Giuseppe
Leone: D’in su la vetta della torre
antica. (Giacomo Leopardi e Carmelo Bene sospesi fra silenzio e voce). Il
Melabò. Bellano (Lecco). Pgg. 142. € 16,00
Affrontare
una diagnosi comparativo-esegetica fra Leopardi e Carmelo Bene non è sicuramente
cosa da tutti i giorni. Leopardi filosofo? Di sicuro no. Tra l’altro, non
conosceva neppure i grandi del tempo tipo Kant o Hegel; semmai pseudo filosofo nel
senso crociano, un ingorgo sentimentale, dacché la trama delle meditazioni
leopardiane rivela un che di gracile e di disarmonico come la mancanza di
sistematica scientificità, che è la più settecentesca delle sue
caratteristiche. Sì, volle essere filosofo nel senso moralista; nell’accezione
degli intellettuali dell’illuminismo francese, ai quali parve operazione fruttuosa
nella misura in cui ci si impegnasse su concreti o spiccioli problemi di vita
vissuta. Ma veniamo al nocciolo; alla
questione che Giuseppe Leone prende fin da subito in considerazione: quella dei
suoni, delle voci, che caratterizzano sia la produzione del recanatese che di Carmelo Bene; e l’aspetto
della solitudine e del dolore, in Leopardi simboleggiato in un passero che
trascorre, appartato e solitario, il tempo della sua giovinezza, da cui il
titolo; in Carmelo Bene (nella Lectura
Dantis), “a mo’ di agape schopenhaueriana – come lo stesso amava definire
le sue performance – il compassionevole ricordo delle vite tragicamente spezzate
nel capoluogo emiliano”, della strage di Bologna. Interessante poi la lettura de L’infinito fatta con l’apporto di citazioni di numerosi critici, tipo
Paolo Marzocchi o Alberto Folin. Per cui il canto degli uccelli, il muggito dei
buoi, il mormorio delle fronde o del ruscello, riportano ad un passato scomparso
per sempre. In parole povere la malinconia leopardiana viene colta dietro il
dileguarsi di una voce; la poeticità dell’assenza. In Carmelo Bene nel suono
che si fa personaggio. E come in Leopardi il suono è a scapito del visivo, in Carmelo,
sempre nella lettura di Dante, riappare solo
in veste di voce. Una ricerca puntigliosa e precisa convalidata da una dovizia
di nomi autorevoli. Tanti i punti in
comune fra i due artisti: il loro dialogo con la civiltà presocratica; la difesa
a favore della voce contro il “morto orale” dello scritto; le polemiche contro
le correnti artistiche alla moda; i pensieri sulla lingua, sulla poetica, sui
costumi; sul fatto di bandire qualsivoglia di ragionamento storicistico, al
contrario di Platone che bandiva la poesia dalla sua repubblica. Carmelo, non
credendo nel Dio dei Cristiani, e credendo nel demone, esclude ogni possibilità di redenzione umana. L’inno ad Arimane conferma questa
vicinanza fra i due per una visione anticristiana senza riscatti o sconti
particolari. Il saggio continua nel capitolo due (Giacomo Leopardi e Carmelo Bene: “geni senza talento”) con il tema
del mancato riconoscimento di un Leopardi filosofo, per colpa, soprattutto, di
una critica letteraria poco attenta. Ciò che è avvenuto per Carmelo Bene che si
rivoltava a tutti coloro che continuavano a chiamarlo attore, definizione per
lui riduttiva. Nel terzo capitolo viene preso in considerazione il rapporto dei due con la religione. Da
fanciulli e adolescenti sono stati religiosi a tal punto di avere persino servito
Messa. Ma mentre il poeta volgerà sempre più verso un pessimismo più acuto e radicale, l’altro tenderà verso il
rifiuto dell’immagine, dacché si “osserva che il ritorno agli anni
dell’infanzia religiosa è stato per lui
un motivo per raccontare come le effigi mariane … lo abbiano portato
alla disillusa considerazione e al rifiuto di qualsiasi culto d’immagine…”. Per
giungere al quarto capitolo, in cui si analizzano le peripezie critiche dei due
geni nell’essere riconosciuti nella loro interezza (Leopardi e Bene. Geni ma senza premi).
Simili anche qui per tutte le troncature
che si sono tirati addosso fin dagli inizi. Numerose le testimonianze storiografiche
addotte a supporto: da Vittore Branca, a Croce, ad altri che, almeno, hanno
avuto il merito di averne parlato: Pietro Giordani, Giuseppe Montani, Vincenzo
Gioberti, Alessandro Poerio; mentre Giuseppe Mazzini “diede un giudizio
stroncatorio”. Il solo critico “che darà al Leopardi il rilievo che meritava è
stato il milanese Carlo Tenca, il quale vide nel poeta recanatese <<l’erede della tradizione
alfieriana-foscolilana…>>”. Solo fra le due guerre ci sarà un effettivo
ripensamento sull’opera leopardiana, dacché fin dalle origini si parlava di un
pessimismo acuto dovuto alla malattia. Interessanti gli studi di: Vossler, di
De Robertis, di Saba, Cardarelli, Bacchelli, di Svevo, Brancati, Calvino… per
giungere a Ungaretti e Montale il più vicino, forse, quest’ultimo, al
pessimismo leopardiano. Così Carmelo
Bene “ha sempre avuto nei critici irriducibili nemici, ad eccezione di
Arbasino, Pasolini, la Morante, Flaiano ed alcuni filosofi come Deleuze,
Derrida, Lucan…”. L’opera si completa con il quinto ed ultimo capitolo (Leopardi e le opere di Bene) di cui riportiamo la
emblematica chiusura: “… Dunque, ascoltiamo D’in
su la vetta della torre antica;
ascoltiamo, in tutta la sua sonorità , questo “… schiaffo impensabile ai
millenni dell’espressione-logos-concetto”, come ebbe a qualificarlo lo stesso Carmelo Bene,
parlando delle sue rappresentazioni. Del Buono potrà avere avuto le sue ragioni per ritenere i geni ingombranti e persino inutili, ma hanno ragione anche i geni a pretendere di
essere ascoltati, per non subire la dittatura di chi genio non è”.
Un
libro di grande interesse speculativo, nuovo, generoso, ricco di riferimenti
storiografici, che presuppone capacità analitiche e intuitive di rara
creatività; quelle di uno scrittore aduso alla letteratura, all’estetica, e
alla conoscenza poetica, alla cultura. Un testo che porta avanti concetti di
non facile assunzione, ma resi agili da un linguismo scorrevole, narrativo, vincente
e convincente. Un’opera che non occorre leggere due volte, o riprendere per
rifinirne alcuni assunti: resta immediatamente incisa; alimenta interesse con
la sua portata iconografica e pluridisciplinare. Una originale maniera di
proporre un saggio storico-letterario. Partendo dai testi per dimostrare, e
concludere con metodo apodittico, cartesiano, ciò che lo scrittore si
ripropone. Di grande valenza critico-filologica l’apparato bibliografico a
completare l’opera.
Nazario
Pardini
Gentilissimo Prof.,
RispondiEliminalei mi ha fatto il biglietto di auguri più bello che io potessi immaginare di ricevere per questo nuovo anno 2016. Ho letto la sua bellissima e illuminante recensione al mio testo e devo subito ringraziarla per l’acutezza e la profondità delle sue osservazioni.
Non l’ho scritto apposta, ma questo mio saggio non poteva trovare migliore cornice dove esaltare la malinconia e la solitudine di Leopardi e Bene se non in questo suo sito Alla volta di Leucade, che in materia di malinconia e solitudine ne sa qualcosa.
Grazie ancora per l’analisi attenta e puntuale che ha riservato al mio libro, mi servirò della sua scansione critica durante le presentazioni, per esempio, al Festivaletteratura di Mantova 2016, qualora la mia domanda di partecipazione venga accettata, ma anche in altre occasioni. Lei ha colto lo spirito più recondito della comparazione. Mi scusi se mi spingo oltre, se mai dovessi presentare il mio libro nelle vicinanze della sua abitazione, chi meglio di lei per presentarmelo? Per ora mi fermo qui e colgo l’occasione per farle i miei più sentiti auguri nella ricorrenza delle prossime festività. Un caro saluto, Giuseppe Leone.