Umberto Cerio collaboratore di Lèucade |
SUL
MITO
CONSIDERAZIONI
SUL LUNGO DIALOGO
TRA
VITO LOLLI E FRANCO CAMPEGIANI
SU
ORFEO – OMERO – ODISSEO – ECC.
http://nazariopardini.blogspot.it/2015/11/f-campegiani-omero-ed-orfeo.html
http://nazariopardini.blogspot.it/2015/12/vito-lolli-su-omero-ed-orfeo-di-franco.html
Non sono mai intervenuto in questo dialogo
perché era interessante seguirlo senza introdurre elementi che ne potessero
turbare la consequenzialità del discorso e turbative che lo potessero
interrompere o deviare.
L’ho sempre trovato eccezionalmente
interessante e valido per lo sforzo filosofico e scientifico, nonché
escatologico, visto che il mito interessa, dal 1970, la mia poetica e la mia
produzione poetica. Come del resto ho sempre tenuto presente le riflessioni di
Nietzsche e di Robbe-Grillet, di Italo Calvino, di Mario Untersteiner, di Cesare
Pavese (che sente Orfeo e legge
Omero, che per noi è “teatro ante litteram (22 marzo1947)”.
Al di là di ogni altra considerazione ho sempre
(criticamente) accettato la visione del mito di Cesare Pavese, il quale, nel
“Mestiere di vivere” scrive: ” Tema di un’opera d’arte non può essere una
verità, un concetto, un documento ecc., ma sempre soltanto un mito. Dal mito
direttamente alla poesia, senza passare attraverso la teoria o l’azione (9
febbraio 1950)”.
Ma
bisogna sempre prestare attenzione a tutti i cultori e studiosi del mito, come
ai miti platonici in generale, e, in particolare, a quello archetipo di
Atlantide. Per quanto mi riguarda, non ho mai desiderato commentare o
schierarmi con Vito o con Franco, perché propongono -non di rado- profonde
considerazioni e intuizioni, come quella di Franco Campegiani, soprattutto
quando afferma (par. 4 di DOVE ABITA LA SAPIENZA): “ Checché l’uomo pensi del
mito, egli non potrà mai uscire dal mito. Ciò non significa che ogni sua azione
sia in sintonia con il mito. Il mondo dei principi o degli archetipi (dei miti)
è sempre vivo e presente …. Ha bisogno di attraversare la disgrazia per poter
tornare alla grazia”.
Come dire che l’uomo prima di volare (con
l’anima e il sogno) deve scendere negli abissi, per leggere tutta la verità
dell’ umano, del suo essere perenne e del suo rinnovarsi: è questo il senso del
mito di Orfeo ed Euridice nella loro discesa negli Inferi e della presa di
coscienza della morte senza ritorno. È questa necessità (ed universalità) del
mito, che ci ancora al bisogno del mito che giustifica la verità
dell’affermazione di Robbe-Grillet e di Nietzsche. “L’uomo, oggi, privato del
mito, si aggira famelico fra il suo passato e deve scavare freneticamente alla
ricerca di radici, fosse pure fra le antichità più remote. Che cosa significa
la nostra grande fame di storia, il nostro aggrapparci ad innumerevoli altre
culture, il nostro bruciante desiderio di conoscenza, se non la perdita del
mito, di una patria mitica, del grembo mitico? “ (Nietzsche); “In ogni
circostanza, in questo preciso momento, la società in cui vivo, è una società di
miti. Tutti gli elementi che mi circondano sono elementi mitologici” (Robbe-Grillet),
(da: presentazione di Raffaele Di Virgilio, in U. Cerio, DIALOGOI, Chieti, 2004).
La
visione del mito in tutti i tempi è stata variegata, le interpretazioni
molteplici, perché l’identità mythos-parola è stata variamente letta, vissuta,
interpretata da poeti e filosofi, ed è un po’ la storia dell’umanità nel suo
farsi e nel suo divenire.
I miti sono avventure dell’anima, sono gli
idilli mutevoli e sempre universali dell’uomo. La diversità è, ogni volta, arricchimento
culturale. Ora il problema non è quello di conciliare le varie visioni e le
varie e diverse interpretazioni dei miti e dei personaggi del mito. Come nel
passato, nel mito greco (e non solo) anche i vari miti hanno determinato
diverse letture che i vari poeti ne
hanno dato, di volta in volta, con appendici, epilli di varia origine, anche
oggi sono molti quelli che danno diversa lettura dei miti e dei loro
personaggi. Il concetto prevalente è stato sempre di non “toccare” le parole e
le voci dei mitografi, così come quelle delle interpretazioni dei filosofi, ma
devono restare le loro (di quei poeti e di quei filosofi), sentirle
dentro, restarne avvinti e affascinati (se possibile). Cosa che, ritengo, debba
valere ancora oggi, perché i miti in noi sono sempre la nostra personale verità,
intoccabile, i nostri riferimenti mentali e spirituali, in altre parole i
nostri “archetipi”, che vivono dentro di noi e ci nutrono, che fanno la storia
della nostra anima e della nostra cultura.
Bisogna ancora considerare il fatto che i
mitografi del passato, soprattutto quelli del mondo greco, ma anche tutti
quelli successivi (tra i quali quelli dell’età alessandrina o della letteratura
romana dell’età ciceroniana e augustea) quando riprendevano un mito e ne
facevano diversa lettura -e diversa scrittura- non lo facevano in
contraddizione con i mitografi precedenti. Se introducevano variazioni ai miti,
lo facevano per introdurre nuovi elementi o per seguire fonti diverse, forse
inconsapevolmente o magari con l’intento di un completamento di un epilogo per
l’arricchimento del mito stesso.
I moderni lettori del mito spesso amano invece
produrre interpretazioni che divergono, perché interessati e pressati da
istanze più filosofiche che poetiche. Molto interessante, a questo punto, sul
dialogo dal quale siamo partiti, si inserisce l’articolo di Maria Grazia
Ferraris, apparso su questo fantastico scoglio di Lèucade ( articolo del 9
ultimo scorso, mentre scrivo queste note) su “EURIDICE”, dove l’autrice, con
felice analisi e numerosi riferimenti, propone una lettura coinvolgente
dell’intramontabile mito che tocca con passione il senso della vita e della
morte e l’impossibilità della resurrezione umana.
Mi sia qui consentita un’autocitazione (di cui
chiedo venia ai lettori di Lèucade). Nel mio poemetto “EURIDICE” (vedi su
questo blog del 21 aprile scorso) ho voluto cercare una mia avventura con una
diversa conclusione della vicenda di Euridice e di Orfeo: faccio scegliere alla
donna il suo destino e la volontà di decidere di non voler vivere e morire due
volte, anche perché la donna non vede possibile
un suo ritorno alla vita a causa dell’indegnità
dell’attuale società. È chiaro che ho voluto -come altre volte- attualizzare il
mito, in considerazione del fatto che, se così non si facesse, altro non
faremmo che raccontare di nuovo sempre lo stesso mito. Ciò non esclude che si
continui a discutere sul significato del mito e dei suoi personaggi. Anzi, come
in questo caso, in cui il dibattito tra Vito Lolli e Franco Campegiani (nel
quale si è inserita efficacemente Maria Grazia Ferraris) ha assunto toni alti e
approfonditi, coinvolgenti, il dialogo e lo studio si rende ancor più necessario ed utile per capire le
esigenze interiori dei mitografi.
In ogni caso concordo in gran parte con le
posizioni di Nietzsche, di Robbe-Grillet e di Cesare Pavese che scrive: “Abbiamo bisogno dei miti, ci viviamo dentro”.
Noi possiamo anche smontarli e rimontarli per attualizzarli, leggerli e scriverli in modo diverso, come
avviene nel “dialogo” da cui siamo partiti per queste considerazioni, non solo
per arricchire i miti, ma per farne anche nuova materia di passione e, se
possibile, inventarne di nuovi.
È possibile. Si può fare. Purché ci si tenga
lontani dalla banalità e dall’artificiosità e si respiri il mondo della
classicità. Perché in fondo la storia dell’umanità, l’anima, la vicenda
interiore, in sostanza l’uomo, con i suoi desideri e le sue passioni, sono sì
cambiati, ma non del tutto e non ancora
-per dirla con Herbert Marcuse -
“biologicamente”, tanto da giustificare mutamenti così profondi e totali.
Umberto
Cerio
Non poteva mancare sull'argomento-mito la voce di Umberto Cerio, che da sempre ne è raffinato cultore e interprete. E poiché ha citato Pavese, vorrei ricordarne la splendida poesia intitolata appunto "Mito" ( a cui rimando eventuali volenterosi per la lettura), nella quale il poeta vede come mitica l'età dell'adolescenza e della giovinezza dell'uomo, debordante di sogni, di fantasie, di speranze e di illusioni, l'età del "giovane dio" che, purtroppo, nell'età adulta "sarà un uomo, / senza pena, col morto sorriso dell'uomo / che ha compreso". Il mito quindi come età della giovinezza nella vita dei singoli e dell'umanità, l'età delle favole, della fantasia, delle leggende, delle imprese eroiche e gloriose. Dove affonda radici ogni archetipo. Dove inizia la storia umana.
RispondiEliminaPasquale Balestriere
Cesare Pavese ha una visione profondamente ammirata, ma anche disperata, del mito. Egli ritiene, sulla scia di G.Battista Vico, che il mito appartenga all'infanzia dell'umanità e che pertanto non sia più recuperabile nella maturità (personale e storica) dell'essere umano. Personalmente non condivido questa visione "storicistica" del mito. Non perché io intenda definire una volta per tutte, inequivocabilmente, che cosa sia e che cosa non sia il mito. Concordo con Umberto Cerio nel sostenere che "i miti sono la nostra personale verità, intoccabile, i nostri riferimenti mentali e spirituali, in altre parole i nostri archetipi, che vivono dentro di noi e ci nutrono, che fanno la storia della nostra anima e della nostra cultura". Se contesto, pertanto, una determinata visione del mito, è perché sto alla ricerca della mia personale verità e non della verità assoluta (anche se sempre di verità si tratta, e dunque di assoluto; ma è bene non divagare). Il rispetto è fondamentale: quel rispetto che deriva dalla padronanza di se stessi, ossia dal guadagnarsi con se stessi, e unicamente per se stessi, delle convinzioni il più possibile certe ed assolute. E' avendo a mente questa premessa che mi permetto di contrastare la visione pavesiana, "storicistica", del mito, secondo cui esso è tramontato e non è più recuperabile, perché non si può recuperare ciò che si è perduto. Mi chiedo: può estinguersi un archetipo, un valore eterno dello spirito? La civiltà può anche permettersi di porlo tra parentesi, ma non può mai riuscire ad eliminarlo dal cuore più profondo dell'essere umano, da dove rinascerà per dare inizio a nuove avventure. E' impossibile che ciò non avvenga, stante la premessa che parliamo di valori eterni e incorruttibili. Nietzsche ha una visione non meno antiquaria del mito ("L'uomo, oggi, privato del mito, si aggira famelicamente alla ricerca di radici, fosse pure fra le antichità più remote"). L'errore, a mio parere, sta qui: nel pensare che il mito risieda nella storia, o nella società (come dice Robbe-Grillet), anziché nel cuore più profondo, interiore, dell'essere umano. Il mito, proprio perché personale, non andrebbe a rigore ricercato neppure nella mitologia. Risiede dentro noi stessi, nella nostra anima individuale, la quale di riflesso, e non per vie dirette, si trasferisce nel collettivo. Umberto Cerio parla di "attualizzazione del mito", ed è un grande passo avanti rispetto al "copia e incolla" e al rischio di "raccontare sempre lo stesso mito". Io ritengo, tuttavia, che la via dell'"attualizzazione" non sia indispensabile (anche se nessuno vieta di percorrerla con esiti positivi), in quanto i miti sono sempre e comunque attuali. Non devono attualizzarsi per il semplice motivo che sono già attuali. Nell'"attualizzazione", invece, sembra darsi per scontato che i miti, in qualche periodo storico, siano già stati, una volta per tutte, canonizzati, e che all'uomo oramai non resta altro da fare che applicare quei canoni, più o meno genialmente, alla realtà attuale. Questa visione "storicistica" del mito, anche se diversa da quella pavesiana (secondo cui non c'è più spazio per il mito), molto difficilmente può reggere in una fase di grandi e profondi mutamenti epocali come quelli che viviamo, dove la cultura sta seriamente rischiando di venire azzerata. Dobbiamo ripartire dall'umanesimo interiore, visto che quello esteriore sta andando irrimediabilmente in frantumi. Per questo ritengo che l'Orfismo, perlomeno quello classico, con lo strascico apocalittico e tragico che sappiamo (e da cui io non mi sottraggo, come uomo di questi tempi angosciosi), debba venire superato.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Ho accettato -criticamente - la visione del mito di Cesare Pavese. Per quanto ne so dalla lettura dei "Dialoghi con Leucò" non mi è parso che Pavese storicizzi i miti allo stesso modo di G.B.Vico, ma che piuttosto ne dia spesso una diversa lettura, sotto la spinta di sue istanze filosofiche (vedi la sua affermazione:"Direttamente dal mito alla poesia, senza passare attraverso la teoria o l'azione"). Attualizzare il mito per me non significa storicizzarlo, ma significa considerare il comportamento umano, oggi, sulla stregua di quanto di simile i miti raccontano. Ed è ciò che fonda la differenza tra la giovinezza dell'età dell'umanità e quella dell'uomo stesso. Quando parlo di attualizzazione dei miti, voglio dire che anche oggi accadono eventi simili o molto simili ai miti dell'antichità. Quando una madre (o un padre) uccide i figli per vendicarsi ad es. dell'abbandono da parte del marito o per altra vendetta, accade la medesima cosa che è già accaduto a Medea, e che quando il "potere politico" o di altra natura schiaccia la volontà di una donna e le fa violenza, accade la stessa cosa che accadde ad Antigone, la quale si ribella, accetta la sfida e si dà la morte. Per questo ritengo che il poeta può e deve cantare ancora il mito, ma per poterlo fare deve poterne dare altra lettura ed altra scrittura, perché nella poesia vi sia la necessaria "inventio", e non la storicizzazione del mito. Penso a Pavese, nel dialogo tra Orfeo e Bacca, che, nella risalita dagli Inferi assegna ad Orfeo la volontarietà della decisione di girarsi verso Euridice per non farla morire due volte (L'inconsolabile, Dialoghi con Leucò). Era già troppo, per lei così giovane, morire una volta. Il grande amore di Orfeo, secondo Pavese (e lui ne sapeva qualcosa per la "sua" Costance per quale si dà la morte!) che certo non è libero da pressioni filosofiche, non poteva accettare, per entrambi, un dolore così grande. E negli Inferi tutto viene stravolto: "Cercavo un passato" - dice Orfeo - "che Euridice non sa. L'ho capito tra i morti mentre cantavo il mio canto. Ho visto le ombre irrigidirsi e guardar vuoto, i lamenti cessare, Persefone nascondersi il volto, lo stesso tenebroso-impassibile, Ade, protendersi come un mortale e ascoltare. Ho capito che i morti non sono più nulla".
RispondiEliminaUmberto Cerio
Mi spiego meglio: Pavese e Vico hanno visioni diametralmente opposte del mito, ma convergenti nel credere che esso appartenga ad un preciso momento dell'evoluzione umana. Sta qui lo storicismo di entrambi. Ben venga, ovviamente, la considerazione dell'analogia di un mito odierno con un mito del passato, purché essa avvenga "a posteriori", senza inquinare "a priori" la gestazione del mito stesso, che (concordo pienamente) è "la nostra personale verità, intoccabile".
RispondiEliminaFranco Campegiani