Melania
Panico: Campionature di fragilità. La
Vita Felice. Milano. 2015. Pg. 56
Poesia
armonica, intimistica, di profonda e ontologica perlustrazione soggettiva, che,
col suo andare ondivago, robusto e significante, si oggettiva in espansioni ora
verticali ora orizzontali; si trasferisce in ognuno di noi rendendoci partecipi
di esperienze umane, di connessioni che possono vincere divergenze, con canti i
cui verbi, con urgenti concomitanze affettive, e con slanci di valenza
iperbolico-allusiva, si fanno corpo di un sentire dai toni epico lirici; intensi
e rievocativi: saudade, nostos, odeporica ricerca, melanconica vis creativa,
spleen, inquietante soluzione esistenziale; e freschezza lessicale. Il viaggio di un essere che patisce le tappe
e le tristezze del fatto di vivere: coscienza della precarietà del tempo; orizzonti
che ci delimitano, voli oltre la siepe:
Dovrebbero pentirsi le navi
di oltraggiare il porto
dovrebbero seguire il loro
destino lieve
appoggiarsi come a un’idea.
L’isola è troppo distante,
segnata,
non si tocca con mano
finisce così il grigio
il ponte senza giunture
il nostro tempo fragile.
(…),
ritorni
a giochi familiari; spazi a cui richiamano le radici. D’altronde la vita ci pone di fronte a quesiti di difficile
soluzione; a problematiche di natura escatologica o più semplicemente temporale
che ci rendono consapevoli della nostra
fragile entità terrena. Campionature di
fragilità il titolo della plaquette. Un titolo indicativo, che fa da
antiporta, da prodromico avvio ad un cammino di forte intensità meditativa,
dove la Nostra, con un dire aduso ad una grammatica di energica formazione
culturale, e ad una sonorità immaginifico-creativa, riesce a tradurre il suo
impatto cospirativo in una versificazione semplicemente complessa, parenetica,
anche, ma lontana da ogni epigonismo o dalle insidie dei luoghi comuni. La
silloge si divide in due sottotitoli: Cose
accantonate, Rinascite. Ed è proprio il tema della fragilità che sembra
dominare nella trama del “Poema”, quella di noi esistenti; delle nostre
relazioni; quella delle memorie stesse, delle cose, delle case, delle sere:
La sera si consuma
nelle vene delle mani
disfatti gli anni
su un foglio bianco
non sostiene i passi
(…),
una
fragilità che si traduce in mari dentro, dalla voce frastagliata:
Lascia poche impronte,
si dilunga perdente
nelle espressioni del niente
ha sogni trascurati
e lacrime,
e
che si affida a sogni per ovviare alle aporie del mondo; o alla disumana forma
del ricordo:
E’ una vita che prova dilatare
conforti
la disumana forma del ricordo
alberga in pieghe poco sottili
anche un vetro assume fattezze
incolmate
ora che il foglio diventa
focolaio,
per
trovare alcove di riposante ed edenico ristoro. Il fatto sta, però, che la
Nostra non si tira di certo indietro, usa la penna come arma letale, lasciando
sul foglio un inchiostro nero di delusione per tutto ciò che la circonda. Per
un mondo che sembra fatto alla rovescia, convinta, Ella stessa, che il male sia
nell’uomo che si è allontanato dalla madre più antica. E di questo soffre; di tale
pathos risente il verso, che scolpisce la Panico con scalpelli tanto acuti (punte
di tale sofferenza spirituale) da ritrarne un volto all’apparenza spigoloso, se non risultasse, attraverso una
attenta lettura, estremamente sorridente alla vita; a tutto ciò che illumina il
suo tragitto. D’altronde è proprio l’amore per tale irripetibile esperienza che
ci spinge a criticarne gli aspetti negativi; ma ciò non toglie che questo amore
non rifulga più potente di quello dipinto con meliche effusioni. Se si
considera poi che il linguismo per accostare i tanti impatti emotivi, gli
energici voli immaginifici, è disposto ad andare oltre il senso della
morfosintassi canonica; oltre quelle che sono le misure morfologiche tradizionali;
se ne deduce che l’opera è nuova, personale, e attiva nella ricerca di quel più
che pretende la Poesia. Una ricerca che porta, come in questo caso, ad un
lirismo che si affratella ad una natura di rara visività:
Settembre
Mentre la costa
abbellita dalla brezza
quando non conferma le
ipotesi.
Piove un’aria di miele e aghi
mischia il tempo da darti in
pasto
E’ una frustrazione
da ricondurre a casa
camminare passi senza asfalto
aprire la luce su una voce
scomposta.
Lo vedo chiudere le dita
su un chicco d’uva
testare il sapore,
respirare senza fretta
tradurre in polvere le
lacrime.
Si dilegua così con parole di
resa.
Invenzioni,
cospirazioni melodiche, assaggi di assenza, brume di presenza e tanta empatia,
ma tanta per il poièin.
Nazario
Pardini
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