Vito Lolli collaboratore di Lèucade |
Su “Omero
ed Orfeo” di Franco Campegiani
Quando pensavo ad una considerazione da proporre come commento sotto il
tuo articolo, caro Franco, ero in superficie, ma poi ho riletto con più
attenzione il tuo testo centrato su Omero ed Orfeo e ho sentito che lo spessore
della questione richiedeva ben altro.
Forse non è così agevole contrapporre Ulisse ed Orfeo come archetipi di
una diversa chiave di esperienza della realtà degli opposti. Bisogna, come in
tutte le realtà mitiche, ricondurre per quanto possibile ogni percorso alle sue
origini, fino alle nebbia del non-manifesto e, dunque, dell'impronunciabile. "Orfeo", le cui
origini non sono decifrabili con un dove e un quando, non è altro che il
possente canto tragico che preparava ed introduceva alla visione profonda del
mistero eleusino, di cui il suo mitologema - la discesa negli
"inferi" - è già un aspetto; quella visione, gli archetipi-seme del tempo,
sono la verità nascosta di ogni storia e l’anima di ogni vero poetare.
"Omero", che non vede ciò che narra, colloca il suo affresco
dell'umanità nello scenario della guerra di Troia, ma nessuno dei suoi
personaggi è storico: è mitico, cioè archetipo di ogni vicenda a venire nella
storia di cui è seme.
Orfeo dimentica il limite che Ade aveva stabilito e paga a caro prezzo
il voler vedere ciò che non si può vedere: qual'è l'allusione ad un aspetto del
viaggio nella psiche profonda che non si concede alla visione diretta? Qual è la funzione psichica superiore
perduta perché dimenticata, quindi per questo de-funta, di cui “Euridice” è
metafora? C'è un rapporto tra questa mancata visione e l'origine della poesia
nella forma del canto tragico? Ed è
dunque questo il richiamo tra la discesa agli inferi di Orfeo per recuperare
Euridice e quella di Core-Persefone, che la poesia orfica evocava in
preparazione del rito misterico eleusino? Orfeo è sì un personaggio che manifesta la
bivalenza dell’apollineo e del dionisiaco: il canto è alimentato dal dolore di
quel limite che il dio (è Eraclito a suggerire che Dioniso e Apollo sono
complementari e che Dioniso è Ade) concede alla prova, ma è un canto che non
viene distrutto dalla distruzione del suo corpo perché è la musica a creare lo
strumento e non viceversa. Omero stesso è una mancata visione e canta, appunto,
ciò che non vede ma ascolta dal profondo: alla Musa, figlia della Memoria,
chiede un canto, non una visione. Questa è troppo più profonda. Ed è una
visione mancata il fallimento di Omero di fronte al celebre enigma dei
pidocchi, fallimento che egli non sopporta e ne muore disperato. Anche Odisseo (bisogna usare il suo vero nome,
per rispondere alla sollecitazione di Balestriere) scende negli Inferi, vede
chiunque senza conseguenze, ma questa esperienza profonda, concessa da Hermes
che lo assiste per controllare il potere magico di Circe che poi gli indicherà
la via da seguire, segna per sempre la sua differenza dagli altri uomini perché
egli sa ciò che gli altri non sanno. Egli è ancora, nonostante tutto, in un
rapporto diretto col divino, e questo è il suo potere ma anche la sua
solitudine. Il re
guerriero non chiede indietro un sentimento perduto: non è Orfeo, un poeta
cantore, non è un artista. Non deve rischiare l’errore di voler vedere il
mistero dell’ispirazione, l’invisibile che non ha provenienza né direzione.
Orfeo e Odisseo sono due contraddizioni proprio perché manifestano i poli di
una diversa presenza ispiratrice del divino nella vita degli uomini: essi sono
un’altra manifestazione dei contrari complementari Dioniso ed Apollo. Il
personaggio che davvero risulta come alterità dalla cifra di Odisseo è Achille,
l’eroe invincibile la cui fine è compiuta da un gesto di Apollo: la freccia di
Paride è guidata dove Paride non poteva sapere, il punto debole noto solo ad un
dio, quello dalla visione totale. La cifra di Achille è l’assoluta fedeltà ad
un codice d’onore che non conosce l’inganno, la menzogna e il trucco come
strumenti di manipolazione della realtà per affermare un predominio; eppure
Achille muore, la sua forza individuale non può sconfiggere Troia, ed è proprio
il dio custode del segreto della sapienza, quello che dona le armi del lògos ma
se ne tiene lontano, il dio dell’arco e della lira, a decretarne il congedo.
Achille muore e Odisseo cambia la storia delle relazioni umane ideando
l’inganno vincitore. Un altro tipo di eroe prende il posto dell’eroe giusto:
d’ora in poi furbizia e menzogna, manifestazioni del lògos astratto, diventano
cifre della possibilità umana di superare le avversità dell’esistenza, di
compensare i limiti umani nel confronto con le forze naturali. Achille affronta
la battaglia quotidiana nel rispetto delle regole stabilite dal dio, Odisseo
sfida il dio stesso fino a sfruttarne la contraddizione: uno gli è a favore, un
altro contrario. Achille è il suo
nome e la sua fama, Odisseo arriva a disidentificarsi truccando il suo nome con uno straordinario enigma linguistico: “Odysseys” vuol dire “viandante” e si
pronuncia “Odisèis”, mentre il famoso
“Nessuno” risposto a Polifemo è quell’”Oudèis”
che si pronuncia “Udèis”, simile nel
suono al nome dell’eroe. Ecco qui un esempio perfetto di quel tratto
sapienziale che è l’enigma: Polifemo, entità arcaica semibestiale lontana dagli
uomini anche se figlio di un dio, immagine di quel tratto distintivo del
dionisiaco che va dall’animale al dio, non è in grado di coglierne natura e
potere e ne viene superato. E perfino ai divini stessi Odisseo ha il coraggio –
o la folle spinta esaltata di un logos alla massima espressione – di mentire,
mentre viene sempre più irresistibilmente attratto da qualsiasi mistero o
fenomeno di fronte al quale gli uomini fuggono. Egli è l’annuncio dell’umanità
a seguire: è lui, mito puro, l’archetipo della volontà di potenza? Abbiamo mai
percorso in profondità il mito di Odisseo, Franco? C’è un Orfeo, il canto
tragico dalla potenza interiorizzante irresisitibile, canto che nessuna forza
inferiore può interrompere, che possa ri-evocare questa potenza? Anche Odisseo
è legato ad un destino svelatogli da Tiresia, memoria profonda di un indovino
cieco: non potrà fermarsi nella ritrovata patria, nel riaffermato dominio
regale e nella riconquistata serenità familiare. L’orizzonte dei valori
tradizionali viene travalicato già nel mito fondativo dell’uomo occidentale:
Odisseo, il viandante, legato inscindibilmente al destino che gli viene
rivelato dalla visione profonda nell’ “Ade”, vive la sete insopprimibile di
conoscenza che lo spinge a non fermarsi. Ed è qui, Franco, che l’argomento va
approfondito: se il mitologema di Odisseo il “viandante” è quello di un
superamento della paura delle varie trappole della natura e delle creature
intermedie, è quello del definitivo assunto del lògos e delle sue
manifestazioni, dall’ingegno creativo alla menzogna e all’inganno, dobbiamo
anche renderci conto del fatto che ci troviamo pur sempre all’interno della
trama di un mito. E’ in un mito, cioè all’interno
del mito stesso, che la nascita del lògos e, dunque, del percorso di questo
dalla filosofia alla scienza viene narrata: peraltro, non possiamo scorgere in
un aspetto di quello che è probabilmente il più antico ciclo mitico della
grecità, quello cretese di Minosse e il Minotauro, Dedalo e Icaro, Teseo e
Arianna, un chiaro e straordinario simbolismo della natura del lògos, e della
ragione che lo manifesta, nell’immagine del labirinto come una dimensione
affascinante, seduttiva, in apparenza possente e invincibile, ma nella quale si
resta intrappolati? E non è sempre un intervento divino o semidivino a permettere
la liberazione dalla trappola?
Dobbiamo quindi tentare un riorientamento: non esiste, non è mai
esistita, come ripetono schematicamente e banalmente i nostri manuali
scolastici, una “evoluzione” della psiche umana dalla fase “infantile” del mito
a quella “evoluta” e “adulta” della ragione discorsiva. Il mito è il substrato
sul quale e all’interno del quale gli eventi si svolgono in un tempo dato:
ricordi il geniale dipinto di Magritte in cui egli si autoritrae mentre dipinge
un uccello, ma sul tavolo ha come modello un uovo? Il mito è una trama, è la
manifestazione prima di un seme del tempo che si svolge in una successione di
eventi la cui logicità è latente ma “scritta”: questo è il senso del termine
“Scrittura” quando viene usato nella letteratura sacra. Non siamo
mai usciti dalla’età mitica perché, senza considerare ora la periodica e
regolare insorgenza di miti, una distinzione tra un’età “mitica” e una “non
mitica” non significa niente: il mito non è che il linguaggio fondamentale
dell’anima e la sua stessa natura creativa. Tutti esistiamo in una dimensione
mitica perché siamo anima e chi ritiene esatta una distinzione tra mito e lògos
come fossero funzioni in successione evolutiva non ha capito niente del mito
pur essendovi immerso. Nella nostra abitudine a considerarci “civiltà
cristiana” non dimentichiamo forse che Gesù di Nazareth, egli stesso possente
realtà storica e mitica, ha creato quei racconti esplicativi dotati di potere
di rimando simbolico che chiamiamo parabole? E le parabole di Gesù non sono,
dunque, miti? Se dunque è
vero che non siamo mai usciti dal mito perché sarebbe cessare di essere anima,
come dovremmo leggere il sentimento dello svuotarsi del lògos (l’angoscia
erratica degli ultimi Poeti dell’Occidente) al culmine del suo potenziale (l’inarrestabile
crescita dell’apparato tecnico comunicativo)? Non proliferano in quantità e
complessità gli strumenti comunicativi mentre la comunicazione reale tra gli
uomini, le relazioni umane, sono sempre più nel caos dell’oblìo e
dell’involuzione? Non sapevamo che l’artificio di Dedalo
per liberarsi dalle trappole della ragione diventa, nelle mani del giovane
Icaro, l’ebbrezza mortale di dimenticare che sempre di un artificio limitato si
tratta? Il gesto della liberazione dalla ragione che si fa trappola diventa
l’ardimento smisurato che ci fa sfidare gli uccelli e il sole stesso – e il
mito è, appunto, una misura, “La trama
nascosta” – che – “è più necessitante di quella visibile”, per
citare Eraclito. Ed è così ridicolo fare riferimento al mito di re Mida per
vedervi l’esito del desiderio di trasformare tutto l’esistente in oro, cioè
ridurre la natura a capitale e profitto? Non sappiamo se il gesto di Prometeo
sia stato giusto o ingiusto. Sappiamo solo che è accaduto. La ragione è diventata il
suo stesso sonno: ciò che annunciò il suo stesso svolgersi si sta, come sempre,
inesorabilmente compiendo. Ma l’aspetto più vero è sempre quello nascosto.
Vito Lolli
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