venerdì 11 dicembre 2020

NAZARIO PARDINI PREFAZIONE A: "AVANZAVA SETTEMBRE" DI E. CECERE


Nazario Pardini: Prefazione a:

Ester Cecere. Avanzava settembre. Helicon. 2020

 

Non chiedermi perché

non risale alla sorgente il fiume

e del mare all’irresistibile richiamo

corre.

Non chiedermi perché

garriti animano i cieli a primavera

per poi in autunno desolati

abbandonarli.

Non chiedermi perché

il sorriso che dalle mie labbra

s’irradiava

inquietante nube

di tuono foriera è divenuto.

 

Forse,

era nell’ordine naturale delle cose.


Questioni e interrogativi che presuppongono risposte che l’uomo chiede in quanto tale, ma che non arrivano mai a soddisfare le esigenze esistenziali. Da qui l’inquietudine del fatto di esistere, la melanconica voce interiore che non si accontenta del “Forse/era nell’ordine delle cose”, ma che vorrebbe allungare il collo fino alla soglia del cielo, comunque, sempre, senza una risposta adeguata. Iniziare da questi versi testuali significa andare da subito al cuore della poetica di Ester Cecere. Avanzava settembre, il titolo, che con versi di corposa identità esplicativa ci dona un  quadro ampio e sostanziale del viaggio della poetessa. Il titolo assieme alla massima riportata in esergo (Il presente è carico del passato e gravido dell'avvenire” Gottfried Wilhelm von Leibniz) ci dà l’avvio a questa nostra riflessione critica: un’antiporta, un prodromico innesto, un’apertura alla lettura delle composizioni di questa corposa opera, che nella poesia eponima, offre il meglio con una simbologia antropica di alta levatura lirica: 

 

Avanzava settembre,

smarrito dell’estate il rosso acceso

il sole tra brume scolorava

alla nostalgia nascondendo

l’orizzonte e l’infinito.

 

Avanzava settembre,

eccitati e un po’ dubbiosi

stipavate i borsoni di futuro

il fardello più pesante

a me lasciando… (Avanzava settembre).

 

E settembre è il mese delle feuilles mortes, il mese dei rubini cadenti, delle strade cosparse di stagioni finite; e quale stagione ci fa meditare più del settembre: il redde rationem, i melanconici sguardi ai simboli di precarietà e finitezza. Forse proprio il tempo che più si avvicina alla vita, al suo percorso fatto di interrogativi e dubbiosi ripiegamenti. Il mese della quiete dopo le abbuffate di sole e di cromie. Ora tutto è placato, tutto è leggero, tutto è vicino ad una fine che tanto ci parla di ultimazione. E questo è un po’ il fil rouge dell’intera opera. Quello di una scrittrice che matura di esperienze e di poesia vede il mondo con un animo zeppo di vicende, di storie, di accadimenti più o meno buoni che hanno forgiato la sua presenza in campo scritturale; il suo essere donna e scrittrice; la visione di chi dalla realtà ha avuto contaminazioni di ragione formativa.     

Scrivere su Ester Cecere significa parlare della sua vita, del suo mondo, della sua empatia granitica per l’arte e l’afflato scritturale in generale. Il suo poema  è la sua vicenda: vita di poesia, poesia di vita:

 

(…)

Teneramente fiduciosa in un tempo

che m'aspettava lungo.

E' scorsa quasi tutta la mia acqua.

Ora, alla foce seduta,
la vastità che spaurisce fronteggiando,
mi chiedo dove annegate sono
le giovanili mie illusioni (Una vita e l’altra).

 

   Già da questi versi si fa chiaro il discorso esistenziale, la riflessione sul tempus fugit, sulla precarietà del nostro esistere.  Ogni tracciato di ciò che contorna la scrittrice è motivo di rielaborazione, di compenetrazione, di analisi: vede, osserva, immagazzina, medita e trasferisce sul foglio con l’energia che la contraddistingue. Sì, perché è necessario che tutto ciò che l’emoziona riposi, venga ricamato dal tempo, e che si contorni di uno stato d’animo levigato, cresciuto e evoluto.  Ed è così che nascono poesie di raro equilibrio formale, di compattezza umana e ontologica, di forte identità sentimentale. Molteplici possono essere le chiavi di lettura del suo percorso epigrammatico: psicologica, naturistica, autobiografica, esistenziale, sociale. Il tutto si miscela in un  ritmo apodittico e conclusivo, breve e conciso. Di sicuro la sua poesia non rientra nei canoni di positura prosastica,  senza misura, impersonale, come vuole la corrente minimalista che riduce il tutto ad una realtà senza memoriale, senza inclusione esistenziale; al contrario la poetica della Nostra  è fatta di sentimento, pensamento, di inclusione; e lo si capisce subito dai suoi versi che, alimentati da vicende reali, si ampliano o si abbreviano a seconda dei comandi dello spirito. E’ l’anima che comanda, sono le emozioni che dicono al verso di adattarsi agli input emotivi. Ed esso obbedisce, va dietro agli effluvi, tanto che non di rado ci imbattiamo in lacerti metrici di rara liricità: vita amore, amore natura, natura eguaglianza, eguaglianza ed emozione, emozione e radici.

 

Se tornassi, madre,

una giovane donna

sorpresa t’abbraccerebbe

e un ridente giovanotto.

Né la riccioluta bimba

né il biondo putto

che lasciasti.

Se tornassi, madre,

ti ferirebbe della mia bocca

la piega amara,

pur nel sorriso

che t’accoglierebbe.

 

In lacrime d'amore e sofferenze

anni si fonderebbero (Se tornassi, madre).

 

 Ciò non toglie che il dettato si faccia robusto e stilisticamente elaborato a ovviare deviazioni sentimentali, epigoniche infrastrutture verbali; tutto ci risulta di una semplicità complessa, di una liricità naturale e emotivamente ispirata, concretamente sostenuta, dove la grammatica formale tiene dritta la barra verso un porto di difficile ancoraggio. D’altronde è un viaggio questo di Cecere, un viaggio in mezzo al mare, dove la barca rappresenta la consistenza verbale, la ricerca di un bene arduo, la robustezza lessicale, e la polena mira ad una meta di cui non si conosce il faro; quella luce che la illumini e che permetta un approdo. A parte la metafora, la navigazione della poetessa è incerta e insicura, dacché Ella sa dei perigli marini, degli scogli da superare, delle furiose tempeste, e sa che la  barca può infrangersi contro tali trabucchi, anche se  la poetessa continua egualmente a navigare su una tavola scampata, magari senza bussola, a  vista, con remi dritti e forti, verso quell’isola, pur cosciente delle difficoltà dell’impresa, che equivalgono a quelle della vita, breve, caduca, insicura:

 

Navigo a vista.

Della mia bussola

l’ago impazzito

più non indica

rotte sicure

per approdi certi.

 

Consapevole affronto il naufragio.

Ché l’SOS nessuno ascolterà (Navigo a vista).

 

Leggere dei versi ad hoc, dei momenti poetici incisivi e umanamente vivi, ci aiuta a definire e circoscrivere la sua poetica:

 

da frammenti sul fatto di esistere,

 

(…)

Rami di corallo rosso d'amore,

di conchiglie schegge taglienti,

cuscini di morbide alghe,

sulla rena abbandona.

 

Scampoli d'una vita

dal mare restituiti (Come la marea),

dove natura e sentimento si compattano in una simbiotica fusione di simbolica visività,

 

a sullo scorrere del tempo:

 

Dove sono giunta?

Ben ricordo il luogo di partenza.

Dunque è questo l’arrivo?

Qui ero diretta?

La strada sbagliata

ad un bivio ho imboccato

nella corsa del vivere (…) (False mete),

 dove gli interrogativi della vicenda umana rendono concreto e assillante il nostro pensiero sull’esistere, sul visionario confine, su questioni e incertezze che fagocitano risposte, su eros e thanatos;

 

fino a sul cotidie morimur senecano, o sul dum loquimur oraziano:

 

In un altrove vivere vorrei

altro da me essendo.

Bluffato ho al poker della vita.

Sfumato in fretta

il piatto immeritato.

Posseggo di carte

un altro mazzo.

Ma non ho tempo ormai

per una partita nuova (Bluff),

che ci danno l’idea della freschezza del canto e della partecipazione emotiva.

 

D’altronde le sue molteplici realizzazioni ci offrono contezza ben precisa e articolata di come Ella intenda l’arte; di quanto viva del suo apporto intellettuale. Ho avuto il piacere e l’onore di seguirla nel corso della sua ormai lunga produzione  narrativo-poetica, e non di rado ho letto pericopi tratte dai suoi scritti; una vera cascata di emozioni soprattutto quando l’Autrice si sofferma su descrizioni  oculate e mirate alla profondità delle tematiche, o tratteggia situazioni storico-sociali di degrado o di ingiustizia; di sangue e di morti che giacciono ammucchiati; è qui che viene fuori tutta l’energia sintagmatica della poetessa; il suo risentimento, il bagaglio di umana consistenza egualitaria, dato che fa della giustezza un motivo fondante del suo essere poetessa:

 

Cosa cerchi in questa terra
da battaglie arse,
dove fuochi bruciano ancora

gli alberi superstiti,
i fiumi son ruscelli di marcescente fango
e i morti giacciono ammucchiati
a ricordare che vi fu vita un giorno?

 

Va’ a cercare verdi foreste!
Va’ a cercare fiumi cristallini!
Va’ a cercare gioventù festosa!

 

Lascia che solo la memoria
abbia pietà di quel che fu (Campo di battaglia).

 

 E la Natura, con tutta la sua valenza simbolica, si fa linguaggio visivo nella reificazione degli stati emotivi; sembra quasi che giochi coi lampi emozionali, con le uscite secche e metricamente riuscite. I versi si riempiono di policromi effetti, si metamorfizzano in giochi di luci e di ombre ad accompagnare gli alti e i bassi della vita:

 

Ad ogni vento tremano

le foglie tue inquiete.

Come giovani farfalle

dal bozzolo uscite,

senza tregua s’agitano,

Luci e ombre cangianti

sulla terra disegnando.

Sfavillii dorati rimandano

al soffio del primaverile zefiro

e plumbei riflessi rendono

dello scirocco all’alito.

Rosseggianti ammiccano

alla brezza del tramonto.

Del gelido maestrale

senza timore alcuno

restituiscono la sferza.

 

Come ogni uomo,

che spaurisce e s’agita

della vita allo schiaffo,

eppure rende infine

ciò che ha ricevuto in dono (Pioppo tremulo).

 

D’altronde non c’è emozione che non la segua in questa narrazione di cospicua plurivocità, sia che narri della sua solitudine:

 

Opprime il silenzio gravido

di suoni soffocati dalla notte.

S’agita insonne il mare

come da incubi tormentato.

Senza pace s’avvolge il corpo mio

in lenzuola come sudario candide.

Giunge inquieto della risacca il brontolio.

Risuona inquieto l’insonne mio respiro.

 

Bramiamo entrambi l’alba

che di rosa ammanti le acque

e della mia stanza le pareti (Alba bramata).

 

sia che gioisca di un segmento occasionale:

 

E' fiamma di candela

un bel ricordo.

Vivace e sicura guizza

in lingue sottili sfrangiandosi.

Luce diffonde.

Calore emana.

Spegnersi talvolta sembra

per divenire poi

più luminosa e gagliarda

sinuosa danzando (Un bel ricordo, a  volte),

sia che viva momenti di apporto memoriali, di poesia dell’home, di erotici risvegli sapidi di bàttime:

 

Accanto a me siedi stasera.

Immergiamoci

in quest'ultima notte d'estate.

E' fresco l'alito del mare.

 

Ascolti?

Ci raggiunge,

sommesso sottofondo,

di giovanissimi gabbiani il pigolio.

 

Vedi?

Dondolano appena

le sonnolente vele

nella loro culla adagiate.

 

Notte di plenilunio

a riempire cielo e cuori...

 

Accanto a me siedi stasera

e stringimi la mano

come tante lune fa (Accanto ma me siedi stasera).

 

Una narrazione plurima, polivalente, proteiforme che copre coi suoi assalti alla creatività tutti gli angoli reconditi dell’esistere. E i versi seguono con euritmica scansione, anche nei momenti di tristezza e di riflessione, quasi a creare un ossimorico gioco di antitetico stupore fra forma e  contenuto.

 

(…)

Cerco

la battuta che strappi un sorriso,

lo sguardo bonario che rassicuri e sorregga,

il partigiano silenzio che come bolla m’avvolga.

Anche un po’ di fremente passione

che non abbia però un altissimo prezzo (Non ho più voglia).

 

Un velo di sana e buona saudade, di melanconico apporto sentimentale sembra ricoprire il percorso poematico; ma una melanconia che fa bene alla poesia, rendendola al contempo umana e zeppa di questioni che riguardano il nostro dubbioso cammino esistenziale, tanto pieno di propositi ontici da non trovare parole per esprimerli:

 

(…)

Poi cerco parole,

che come d’un frutto i semi,

a me dinnanzi si snocciolano

slegate restando

senza senso compiuto.

Un mal d’essere

un disagio recondito

ad esprimere esitano,

che duole e squassa l’anima

ma voce non trova… (Cerco parole).

 

 Comunque sempre la poetessa riesce a tradurre questo malinconico e riflessivo stato emotivo in una filosofia positiva, dacché quello che al fin fine domina è uno sguardo sui rapporti umani aperti ad un mondo di pace e di armonie, di recondite armonie direbbe il mio maestro Puccini, che fanno della vita quel breve tratto in cui l’uomo possa elevarsi alle soglie del bene; a quei valori che gli diano il diritto di definirsi pienamente umano.                      

 

Anelo

a terre tranquille

a cinguettii di colore

al sole che scalda e disegna

ombre che non siano minaccia... (E’ un continuo guardarsi le spalle).

 

Nazario Pardini

 

 

 

3 commenti:

  1. Splendida prefazione per una raccolta preziosa; attenta lettura con dovizia di citazioni dettagliate della poetica di Ester Cecere. Ho letto la raccolta e condivido in pieno la prefazione... i poeti vivono, dalla vita viene la poesia: sicuramente vale nel caso di Ester Cecere

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  2. Nazario conosce bene la persona e la poetica, la sua prefazione rende tutta la bellezza dei versi di Ester

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  3. Ringrazio Valeria e Claudia e, soprattutto, il caro Nazario. La tua prefazione è un grande onore! Hai speso per me parole bellissime e, direi, veritiere. Inoltre, da poeta e critico letterario di altissima caratura quale sei, hai immediatamente colto il senso della raccolta e il suo file rouge.
    Ester

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