Prefazione
a Pierangelo Scatena: DA OMBRE E MEMORIE. ETS. Pisa. 2015
Si sta
in questa luce soffusa
che
illumina d’ombra i pensieri,
si
cerca un motivo o una scusa
disposta
ad assolvere ieri…
Questi i versi incipitari di un “poema”, che,
con tutti i suoi affondi analitici, ci offre una visione di efficace
plurivocità sull’essere e l’esistere. Qui la voce dello scrittore. Qui la sua
anima; la sua meditazione intimistica alla ricerca di una verità difficilmente
raggiungibile data la pochezza del nostro essere umani.
Qui l’eufonica armonia di un canto che fa della
parola il tutto; dei suoi sintagmi tasti di un piano per intermezzi da Manon
Lescaut: le parole "Mostrano il loro legame con
la musica... La parola nasce dal ritmo, come la musica. La poesia utilizza il
ritmo in modo letterale e la filosofia, che non canta, si muove sulle tracce
del ritmo e attraverso di esso vede. Vede il Ritorno. Vede l'Enigma" afferma Carlo Sini; il viaggio; quello
della silloge di Pierangelo
Scatena che si distende su uno spartito vario e articolato dove les pièces, con
euritmica sonorità, si fanno concretezza di un sentire carico di vita. Sì! Qui
c’è la vita con tutta la sua polisemica significanza: l’amore, il sogno, il memoriale, e la piena coscienza di
un tempo fuggevole e ingannevole; di un tempo che passa portandosi dietro gioie,
speranze, illusioni, delusioni, fughe e ritorni in un confronto assillante fra
l’esserc/ci e la morte. « Il male, dunque, che più ci spaventa, la morte, non è
nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c'è lei, e quando c'è lei non ci
siamo più noi » affermava Epicuro. Ma è proprio quel patema a regolare gran
parte delle riflessioni e dei modi di vivere. E in questa plaquette sono tante
le immagini scampate a Thanatos e rimaste a riposare nell’animo del Poeta.
Immagini che dopo lunga decantazione tornano a vivere cariche di nuova empatia;
di suggestioni e fremiti che arricchiscono il logos del canto. Parafrasando
Jules Renard, possiamo dire che nella casa della poesia la stanza più grande è
la sala d’attesa. Una sala che si fa patrimonio del nostro esistere, a cui
attingere sempre più frequentemente col crescere delle primavere. Ed è proprio
il memoriale, che, sempre più pesante nel
tempo, ci suggerisce ombre e luci, voci e volti divenuti substantia di un
percorso vicissitudinale carico di pathos. Il Poeta se ne fa carico, lo rivive
con saudade, senza mai scadere in una lamentatio becera e melliflua; evitando
insidie di luoghi comuni, armamentari retorici ed epigonismi. Dacché è il suo
stilema innervato di figure lessico-foniche e iperboliche, di costrutti solidi
e originali, a fare da argine a tanto sentire:
Come
specchio riflesso da uno specchio
il mio
nulla compongo.
Mi
sgrano in questi giorni di dicembre
ad uno
ad uno tesi
alla fine dell’anno,
ai doni del Natale, a rare
feste
che accendono memorie.
Si rimpiangono assenti,
le notizie di chi non ci
ritorna,
la poca vita d’altri che fu
nostra
e lentamente smuore.
Mi stringo dentro un attimo di
freddo,
divento assai più piccolo
di quest’anno che ormai corre
alla fine.
Un
inanellarsi di settenari e endecasillabi che accompagna, come una romanza di melodie
ed acuti, un melanconico iter attraverso luminose o brumose tappe che hanno
segnato tutta una storia. Sta qui la grandezza di questa silloge, nella sua urgente
confessione, che, giorno dopo giorno, trova parola, logos, innesti, insiemi di
cospirazioni verbali per dare corpo e visività ad un’anima carica di tensione
orfica, dai toni, anche, epico lirici. Un equilibrio fra dire e sentire che è
fondamentale per una buona poesia. Per un
canto che ricorre a tutti gli stratagemmi metrico-sonori per allungare
lo sguardo oltre. Oltre il verbo e la sintassi stessa dacché il lemma
tradizionale non è sufficiente a coprire gli spazi che la poesia chiede; ed è
così che assonanze, consonanze, allitterazioni, allusioni iperboliche, rime,
metonimie, anafore, e tanti accorgimenti stilistici permettono di allungare il
tiro oltre la demarcazione fra umano e disumano, dicibile e indicibile:
(…)
E sono calmo. Sono come sempre
vicino al mio sorriso,
all’indicibile (Stasera con il cielo).
Fino
allo smisurato affollamento di canzoni e speranze, di corse in fuga e amici
ritrovati che ritorna vivido con polisemica potenzialità creativa:
A volte e all’improvviso
giunge la tua memoria ad incontrarmi.
Mi sembra allora di volerti
dire
come tutto ci perde e lascia
un segno
che più a lungo scompare.
Le tante strade che vagammo
assieme,
la tenerezza che ci
scambiavamo
quando poteva il gesto
ammorbidirsi
nel cavo dei pensieri,
gli incontri fine pioggia, il
cineforum,
canzoni anni sessanta, le
speranze
discusse fino all’alba,
le corse d’auto in fuga verso
il mare,
gli amici ritrovati ed altro
ancora
che attorno mi riaffolli… (Come
sarà).
Un
memorare caldo e impetuoso. Un concatenarsi di fatti e profumi che fanno
volgere la mente indietro per ripescare almeno le rimanenze di quello che fu. E
il tutto che fluisce in un lirismo di coinvolgente spessore; verticale e
orizzontale, dacché la poesia del Nostro è di una epigrammatica forza analitica
che si trasferisce agilmente nelle vicende di ognuno di noi; in quello che ora
siamo:
E siamo qui al calar di prima
sera,
cullando un infinito che
dispera
sull’ondeggiante limite del
mare
e sull’estremo nostro navigare.
L’errore di noi stessi è in
ogni cosa
dove la mente posa.
Nell’oltremondo ormai ci apparteniamo.
Azzurro il cielo, azzurro il
tuo vestito,
ma quell’incanto che era in
noi, svanito.
E il mare ci racconta cosa
siamo:
questa è la terra, questo il
divenire
e il nostro un altro inutile
sfiorire (Cosa siamo).
Sì,
questo siamo. Un momento passeggero in un cosmo che indifferente gira e si
muove provocando col suo agitarsi il nostro inutile sfiorire. E anche se tutto
è azzurro, - azzurro il cielo e azzurro il tuo vestito – manca quell’incanto di
un’età che il tempo ha fagocitato
con
la sua rapacità. Un filo di pessimismo nel sottofondo dell’opera scorre facendo
da leitmotiv. Ma bisogna anche dire che il tentativo c’è, nel Nostro, di
oltrepassare la caducità del tempo e del luogo; per affondare il suo essere
laggiù, nel notturno sussurrio delle stelle; oltre gli orizzonti che demarcano
la nostra precarietà; laggiù dove il cielo finisce:
Immergermi laggiù
dove il cielo finisce,
dove tu sei lontana
come dietro la vela
la sua scia che svanisce (Laggiù).
Per
ritrovare alfine quella parte di sé che lo completi “… prima che il ricomposto/
sereno della notte lo (ci) cancelli”.
Nazario
Pardini
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