sabato 2 febbraio 2019

NAZARIO P. LEGGE: "INEDITO" DI ANGELA GRECO



Un poemetto di ampia suggestione, anche se l’autrice si lascia andare ad uno stile di positura minimalista, con poca intrusione di personale apporto. Tutto scorre  libero e frammentato sotto gli sguardi occasionali; gli ammicchi a perone ed oggetti che sembra non siano legati da un filo conduttore. Cosa non vera, dacché la poetessa, anche se fuori scena, fa sentire le sue emozioni sulla vita e la sua inesorabile piega. La casa vuota, Mina, il fiore ostinato, il gatto, Ignacio, il toro, il Bolero di Ravel, Giovanna, il portafotografie, Antonio, santo di metà gennaio... tante  immagini che si alternano in una visione realistica tipo stesura Anceschiana, o correlativo di stampo eliotiano. Ma non si può sfuggire, camminando, alle nostre impronte; e sono esse che parlano e dicono  di tante figure nella morsa di un tempo che scorre fregandosene di tutto e di tutti. Una cosa è certa. Angela Greco è alla ricerca di indirizzi nuovi che si distacchino dalla solita poesia convenzionale, basata su sinestesie e strutture dalla classica positura; e si concede ad ampie misure quasi di positura narrativa per raccontare la vita, mirandola, a sprazzi, dalla sua postazione, in disparte, senza ficcare il naso nel suo inesorabile consumarsi...  Ed è essa, la vita stessa, che ci tiene  imbrigliati nella sua rete-tramaglio lasciandoci poco spazio  d’intervento durante il prosieguo della vicenda. Forse è proprio da questo porsi in alto, sopra i fatti, che l’autrice ricava il leitmotiv che dà compattezza alla trama.

Nazario Pardini



Taurominomachia di Angela Greco (inedito - gennaio ‘19)
  
Quella casa è vuota; nessuno
accende più le luci alla Madonna e
persino il sempreverde, ormai, ha
difficoltà di relazione con il vicinato.
Mina aspetta il passo a secondo piano,
un suono, un ricordo, che le auguri buongiorno,
un silenzio in meno e una timida domanda;
anche casa sua è vuota. Abito assenze.

A est, appena dopo la casa marrone e bianca,
ostinato un fiore selvatico senza pretesa di nome,
s’arrampica giallo verso lo spazio tra due finestre
in cerca di cielo. Stamattina un gatto tigrato ha
scalato la vetta di un piano e mezzo alla ricerca
di una risposta al suo insistente miagolio. Il fiore,
il gatto e Mina s’assomigliano in questa stradina
casa-elementari, percorso a ritroso in attesa.

[…]

Ignacio è morto, ferito ad una gamba; tutti pensano
ad Ignacio, comprese la calce e la sabbia, onorando
il suo silenzio, parlando dei suoi meriti e aspettando
il terzo giorno, il momento preciso in cui si torna quel
che si era prima e dopo la croce. Al cielo o alla terra
non fa differenza. Ignacio è morto, scriviamolo bene.

Il toro no, lui è ancora vivo; il toro ha visto la morte e,
per questa volta, lui è ancora vivo, ma non sa per quanto.
Nessuno lo vede, con il corno insanguinato, a cuore battente,
con la spalla rigata da uncini metallici e la sabbia, la stessa
compassionevole che accoglie Ignacio, bruciargli occhi e gola
nel tentativo di sopravvivenza. Il toro è vivo, ricordiamolo.

[…]

A te non piace il Bolero di Ravel; lo hai detto
un giorno di un altro inverno, forse mille anni fa;
la marcia, reiterata sotto la progressione della storia,
ti annoia. Io sono in quel vortice; io sono quel vortice.
Lo dice la mia schiena e avanzo, svolgendo all’indietro
il filo su cui cammino da quarantatré anni, raspando
al suolo con lo zoccolo, sciogliendo le vertebre cervicali,
soffiando l’ultima polvere dalle narici frementi, raccogliendo
le forze, che hanno seppellito quelli che avevo intorno e mentre
gli acuti ingaggiano una tachicardia col mio petto, i fiati sciolgono
la muscolatura ferma da troppo tempo e s’apre l’ultimo minuto.
Sale in gola il primo vagito, mentre il coro annuncia la fine del mondo.

[…]

A forza di ripeterlo magari accade ed un mattino diventa
un prato di iris blu, che prosegue il cielo. Certe domeniche pomeriggio
di inverno sono un lavoro fatto a mano; punti e parole, un intreccio
di fili e pensieri, solitudini rivestite di erica di fronte all'oceano.
“Ciao, sono contenta di sentirti; io sono sempre rimasta qui
ad aspettare. Anzi, ad aspettarmi.”
Sogno a colori e al risveglio ricordo finanche le tonalità
differenti che compaiono di notte. Ultimamente distinguo
nitidamente la tua voce; una umanità ormai rara albeggia
nei tuoi gesti. Giunco sulla riva, segui stagioni senza spezzarti.
Se mai dirò ancora di andare via sarà solo per venire più vicino,
tra camicia e pelle, distesa sul tuo silenzio.

[…]

Appena usciti, tra due ante di vetro, una finestra rotta
avvisa i gentili ospiti che Giovanna non abita più lì,
all’ultimo gradino di una strada in discesa, fregiata pazza
dalla dirimpettaia. Nemmeno Pasqualina segna più in blu
il piccolo debito di una cioccolata, perché mamma non può
più pagare. Il mitreo è all’ultimo piano; qui, bisogna salire
e San Clemente guarda stranito da secoli di distanza.
Mezzogiorno è la scia di un aereo al posto delle campane;
un volo in picchiata ascoltato dal soggiorno azzurro - o
forse è il cielo - e mentre scandisco le dita sulla tastiera, tu sei
a pesca in jeans e telefonino, pronto per la prossima acqua alta.

Una visione compare appena prima del risveglio
ed è un dolore addominale, dallo sterno in giù;
ulivi secolari fronteggiano onde anomale. In mezzo,
una striscia di Murgia tenta una strenua difesa, ma non
sappiamo da chi o da che cosa; mezzi blindati occupano
la testa dei filari e il cielo si fa scuro fino alle tre del pomeriggio.
L’impotenza guarda dalla finestra cercando suoni da articolare.
A destra e a sinistra i due ladroni hanno dato forfait e a metà
gennaio la vigna è un ordinato susseguirsi di dita aggrappate
a fili tesi allo spasmo. Proseguo, ma l’alba sopraggiunge senza
preavviso e solo allora riconosco la mia condizione e ti chiamo.

[…]

Il portafotografie dice del tempo, al pari della polvere, sottraendo
l’aspetto reale e donando sembianze tutte da riconoscere.
Il vetro terso ha una cattiveria da non sottovalutare; riflette
meglio di me e mi avvisa che ho bisogno di un altro spazio, dove
rimettermi. Allora m’accontento di un giorno seduta al mio tavolo;
il campanaccio scaccia le scie di maldicenza e le capre
cancellano il segno sulla schiena, tanto Bodini lo ha già scritto.

«Come abbiamo fatto ad evitarci fin’ora, nemmeno un bacio
da raccontare all’inferno?» Qualche dubbio che non sia accaduto ce l’ho.
Antonio, santo di metà gennaio, prega nel deserto ed io prenderei
senza pensarci due volte il tuo posto. In fondo, ci sono già passata e
ti risparmierei davvero questo accadimento di fili e sterno alla stregua
di una porta. Le mani si fanno fredde e non basta il cielo a non ricordare
che quindici anni sono un granello, che precipita nella metà opposta,
anche senza volerlo.

2 commenti:

  1. Confermo un "passaggio", che sta accadendo in questo periodo alla mia poesia; una mancanza di apparente unità non dissimile da questi tempi, dal quotidiano che insiste, che ci investe, frammentandoci in cocci di varie argille, ammassati senza forma e apparentemente inutili a dire qualcosa...Eppure è poesia proprio mettere in luce la pluralità che siamo, che vediamo e che sentiamo, l'incomunicabilità paradossale nell'era dell'eccesso di comunicazione...è poesia il dettaglio che evoca, il filo conduttore nascosto nello spessore del muro e che pure a distanza dalla fonte accende una luce. Versi outsider, ostici in apparenza, che trattano di un tema fondante la Poesia, la morte, difficili anche da dire poesia, che sicuramente non attendono alle aspettative del lettore e di nessuno, la cui accettazione, lettura e pubblicazione coraggiosa del prof.Pardini, mi riempiono di gioia. Grazie di cuore,
    Angela Greco AnGre

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  2. ieri sera ho inserito subito un commento, soprattutto un ringraziamento, ma temo che le novità apportate da alcune piattaforme lo abbiano annullato. Lo riporto come lo ricordo, in questo inizio di giorno.
    Confermo un "passaggio" che in questo periodo sta accadendo alla mia poesia, nella quale si evidenzia un mettere in primo piano una mancanza di unità -solo apparente, come ben rilevato nella nota critica-, non dissimile dal quotidiano che ci investe, frammentandoci in cocci di varie argille, ammassati e apparentemente inutili...Eppure è poesia anche il fare luce sulla pluralità che siamo, sull'incomunicabiità paradossale nell'era dell'eccesso di comunicazione, così come è poesia il dettaglio che evoca, il filo conduttore nascosto nello spessore del muro e che pure, lontano, accende una luce. Versi outsider, difficili persino da leggere 'poesia', che sicuramente non attendono alle aspettative di nessun lettore e di nessuna scuola, la cui accettazione, lettura e commento e coraggiosa pubblicazione da parte del prof.Pardini .che ringrazio di cuore- non può che darmi gioia.
    Angela Greco AnGre

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