'è più, e qualcuno è morto pure da giovane, troppo
giovane.
Tra qualche decennio io abiterò nella
tomba di famiglia in un paesello della Val d'Erro, in un loculo a due o tre
metri di altezza.
Sotto quanti metri di terra sarà
sepolto Beppe?
E Giovanni?
E Wanda?
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