martedì 6 novembre 2018

NAZARIO: PREFAZIONE A "MEMORIA DI UNA VITA..." DI TULLIO MARIANI


Tullio Mariani,
collaboratore di Lèucade


PREFAZIONE

A

Tullio Mariani

MEMORIA DI UNA VITA NON VISSUTA


Corsi e ricorsi, oscillazioni e salti
dall'Ete al Serchio in poche scarse mosse


(...)
Tutti insieme
si attende il buio ognuno per suo conto.

Sanno di lisoformio anche le piante
i lampioni e le brache dei cagnetti
e ogni cosa proclama sacra voglia
di Svizzera e Baviera. Pure noi
adesso abbiamo i soldi!

È ben altro che Mariani sogna; sogna l’antica primavera, quella che è passata come un fulmine; sogna l’amore, l’amicizia, la vicinanza, l’affetto di altri tempi; sogna figure e luoghi che cerca di riportare alla luce coll’alchimia del canto. E lo fa con un sentimento di nostalgia spesso sfiorato da un senso di distacco da un mondo che non sente più suo. Dolore e ironia, malinconia e dissacrazione, sorriso e tristezza, una fusione di contrapposizioni che costituisce l’epicentro della sua opera; come direbbe Victor Hugo “la gioia di essere tristi”. Questo è il nerbo del suo poetare, la complessità emotiva dei suoi stati d’animo in parte velata dalla dolcezza dei ricami musicali.
Scrivere sulla sua poetica è come disquisire di storia, di arte, di filosofia... di sarcasmo, di sagacia; del melanconico quesito sul correre del tempo, della vita e della sua indifferenza di fronte agli interrogativi degli umani. Il suo è un progetto di polisemica significanza; un’avventura umana e ultra che tocca ogni ambito del nostro vivere; di quello di ognuno di noi. Già il titolo ci introduce con cospicua elasticità in una vicenda che manca di quella dimensione vitale che l’autore crede le sarebbe dovuta spettare: MEMORIA DI UNA VITA NON VISSUTA. Sofferenza e mala tempora per un essere con l’animo al cielo ed il corpo nelle grinfie del tempo: hic et nunc. Memoria il termine giusto, dacché il memoriale con l’onirico contribuisce non poco alla tessitura del filo rosso di questo corposo lavoro: momenti, frammenti, gioie e rimanenze di giorni fuggiti e irrecuperabili: Dum loquimur fugerit invida aetas, per scomodare Orazio. Ampio e vasto è il campo d’azione, proteiforme il messaggio epigrammatico di questa poesia, dove la conoscenza metrica e la competenza etimo-lessicale raggiungono l’ineguagliabile. Basta porre l’attenzione sull’incipit della silloge, sull’antiporta del “poema”, sul prodromico avvio partorito dalla penna abile e incisiva del Nostro: tutto si fa musicale, tutto si fa euritmico, combinazione di versi armoniosi e fluenti in un insieme prosastico di personale andatura: endecasillabi e settenari sguinzagliati in una narrazione contaminante per combinazioni sonore facilmente convertibile: “Sfaccendato lettore,/ché tale ti suppongo,/ se trovi tempo e impegno da donare/ a questo scarno figlio del mio ingegno,/ io voglio dirti innanzitutto grazie./ Altro non posso fare,/ ma l’idea che qualcuno s’interessi/ ai versi, pur corretti e rifilati,/ di un tecnicaccio di laboratorio,/ in vecchiaia presuntuoso/ poeta, mi gratifica/ in modo indescrivibile/...”. Questo il risultato della prosa poetica inserita come presentazione e facilmente traducibile in poesia. Anche la prosa, o quel che si vuole, ne risentono; tutto è contagiato da una mente avvezza alla sonorità del canto. Non ne può fare a meno: sarà malizia, o tecnica versificatoria, o spontaneità debordante, il fatto sta che lo scritto ci afferra e non ci molla per la verve comunicativa, per la personalissima inventiva affidata alla parola. Mi piace continuare questa mia esegesi riportando un  pezzo che ho avuto occasione di scrivere come commento ad una sua composizione (Gorgoglia il Serchio): “Una poesia compatta, fluente, chiara e corrente come le acque di un fiume che scivolano portandosi dietro memorie,  e feste paesane; tradizioni che la storia inventa e cancella; riscopre e abbandona; ripesca e trasmette, facendone lirica di epica nostalgia (il mio Serchio, quello di Mariani, quello dei poeti, quello che rifletteva gonne di fanciulle intente al gioco); una poesia in cui l’animo si affida ad una rapsodia di classica plasticità; di armoniche perfezioni; di eufonici assalti emotivi. La struttura delle 5 quartine, formate, ciascuna, da tre endecasillabi ed un quinario, danno l’idea, ictu oculi, di una composizione meditata e costruita; inanellata nel suo corso da una sapiente mente prosodica. Ma si sa che la poesia vive di slanci emozionali, di sperdimenti panici, di incontrollate vertigini passionali, di assalti memoriali, di nostos e saudade; insomma di vicissitudini, che, riposate in un terriccio fertile, sbocciano, col tempo, in immagini sapide di una storia. Ed il verbo sta lì, in attesa; matura esso stesso coi giorni e con le ore, con le gioie e le peripezie, con le primavere e gli autunni, pronto a liberare quel crogiolo di abbrivi dandogli visività e concretezza; un verbo che, fedele e mansueto, vario e articolato, si inventa, si moltiplica, si fa nuovo in binari di iuncturae simboliche, ma soprattutto si mantiene integro in tutta la sua semplicità per fare da stampella a tanto sentire. La ragione no! Semmai frena, richiama all’ordine; non permette  voli che azzardano mete irrazionali; che, sbrigliati e liberi, toccano il cielo con le loro impennate. Ed eccoci a questo connubio artisticamente equilibrato, e umanamente suasivo; i due fondamentali della poesia si combinano in una simbiotica fusione di perfetta armonia consonantica: forma e contenuto. Fanno il resto i maliziosi accessori stilistici che si traducono in veri strumenti musicali a ricamare il sottofondo dell’opera: coro nella “boca cerrada” della Butterfly: emozione, brio creativo, spazio liberatorio; uno spartito dagli argini  ben solidi, costruiti per evitare esondazioni, e da cui poter godere il passaggio di una storia paesana; di un Serchio che Gorgoglia e increspa in crepe schive sotto il suo ponte: “(...)/ Già cala il sole. Nuvole elusive/inghirlandano il rosso d’orizzonte./ Gorgoglia il Serchio e increspa in crepe schive/ sotto il suo ponte”.”. E per venire a noi, ai risultati della nostra lettura, quello che emerge da subito è l’abilità di Tullio nel giocare con lo stile: sonetti, ballate, canzoni... si alternano in un fluire di assonanze, rime, metafore, allunghi iperbolici, a dimostrazione che al poièin non basta la semplice canonica morfosintassi, ma che a esso necessita qualcosa di più della usuale parola. Quel più che l’autore sa dare al suo canto elevandolo all’atto creativo, allo stratosferico mondo dell’arte. In quello dove la vita si presenta con tutte le  magagne vicissitudinali, con tutte le sottrazioni, e miserie che fanno riflettere e pensare magari inducendoci a reagire con scherno per tradirne la vocazione. Si inizia con un sonetto di classica positura, dove la potenza dell’endecasillabo troneggia  con tutta la sua maestosità, concedendosi a interpunzioni a centro verso con emistichi a maiore e a minore a conferma di una poetica che niente ha a che vedere con sperimentazioni prosastiche che nell’intento di sovvertire schemi tradizionali non hanno fatto altro che danneggiare il bel canto; come quello di Mariani che da subito ci mette sull’attenti sul modo di far poesia e sulla maniera da seguire per dare concretezza ritmico-ontologica ai suoi stati d’animo: “... muggiti, martellare dalle case,/ fiorivano canzoni come rose/ tra odor di cuoio e di fieno maggese./..../Ad ogni incontro, in qualche breve frase,/ commentare il fluire delle cose/ e il rimpianto di annate andate e spese”: memorie, futilità del tempo, saudade, immaginazione e realismo lirico alla Capasso si fanno ingredienti sostanziali nello scorrere dello spartito:

da Perdute antiche primavere:

Io mi stendevo, a volte, sulla ghiaia
degli stradelli a frontiera ai poderi
vivevo i campi e il cielo e praticavo
l’illusione dorata, imprescindibile,
che quel mondo potesse essere eterno,

a Le estati del dopoguerra, dove il ricordo si fa alcove rigenerante, edenico flusso di riposi:

(...)
Ed oggi la memoria
mi porta a quelle sere di bambino,
a quelle notti di canzoni e vino,

da Silvano Berdini in memoria, dove l’amicizia di un tempo torna come lenimento del vivere:

Sono partito, sono andato via,
poco ci siamo visti da quel tempo
e un po’ sei uscito dalla vita mia,

questa vita di cui facevo scempio.
Penso, a volte, che averti più vicino
avrebbe un po’ aggiustato il mio destino,

alla saggezza antica di Francesco Bedetta, Francì de Rampéca:

(...)
Francì, tu sei partito
per quell’ultimo viaggio, ed io non c’ero.
Tanto vagabondare e tanto leggere
nulla ho imparato mai
che valesse la tua saggezza antica,



transitando per poesie di sapido risvolto analitico o di struggente realismo psicologico: Vecchi all’osteria, Lo scarparo, Casette d’Ete, che già vincitrice del Premio Mimesis di Itri, tocca punte di alta liricità, Notte sui Lungarni, per chiudere con Poco da dire, in cui il poeta si abbandona ad una sarcastica quanto mai triste nota di biografica concordanza:

(...)
Scrivo in metrica e rima per cifrare
umori, tedio e sprazzi di sereno
e almeno un risultato è da apprezzare:
scrivo di meno.

Questa è la silloge di Tullio Mariani: un mix di composizioni in metrica in cui si racconta una storia sorretta da una plurale cifra esistenziale; e dove, come scrive E. A. Poe nel saggio postumo Il principio poetico, la poesia è creazione ritmica della bellezza”, convinto che “il sentimento poetico si ottiene nell’unione tra poesia e musica, giacché nella musica, forse, l’anima raggiunge quasi interamente il grande fine per il quale, se ispirata da un sentimento poetico, essa lotta… per raggiunge la creazione della Bellezza Suprema…”.

Nazario Pardini


DAL TESTO

Sfaccendato lettore,
ché tale ti suppongo, se trovi tempo e impegno da donare a questo scarno figlio del mio ingegno, io voglio dirti innanzitutto grazie. Altro non posso fare, ma l’idea che qualcuno s’interessi ai versi, pur corretti e rifilati, di un tecnicaccio di laboratorio, in vecchiaia presuntuoso poeta, mi gratifica in modo indescrivibile.
Non troverai, nei testi contenuti, né l’esibito impegno umanitario, ch’è più utile a quello un pomeriggio di volontariato che mille languidi scanzonati versi, né pindarici voli, ché manierismi e espressionismi a frotte stuprano, a mio parere, la Poesia.
Narro di me, che è ciò che fa Poesia, pur se lo maschera sotto altre vesti, mescolando la vita che ho vissuto ad un’altra che avrei potuto avere, e ad una che pareva a me possibile ma che tale non era.
Venendo al dunque, comparo e raccordo il mondo del paese dove nacqui a quello dove scelsi poi di vivere, seguendo sogni fatui in grande parte. Comparo gli amici di allora a quelli in gran parte periti, che scelsi nei luoghi ove vivo o in quelli in cui son transitato. Pure comparo situazioni, ambienti e varia umanità. Non suddivido i testi in base ad aspetti formali, i sonetti si mischiano a canzoni fatte di settenari e endecasillabi ed a ballate, una in novenari. Qua e là ho azzardato pure alessandrini. A raccordare il tutto è una indecisa e traballante linea cronologica che segue i salti e viaggi di emozioni e pensieri dall’uno all’altro lato dell’Appennino.
Ti ringrazio per aver letto fin qui ed auguro ai miei versi di piacerti.

Tullio




CASETTE D’ETE, ANNI CINQUANTA

Vecchio paese sparso nella valle
fertile e verde dove l’Ete scorre,
veglia da un colle la vetusta torre
dei conti Brancadoro. Alle tue spalle

Monte dei Falchi indossa un verde scialle
di cespugli e di arbusti. Alto discorre
un falco con l’azzurro, a riproporre
spirali e ampi volteggi. Dalle stalle

muggiti, martellare dalle case,
fiorivano canzoni come rose
tra odor di cuoio e di fieno maggese.

Ad ogni incontro, in qualche breve frase,
commentare il fluire delle cose
e il rimpianto di annate andate e spese.



CALORE

Danzavano le travi al chiarore dubbioso
della lucerna ad olio, crepitava la fiamma,
pulsava la penombra di parvenze irreali
a ravvivare favole e leggende e racconti.
Sedevo sul gradino del focolare acceso
le spalle tutelate di vivido calore
in faccia il cerchio chiuso degli adulti a narrare
le paure di sempre con diverse parole.

E morti che tornavano, e forme ed animali
che non erano ciò che appariva alla vista
e di notte acquisivano voce di profezia
e perfida e ghignante, a rinfacciare colpe,
annunciare castighi di lutti imprescindibili
e poi ratti svanire quasi fossero nebbia.
E streghe, e fuochi magici, e inquietanti tesori
che una parola incauta mutava in foglie secche.

Ciondolava la testa a cercare i ginocchi,
gli occhi già quasi chiusi, per cuscino le braccia.
E lento e lieve il sonno mansueto coinvolgeva
per ultima la mente, e mi prendeva un limbo
di buio caldo acceso, di figure incantate
evanescenti forme soavi nel sorridere
e nell’istante ultimo tra l’essere e il sognare.
osavo il grave azzardo di sentirmi felice.



PERDUTE ANTICHE PRIMAVERE

Era un cielo di rondini il mio tetto
e occhieggiavano scampoli di azzurro
tra nere falci di affilate piume.
Si abbarbicava il tralcio ai fili tesi
da un olmo all’altro, rette parallele
oscillanti di pampini ancor gemme,
a intarsiare i poderi, arcani segni,
codice a barre senza altro messaggio
che unire utile e bello. Era già tempo
delle viole odorose, e margherite
chiazzavano bottoni d’oro e avorio
lungo i bordi dei fossi
quasi chiamassero a serrarli.
Il tappeto del grano ancora erboso
verde incontaminato, intenso, esteso
a tutta vista, cedendo segnava
il vigore di brezza in lunghe onde
e dolci e terse. Si alzavano in volo
i primi schivi e poveri aquiloni
stecche di canna e carta di giornale
a intralciare le frecce delle rondini
e ad appendere al cielo ingenui sogni.
Io mi stendevo, a volte, sulla ghiaia
degli stradelli a frontiera ai poderi
vivevo i campi e il cielo e praticavo
l’illusione dorata, imprescindibile,
che quel mondo potesse essere eterno.



LE ESTATI DEL DOPOGUERRA

Erano notti di canzoni e vino
di inconsuete speranze
di corale illusione.
Vedevi, anche negli occhi di un bambino,
luci intessute in danze
e lampi di passione
ché si era chiuso il tempo del soffrire
ed apriva le braccia l’avvenire.

Dopo il gelo tornavano a fluire
calore e gioia in cuore
e il cupo disincanto
dello scettico prono al divenire,
rassegnato al dolore,
si apriva al riso e al pianto
e alla vergogna di essersi già arreso.
Di nuovo in piedi, uomo, a pugno teso!

Durò decenni il sogno vivo e acceso
di nuova umanità,
d’uomini tutti uguali
finché un indecifrato malinteso
ci svegliò a una realtà
di antichi uguali mali
e lo sconforto ci vuotò la vita
al veder l’illusione ormai finita.

Pure quella partita
fece di noi soggetti della Storia
d’un sogno puro di vita e vittoria

Ed oggi la memoria
mi porta a quelle sere di bambino,
a quelle notti di canzoni e vino.

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5 commenti:

  1. Nazario, son commosso e, al tempo, lieto.
    Resta comunque chiaro
    che il miglior testo dell'umile libro
    che vado a pubblicare
    sarà la prefazione. A te il mio grazie.

    Tullio

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  2. No, io che leggo sono commossa, perché, se è vero che la Poesia è quella che sa provocare sentimenti di rimando, immediata identificazione con il Poeta o un improvviso interrompersi del respiro, ecco, è ciò che mi sta accadendo e, dunque, questa è Poesia. La profondissima e sapiente disamina del Professor Pardini ha provocato in me l'ansia dell'attesa, quella che senti da adolescente quanto ti capita un ottimo insegnante che, parlando di Omero o Leopardi (cito a caso fra i Grandi) , ti fa desiderare di tuffartici dentro, e così mi sono tuffata nelle tue poesie, nello spirito del ricordo, non nostalgia, non rimpianto, ma humus fertile su cui costruire il futuro. Ho nuotato nelle parole che sanno di antico, ma aprono, una per una, ciascuna a modo suo, ampie immagini del mondo d'oggi che via via si ripete come un tormentone. Ringrazio entrambi per avermi donato pagine di autentica bellezza. Si sta meglio, dopo una simile lettura.
    Maddalena Leali

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  3. Ti ringrazio, Maddalena, per la tua laudatoria analisi e perché sei il fruitore ideale, quello che, nel suo percepire, contribuisce al processo creativo. In questo mi ricordi l'abilità percettiva di Nazario, persona ch vorrei essere capace di prendere a modello.

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  4. Uh, mamma mia! Che esagerazione! Mi piace leggere e scrivere, ho sempre studiato e scritto tanto. IL mio fantastico papà diceva che ero nata con la penna in mano, ma che io ti ricordi Nazario, beh, ne devo fare ancora di arrampicate per arrivare cosi in alto, e neppure lontanamente penso di poterci riuscire, anche perché soffro terribilmente di vertigini persino quando metto le scarpe con i tacchi. Professore ...perdono.
    Tullio, complimenti ancora e un caro abbraccio.
    Maddalena

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    1. Maddalena, non ho confrontato nessuno a nessuno, ho solo espresso l'impressione di orientamenti percettivi affini. Nazario è inarrivabile, concordo con te, ma mi è piaciuto il tuo modo di percepire e recepire, il tuo modo di sintonizzarti altesto e a chi lo ha scritto. Ciao, buona notte.
      Tullio

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