Luciano Domenighini,
collaboratore di Lèucade
Luciano Domenighini legge: DAGLI SCAFFALI DELLA BIBLIOTECA, di Nazario Pardini
Tre
parti compongono quest’opera, ultima fatica poetica di Nazario Pardini. La
prima (“Ricordi che pungono”) e la terza (“Dieci poesie d’amore”) hanno
un’impronta squisitamente lirica e proseguono, in una dimensione ucronica,
l’ininterrotto lavoro poetico di recupero, riproposizione e celebrazione dei tesori,
custoditi nella memoria, del proprio vissuto affettivo.
La
sezione centrale, più corposa, quella che dà il titolo al libro, formata da
trenta composizioni contrassegnate da numeri romani, è una dissertazione
letteraria “sui generis”, del tutto informale, frammentaria, disorganica, fatta
di epifaniche e illuminanti rivisitazioni degli autori che hanno lasciato un
segno nella mente e che riaffiorano quasi spontaneamente dalla memoria a
formare un melange rielaborativo di evocazioni e di citazioni, frutto più di
suggestioni affettive che di lucide valutazioni critiche.
Uno
stuolo di nomi poetici, ora celeberrimi ora meno famosi, si succede a
configurare, più per suggestione che per scelta critica, più per empatia che
per formazione letteraria, quest’adunata di riferimenti prediletti.
Pardini
li rappresenta con pochi tratti identificanti, tanto letterari quanto
biografici, ora frequentandone aspetti particolari e poco noti, ora
riproponendone lo stereotipo mitico, ma sempre all’interno di una propria
geniale e originale rielaborazione poetica.
In
queste comparizioni, con l’agronomica sapienza di chi conosce l’arte
dell’innesto, ad adornarle e quasi a convalidarle, figura sempre una citazione
testuale particolarmente pregnante e rappresentativa del personaggio letterario
evocato.
E’ un
piacere per l’appassionato di lettere, inclito o incolto che sia, percorrere
queste fervide pagine, in cui la letteratura per Pardini si fa parte integrante e indissolubile del suo
“status” esistenziale.
Moti
di commozione colgono il lettore che assiste alle transepocali adunanze di
poeti che l’autore auspica e consorzia, ai colloqui, ora amichevoli, ora
conflittuali, che vi immagina, in una sensibile trama di affinità e di
corrispondenze col proprio sentire, divenendo compositore, orchestratore e
direttore di un’ideale, grandiosa e singolare rapsodia poetica.
Un
quieto, quotidiano idillio campestre apre questa parte, nei primi tre numeri, a
mo’ di “esterno” cinematografico in tre inquadrature:
I
“Il
sole si distende e con la luce
si
siede inconsciamente sul muretto
che
divide i baci di Luisa
dagli
sguardi insistenti di Riccardo.
……….”
II
“Col
libro in mano vedo
che
oggi il cielo è sereno. Nel campo
le
donne raccolgono spinaci,
mentre
sul péro il merlo fischia allegro
la
bella serenata alla natura.
…..”
III
“La
campagna è fiorita. Sopra il prato
sono
seduto accanto
a
Catullo, Manzoni e Leopardi;
il
tempo si è fermato, si è stancato
di
misurare il mondo; si è accasciato.
…………”
Questa
“ouverture in esterno” è chiusa, al numero IV, da una meditazione di ascendenza
lucreziana, severa, impietosa, ma esposta in un dimesso tono colloquiale:
“IV
E’
inutile pensare che la natura
ti
stia vicina per contribuire
a
rivelare il mondo che ti è dentro.
Niente
di più falso. Quella lì
è solo
preoccupata di gestire
un
insieme di ingranaggi che t’impigliano
nella
rete fottuta del destino.
Essa
va per conto suo indifferente
a
tutto ciò che noi pensiamo
esserci
vicino per natura.”
Al
numero V l’ambiente diviene l’ “interno” che dà il titolo al libro, lo studio
del poeta, la sua biblioteca.
A dire
il vero le prime “apparizioni” non sono cordiali: tre grandi, Baudelaire, Platone e Dante, infastiditi e
sdegnati, gli si oppongono invitandolo a non disturbare la somma quiete del
loro empireo.
Ma in
suo soccorso accorre l’amato Catullo (IX)
“Fu
allora che Catullo,
uscendo
dal buiore,
mi si
pose davanti
e
iniziò a recitarmi
con il
viso triste e smunto
alcuni
passi dei Carmi:
……..”
Allora
“dall’ultimo scaffale”, come per incanto, si materializza “un quaderno
con le pagine aggrinzite” dal “volto
mesto” ,“ un po’ isolato/ sfigurato negli anni, e alquanto triste”, che
chiede al poeta di riempire le sue pagine vuote e di ripercorrere la storia
della sua famiglia (X).
E il
poeta lo fa, dialogando con esso, in una rievocazione commossa e toccante,
conclusa con parole colme di saggezza antica:
“……….
Forse i tempi belli
furono
proprio quelli in cui si amarono
nella
miseria nera tutti assieme;
si sa
che tutto quanto non puoi avere,
ma se
uno conserva i bei ricordi
è già
una cosa buona.
……………….”
E così
anche l’opera poetica di Nazario può entrare di diritto nella Biblioteca
affiancandosi ai grandi poeti del passato (XI):
“Si
dispose il quaderno inorgoglito
dello
scritto ricevuto a riposare
accanto
ai grandi della biblioteca.”
Ragguardevole
il numero XIX dove, con realistica asprezza, ripercorre la dolorosa vicenda del
suo conterraneo Dino Campana inserendo abilmente nel testo, quasi per
addolcirlo, i versi teneri e straniati di una celebre lirica amorosa del genio
di Marradi.
“In un
momento
sono
sfiorite le rose
i
petali caduti
perché
io non potevo dimenticare le rose
le
cercavamo insieme…”
Gli fa
da controcanto , nel numero successivo (XX), la bella scrittrice che gli fu
accanto in un breve tempo felice:
“Di
Sibilla Aleramo
s’udirono
i sospiri
in
ricordo dei tempi dell’amore;
……”
Ma
subito poi, Trilussa, nel XXI, mette un po’ di buon umore al malinconico
consesso di poeti declamando i versi scherzosi,
arguti e beffardi,
dell’
“omo e della Scimmia”.
“
-L’omo
disse alla Scimmia
“Sei
brutta, dispettosa;
ma
come sei ridicola!
Quand’io
te vedo, rido:
rido
nun se sa quanto!...”
La
Scimmia disse : -Sfido!
T’arrassomijo
tanto!-
Subito
dopo però , nel XXII, il tono diviene austero e compare l’inqueto spirito di
Ugo Foscolo, presentato con questi versi:
“Sentii
il passo lieve endecasillabo
di
chi, dando armonie alla pietà,
girava
per le stanze dei poeti:
-All’ombra
dei cipressi e dentro l’urne
……”
Negli
scaffali della sua biblioteca i libri si personificano, diventano essi stessi i
loro Autori e così, nel XVII, il Canzoniere di Umberto Saba ( già citato
nel XII) prende voce e diventa Saba
stesso che si lagna di essere stato spostato lontano dagli amati Canti
di Leopardi.
-Quale
il motivo di cambiarmi luogo?
Stavo
accanto a Leopardi e si parlava
Di una
vita di storia e di poesia.
…..”
Manzoni,
Leopardi, D’Annunzio, Pavese, Cardarelli,Ungaretti, Bertolucci, Caproni, Quasimodo,
si susseguono prendendo vita in questa ideale resurrezione, disquisendo della
poesia e del suo destino in un Novecento letterario imploso, involuto e criptico,
sempre più tecnologico e “antipoetico”.
E
infine, Montale che, sussiegoso manco a dirlo, si risente perché il poeta ha
osato mettere una sua poesia accanto agli Ossi di seppia.
Come
per Bertolucci, una particolare, amorosa attenzione è rivolta a due poeti cosiddetti “minori”, nei
quali Pardini ravvisa una dimensione umana e artistica affine
alla propria. Così, nel
numero XVI, il poeta si riconosce in Francesco Pastonchi, a un tempo dotto
letterato ed insieme appassionato, ingenuo cantore della natura, del quale cita
testualmente una magnifica sestina di settenari in rima:
“La
primavera è giunta,
e se
fiore, dai pèschi
abbrividendo
ai freschi
venti,
non anche spunta,
e se
pioppo non svaria:
primavera
è nell’aria.”
Allo
stesso modo, nella lirica di congedo (XXX), raccoglie il richiamo di Sergio
Solmi,
“il
più innocente e dolce/
fra tutti gli scrittori del suo tempo”,
e ne riporta un delicato passaggio poetico:
“Scende,
si posa sui tetti e sui balconi
L’antica
neve. Dai vetri m’apparve
Ai
miei meravigliati occhi d’infanzia.
Esita
presso terra a un breve soffio
D’aria
mossa, ricade leggermente.”
Il
modulo metrico portante, caratteristico della poesia pardiniana, è un “melange”
polimetrico prosimetrico, formato da stanze di varia lunghezza di endecasillabi
sciolti, talora “corti” ( decasillabi o doppi quinari) , talaltra “lunghi” (
dodecasillabi o doppi senari), di vario andamento ritmico, a cui si alternano
sporadici versi più brevi ( per lo più settenari).
La “nonchalance”
metrica di Pardini rientra nella sua particolare concezione del dettato poetico
che, per lo scrittore, non deve discostarsi più di tanto dalla lingua comune e
parlata, rifuggendo quanto possibile da un linguaggio aulico ed erudito che,
per quanto nobile, elegante e musicale, rischia sempre di arenarsi nelle secche
di una forma artificiosa, comunque riservata a un’”elite” di lettori.
In
questa sua ultima raccolta si nota ancor più che in passato l’atteggiamento
disinvolto se non addirittura spregiudicato nei confronti della normativa metrica.
Non di
rado, a un’attenta lettura, si ravvisa la deliberata rinuncia a una troncatura,
a un’elisione, a un’apocope, a un’enclisi, a un iperbato che avrebbero
aggiustato il metro, in favore di un linguaggio piano e corrente, diretto e
comprensibile, né, d’altra parte, è lecito pensare che tali inadempienze siano
casuali o conseguenti a una lacunosa conoscenza delle regole metriche, vista e
considerata la sapiente fattura di certi passaggi di versificazione o la
splendida, musicale scolpitezza di certe aperture strofiche in endecasillabi.
E’ un
luogo della mente questo libro straordinario, in cui Nazario Pardini, senza
orpelli e paludamenti, con la serenità dei sapienti e la modestia dei giusti,
testimonia e confessa gli ambiti della sua formazione letteraria e ribadisce le
ragioni della sua poesia.
Pur
nelle sua dimensione contenuta, “Dagli scaffali della Biblioteca”, opera
alquanto singolare per l’originalità dell’idea portante e per la forza
immaginativa del suo svolgimento, rappresenta una “summa” eloquente e una
sintesi esaustiva della vicenda umana e artistica del poeta toscano.
Luciano
Domenighini
dicembre
2020
La
carica espressiva del verso conclusivo, un endecasillabo comparativo
all’imperfetto di suggestiva vaghezza, in luminosa purità d’accento,
(…/”di
un’età che brillava quanto il mare”), è mirabile e memorabile e la quartina
impersonale di congedo riassume per intero, universalizzandola, il percorso
inscindibile della vicenda umana e artistica del poeta toscano.
“Ognuno
si rinchiuse dentro sé,
carico
di memorie e di saudade,
per
rivivere momenti ormai sfuggiti
di un’età
che brillava quanto il mare”.
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