Franco Campegiani collaboratore di Lèucade IN RISPOSTA A VITO LOLLI POSTATO NEL MESE DI DICEMBRE |
Dove abita la Sapienza
Carissimo Vito, sappiamo
bene - ed oramai è chiaro anche per i lettori - che siamo entrambi interessati alla
promozione di quelle modalità del pensiero, un tempo in gran voga ma poi andate
in declino (anche se mai smarrite del tutto), che hanno a che fare con la sfera
della Sapienza e del Mito; sfera posta in secondo piano da uno sviluppo anomalo
della razionalità. E' sui modi del recupero che fatichiamo ad intenderci, e
personalmente reputo una ricchezza tale diversità. Nel tentativo di avvicinarci
e meglio comprenderci, rispondo a mia volta alla tua articolata contestazione del
mio "Omero ed Orfeo", cercando
di riassumere in poche battute i punti in cui sento di dissentire dal tuo
pensiero.
1 - ORFEO - Core, nei sei mesi dell'anno (Autunno e Inverno)
che passa nel regno dei morti, regna sull'oltretomba come consorte di Ade. Negli
altri sei mesi (Primavera ed Estate)
si trasforma in Persefone e torna da sua madre Demetra,
facendo rifiorire la terra al suo passaggio. Due sono gli aspetti dei misteri di Eleusi (morte e rinascita), mentre
quelli orfici accompagnano l'uomo nel processo della sua distruzione morale
(quella fisica è solo metaforica), lasciando implicita una ricostruzione che
tanto implicita non è. Non si può dare per scontata. Può accadere, e senz'altro
accadrà, ma è solo probabile.
C'è bisogno di quel
radicale rinnovamento dell'anima che fa indubbiamente seguito
all'attraversamento di fasi negative, ma che deve farvi seguito realmente,
altrimenti si rimane dove si è. Perché ciò accada è indispensabile che Orfeo si
liberi della disperazione e mostri di tornare in superficie, dall'Ade, insieme
a Core, questa volta senza tentennamenti, portando la primavera con sé. Non
dovrà più fare l'errore di accertarsi se Euridice è con lui, perché tutto è con
lui, se lui ha fede e se ha la primavera con sé. Un mito deve portare con sé il
risveglio, insieme all'oblio. Dualità, questa, da non confondere con quella del
circuito apollineo-dionisiaco in cui si trova immerso Orfeo, se è vero - come
dice Nietzsche - che quel circuito è viziato dall'illusione (e in questo concordo
con lui).
Quel circuito non è più
quello della morte-rinascita strettamente avvinghiate tra di loro, come nel
bifrontismo dei miti più puri, dominati dalla visione dell'armonia dei contrari,
ma è il circuito dell'illusione/delusione connesse al declino degli dèi. Apollo
e Dioniso non sono più quelli delle origini: divinità dell'Ordine e del Caos,
dello Spirito e dei Sensi sapientemente intrecciati tra di loro. Apollo è
decaduto da luce dello spirito a intelletto razionale, mentre Dioniso non è che
un dio sanguigno ferito nella sua divinità. Entrambi appartengono alla fase del
sonno, il risveglio non c'è. E Orfeo,
mirabile sinte tra i due, non appartiene più all'età della Sapienza, bensì a
quella del passaggio dalla Sapienza all'astrazione della Razionalità.
2 - OMERO - La visione mancata di Orfeo consiste nell'assenza
dell'oggetto (Euridice) che lui, tornando dall'Ade, avrebbe voluto guardare. Non
è paragonabile alla mancata visione di Omero, che non vede i pidocchi per il semplice motivo che è
cieco. Eraclito condanna ingiustamente Omero, credendolo disattento e dimenticando
questo dettaglio importantissimo. Lo scoramento di Omero deriva da un
impedimento fisico, dal fatto cioè di non sentirsi adeguato a vivere tra gli
uomini per via della sua cecità.
Tuttavia egli è in
possesso di una straordinaria vista spirituale che gli consentirebbe di vivere
dignitosamente tra gli uomini, se questi fossero semplici e generosi e se facessero
un uso saggio della ragione, anziché subdolamente piegarla al raggiro e
all'imboscata, come fanno i giovani pescatori che lo imbrogliano sulla spiaggia
dell'isola di Kos. Dietro l'enigma dei pidocchi e della morte di Omero si
nasconde il dramma della fine di una civiltà sapienziale, dominata dal Mithos, che non conosceva le malizie e
le malie di quel razionalismo che si sarebbe affermato nei millenni a venire, a
partire proprio dal trionfo della ragione malata che impone ad Orfeo di
voltarsi per vedere se Euridice realmente c'è.
3 - ODISSEO - Bisogna davvero guardare Odisseo con maggiore
profondità. Di norma ci si sofferma sul suo aspetto trionfante, facendogli
suonare le fanfare intorno e dimenticando le avversità che spesso lo
annientano, facendone un perdente, un disgraziato. Se ci fermiamo all'aspetto
del vincitore, è inevitabile fare di lui un prototipo del delirio di
onnipotenza tipico della nostra civiltà, "un mito fondativo dell'uomo
occidentale". Ma Odisseo non è questo. Non è un simbolo
dell'antropocentrismo, né tantomeno del superomismo. Non è un vanesio, un
despota che ritiene di poter esercitare il proprio dominio sul mondo, come ha
fatto nei secoli e continua a fare l'uomo occidentale, con alterigia e
superficialità.
Odisseo non è stato
compreso nella sua vera essenza. La sua fede in se stesso è fede nel proprio
spirito, non nella propria razionalità. Ciò gli impone di abbassare le pretese
dell'ego, facendosi umile e
accettando i condizionamenti e i limiti della propria relatività. Così facendo,
egli diviene man mano padrone di sé. Non padrone del mondo, ma padrone di sé.
Ed è infatti accettando e attraversando il male di vivere che può farsi strada nell'uomo
il divino che ha in sé. Più egli riduce la vanità dell'ego, più fa spazio all'essere alare che gli vive dentro. E' la
filosofia degli ultimi che saranno i
primi, mai presa in considerazione seriamente nella storia della nostra
civiltà.
Per il Pelide Achille,
che è un semidio, la vita è certamente più facile. Tutto è scontato in partenza
per lui, ma egli è un nano di fronte alla struttura morale di un uomo che deve
sudare per fare spazio al divino che ha in sé. Non Odisseo, ma il pieveloce è la vera espressione del
delirio di onnipotenza della nostra civiltà. L'astuzia e la menzogna di Odisseo
sono il segno del suo adeguamento al mondo ipocrita degli uomini non per farsene
sopraffare, ma per poterlo combattere e sconfiggere, come un cavallo di Troia,
sul proprio terreno. A che serve fare muro contro muro? A che lottare contro i
mulini a vento? A che sfidare con un volo suicida il calore del sole e la forza
di gravità? A che inviare melici canti verso gli dei e verso gli Inferi
sperando di accattivarsene i favori?
Per superare i
labirinti dell'umano, Ulisse ordisce trappole molto più sottili. Egli accetta
di confrontarsi ad armi pari, non per tradire, ma per salvare il divino che,
come ogni uomo, porta dentro di sé. In tal modo egli dà a Cesare e a Dio, ben sapendo che se escludesse uno dei due
termini, finirebbe nello squilibrio (materialistico o spiritualistico, non fa
differenza alcuna). Pensiamo all'astuzia del Cristo. Quanta sopraffina furbizia
nel dire, di fronte ai suoi ancora potenziali carnefici: "Chi è senza
peccato scagli la prima pietra"! Sono tante le circostanze in cui il
Cristo dimostra la propria scaltrezza. Ciò indubbiamente non lo salverà dalla
Croce, ma - fatte le debite proporzioni - anche la vita di Ulisse è un
calvario.
4 - Dualità del mito - Checché l'uomo pensi del mito, egli non potrà mai
uscire dal mito. Ciò non significa che ogni sua azione sia in sintonia con il
mito. Il mondo dei principi o degli archetipi (dei miti) è sempre vivo e
presente, ma si accende e si spegne nella mente dell'uomo che non può vivere
sempre nel suo stato di grazia. Ha bisogno di attraversare la disgrazia per
poter tornare nella grazia. Ma affinché questo avvenga, egli deve lavorare su
di sé, come Core, nei suoi mesi invernali, quelli del soggiorno infero. Altrimenti
si blocca e la sua disgrazia resta improduttiva.
"L'angoscia
erratica degli ultimi poeti dell'Occidente" resterà improduttiva fin
quando non ci sarà una poesia in grado di tornare ai momenti aurorali dello
spirito, liberandosi dalle pastoie di quell'Orfismo che la tiene legata ai suoi
momenti crepuscolari. Se ciò non accade, la poesia, come l'intera civiltà,
mostrerà di "non aver capito niente del mito, pur essendovi immersa".
La discesa nella profondità degli abissi mostra la propria fecondità solo nel
momento in cui si è in grado di risalirne autenticamente rinnovati. La Sapienza
sta lì, non possiamo trovarla nella disperazione di Orfeo, anche se di quella
disperazione colui che rinasce si nutre.
Orfeo non risorge. Allo
stesso modo di Icaro che precipita al suolo. Personaggi a una sola dimensione,
che pensano di poter sfidare le tenebre, mentre è soltanto nelle tenebre che può
apparire la luce. Icaro non sa che si può volare al solo patto di restare
saldamente ancorati al suolo. Non sa che per volare in alto bisogna portare
sulle spalle il peso di una croce. Solo la Croce può aprire le porte del
Paradiso, ma nel mondo crocifisso di oggi, è tempo che dalle tenebre nasca una
redenzione. E' l'equilibrio che si deve coltivare. Non più la follia onirica,
né tantomeno quella della disperazione. E' la Sapienza che si deve coltivare. Un
ritorno all'Eden, al luogo dell'incontro e dell'alleanza. Al luogo del dialogo
fra Spirito e Ragione, fra Uomo e Creato, fra Eva e Adamo, fra Umano e Divino.
Franco Campegiani
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RispondiEliminaHo letto con piacere queste acute riflessioni dell’amico Franco Campegiani, condividendone in buona sostanza il contenuto, esposto con chiarezza e sintesi. Credo che il quadro filosofico che ne emerge abbia solidità e corrispondenza interna e si avvalga di intuizioni e convinzioni ben strutturate e comunicate al lettore in modo assolutamente piano, efficace, pacato.
RispondiEliminaVorrei aggiungere un ulteriore, piccolo elemento di riflessione. Achille è, sì, un semidio, ha vita più facile di Odisseo, ma è soggetto anche lui, ineluttabilmente, al Fato, alla morte. Certo il Pelìde, rispetto al Laerzìade, ha carattere più ferino, però è tuttavia chiaramente consapevole della sua umanità: lo dimostrano le lacrime e il lacerante dolore per la morte di Patroclo, ma ancor più - a mio avviso- un passaggio semisconosciuto (ma rivelatore) del 21° libro dell’Iliade, che culmina in una brevissima espressione di morte. Ricostruisco, per consentire a chi legge la comprensione del passo. Achille ha finalmente avuto le nuove armi forgiate da Efesto e si è slanciato nel cuore della battaglia, menando strage tra i Troiani che presto si volgono in fuga. Achille li incalza, continuando la sua carneficina (la ferinità!); anche nel fiume Xanto, dove s’imbatte in Licàone, uno dei figli di Priamo, che cerca di sfuggirgli e che poi, abbracciandogli le ginocchia, lo implora di risparmiarlo. Achille lo uccide, pronunciando nel verso 106 un “Θάνε καί σύ” (Thàne kài sý, cioè “Muori anche tu”) che fa riflettere, soprattutto perché l’eroe aggiunge “Anche Patroclo è morto, e fu molto migliore di te. Non vedi come anche io sono bello e gagliardo? E sono di padre nobile e figlio di una dea, ma mi sta addosso la Morte e la Moira spietata”. Qui si tocca con mano la concezione dell’aristìa (superiorità, valore, eccellenza) nella realtà micenea ma si dice anche la sostanziale uguaglianza dell’ottimo e del mediocre, del bello e del meno bello, del valoroso e del vile di fronte alla morte livellatrice. A restituire umanità al personaggio di Achille contribuisce anche l’episodio del riscatto del corpo di Ettore, in particolare quando Priamo e Achille sono accomunati, prima ancora che dal senso di ospitalità e dal convivio, dal pianto, causato però da motivi diversi, giacché il troiano piange il figlio morto, il greco versa lacrime per il vecchio padre lontano.
Comunque tu dici bene, Franco. Achille ha avuto vita più facile di Ulisse, ma -aggiungo io- dolorosa e con una fine prematura. In ogni modo anche il figlio di Pelèo ha vissuto dolorosamente la propria umanità.
Pasquale Balestriere
In fondo è vero, Pasquale: un semidio è pur sempre umano a metà. D'altro canto, cosa sono gli stessi dei, se non aspetti, o archetipi, dell'animo umano? C'è una sfera divina dell'uomo, che corrisponde alla sua essenza disincarnata, la quale viene a contatto con la sfera psicosomatica nelle forme più varie, dando luogo ad un'infinità di storie e di avventure. Tutto ciò è scontato per gli antichi, come lo è ancora oggi per chiunque sia consapevole della presenza del divino nel cuore più segreto del mondo e dell'umanità. Ti ringrazio per il tuo contributo, che arricchisce non poco questa già stimolante conversazione.
RispondiEliminaFranco Campegiani