Immensi silenzi
che invogliano al viaggio
Giorni lontani dal voler
capire,
belli senza un motivo, una
ragione,
giorni affamati d’aria,
d’emozione,
dove ogni istante sembra non
finire.
Giorni vissuti solo per
seguire
il volo d’ogni nostra
sensazione,
giorni dove comanda la
passione,
dove non si ha paura di
scoprire.
Giorni di luce, colmi di
speranza
per un qualcosa che non ci
appartiene
ma che ci guida come in una
danza.
Giorni diversi, senza più
catene,
dove l’amore annulla ogni
distanza.
Giorni sbocciati per volersi
bene
(Giorni diversi).
Iniziare da questo sonetto, che si propone come
momento incipitario con valore eponimo, significa andare a fondo, fin da subito,
nella poetica di Paolo Buzzacconi. Nel modo di intendere la vita, il rapporto
con il mondo, con la realtà, con la fuga, con la libertà; il bene, l’amore,
l’amicizia; in cerca di giorni, di speranze, così come vengono, non calcolati,
dove comanda la passione; e soprattutto
significa entrare nel cuore del suo
canto. Un canto libero, morbido, di euritmica sonorità, che sgorga da un
sentire vasto e luminoso; da un sentire d’apertura verso lidi sconosciuti,
scoperti dalla meraviglia, belli, senza un motivo, una ragione; ritrovati nelle
cose semplici, della quotidianità, negli affetti più intimi, quelli che lasciano
tracce nel nostro ontologico percorso, facendosi ricordo di antiche primavere,
o di accorate privazioni: “Noi siamo quello che ricordiamo/ il racconto è ricordo/ e ricordo è
vivere” (Mario Luzi).
È il sentimento, l’immediatezza, la spontaneità
che genera il suo poièin. E non di certo la ragione. Semmai quest’ultima tende
a frenarci, a richiamarci all’ordine, al controllo delle cospirazioni
passionali. Insomma un inizio di odeporica navigazione oltre quelle barriere
che ci impediscono di vedere lontano; di allungare gli sguardi oltre i limiti
del vivere, oltre le regole che imbrigliano il nostro esistere; in cerca della
luce, di un porto vagheggiato e mai raggiunto dopo burrasche e secche di un mare che estende i suoi spazi al
di là della miopia del nostro essere mortali:
Ci
sono sere
che ad
occhi chiusi
riesci
a vedere
ciò
che hai nel cuore.
Ti
senti libero
e puoi
volare
sopra
le cose
senza valore… (Fra cielo e mare),
al di là di una miopia che ci tiene attaccati
alle cose futili, incapaci di sognare, di abbracciare un vicino come fratello; presi
da una società liquida, che pretende fretta e che annulla ogni palpito di
umanità:
(…)
Fuggiamo
dal silenzio e dalla fretta,
dall’odio,
la menzogna, l’arroganza.
La
nostra primavera è lì che aspetta (La nostra primavera),
quella primavera che il Nostro sa auspicare per
le persone più vicine:
Un
giorno, piccolina, sarai grande
e alla
tua porta busserà l’amore
(…)
Però
quel giorno, sai, sarò felice,
perché
nella tua gioia di volare
ritroverò
il profumo di quel fiore
che
adesso nutro con le mie carezze.
E
finalmente lo vedrò sbocciare (Un giorno).
Ed è umano, fortemente umano, aspirare a
ridurre la distanza fra cielo e terra; aspirare a un porto di bene, pace,
fratellanza e quiete; a superare i limiti della nostra fragilità, della nostra
diatriba fra rien e tout; della nostra incomunicabilità:
(…)
Ma
nella testa abbiamo dei confini
che il
cuore non riesce a superare,
delle
distese fatte di silenzi
che
non sappiamo ancora attraversare.
Così
anche se in fondo siamo uguali
noi
continuiamo ad essere stranieri (Stranieri),
lasciarsi andare, allora, alla incoscienza di
un istante che sembra non finire, dacché: “La vita è un naufragio, ma nelle scialuppe di salvataggio non dobbiamo
dimenticare di cantare” (Voltaire); dacché “..Principio di tutte le cose è l’àpeiron (infinito, illimitato, indeterminato) che comprende in sé tutte le cose e a
tutte le cose è guida. Immortale e imperituro. Da dove infatti gli esseri hanno
l’origine lì hanno anche la distruzione secondo necessità…” (Anassimandro); un àpeiron verso la luce che ci rigeneri,
che ci completi, permettendoci di ritrovare l’altro di noi, quella parte che scopriamo
scrivendo, o leggendoci allo specchio, o amando:
(…)
Ma adesso che
ti stringo fra le braccia,
ora che vivo
in ogni tuo respiro
mi sembra
come se la nostra storia
sia la
ragione per cui esiste il mondo.
Quasi tu
fossi l’alba ed io il tramonto (Alba e tramonto).
Quella libertà indefinita, vaga, inappagabile
di cui i Romantici sentivano il forte bisogno, il delacoisiano bisogno, che
faceva scrivere all’Alfieri (che direi protoromantico) “…la vera libertà non
esiste in nessun potere, ma il suo senso ci è dato dai nordici infiniti piani
candidi di neve”; o da quegli immensi silenzi sapidi di salmastro che ci invogliano
al nostos, al viaggio, alla soluzione dei perché che inquietano il nostro
esistere con sperdimenti in immensità sproporzionate nei confronti della nostra
esilità, facendoci dimenticare di esistere:
(…)
Cerchiamo tra
le stelle ciò che abbiamo
e ansiosi di
sfruttare ogni secondo
nemmeno ci accorgiamo che esistiamo (Viaggiatori
distratti).
D’altronde
la diatriba fra eros e thanatos, fra luce
e buio, fra l’ordine e il caos è cosa che riguarda da vicino il nostro percorso
terreno. Ed è proprio dalla fusione degli estremi che si genera questa nostra
permanenza. La riflessione sulla morte ha sempre creato imbarazzo, melanconia,
e senso di fine totale in ognuno di noi ed è per questo che cerchiamo di
rimediare ricorrendo ad artifici di plurima valenza: panismo, memoriale, eterno
respiro di un amore che vada oltre; partendo dal senso di precarietà della
vita; del tempo che tutto fagocita, togliendoci il sapore delle cose più care;
dacché è proprio questo senso di precarietà che ci richiama a gioirne; ad un
carpe diem conquistato con una quotidianità non di rado triste e melanconica:
Sono lontane ormai le tue
carezze
E forse non potranno più
tornare,
(…)
Però c’è un bimbo qui dentro
il mio cuore
che non ha ancora smesso
di sperare
e ingenuamente tenta di
seguire
le strane traiettorie
dell’amore.
Ed il suo piccolo, tenero
sognare
nei giorni grigi, quando fuori
piove,
si porta via la voglia di
morire
come il più dolce dei raggi di
sole
(Quando fuori piove).
Una
tristezza che s’invola col sogno; come
il più dolce dei raggi di sole. Una voglia di superare il potere di Kronos con
una realtà fattasi immagine:
Perdiamoci di vista, amici
cari,
cerchiamoci con gli occhi dei
ricordi (Senza tempo).
Considerando
che grande è la differenza fra fra realtà ed immagine. Di questa ha bisogno la
poesia per farsi emotivamente vera in un parco di dolci illusioni che vincano
il tempo:
Custodi di emozioni senza
tempo (ibidem),
e
che lo possano vincere con un amore indefinibile a parole; con un amore fatto
di tenerezza e muti baci:
(…)
E quanti sguardi tuoi
mi hanno salvato
quando la vita
mi spezzava il fiato?
Ma quanto t’amo?
Posso sentirlo,
ma non riesco a dirlo… (Ma quanto t’amo?).
Un
tourbillon di sentimenti: melanconia, saudade, speranza, illusione delusione; un
ensemble di stati emotivi che cercano concretezza in verbi di varia struttura.
Ma a dominare è il verso dei versi, quello bello, musicale, di eufonica
sonorità che come una sinfonia wagneriana si distende su uno spartito di
polisemica vitalità: l’endecasillabo che in tutte le sue variazioni si fa corpo
di un sentire forte e urgente, aiutato, nei suoi intenti esplorativi, da rime, assonanze, consonanze,
allitterazioni e enjambements, fluenti in un rivolo chiaro e cristallino.
Ed
è a questo rivolo che il Poeta affida tutto il suo pathos a ché lo porti in un
mare dove:
(…)
Non conteranno i soldi ed il
potere
Le scelte che uno ha fatto ed
il sapere.
Ciò che ti sarà chiesto, è
quanto hai amato (Luce).
Nazario
Pardini
Grazie infinite, caro professore, per queste sue preziose considerazioni. Come sempre ha compreso in toto lo spirito che aleggia tra i versi e lo ha saputo rendere ancora più chiaro e condivisibile.
RispondiEliminaAncora grazie e un caro saluto a lei e a tutti i nostri straordinari compagni di viaggio.
Paolo Buzzacconi
Carissimo Professore,
RispondiEliminain questo caso ritengo necessario, urgente rivolgerLe il mio umile e immenso ringraziamento. Paolo merita un'esegesi come la Sua: completa, attenta, incredibilmente calata nella realtà dell'Autore.
Nel ringraziarLa non posso fare a meno di parlare di questo Poeta silenzioso, che non ostenta, vive all'insegna dell'umiltà, ma ha pensieri d'autentico amore per ognuno di noi.Gli eventi sono sempre scanditi da una lirica di Paolo. Non può farne a meno e noi siamo diventati tutti egoisticamente dipendenti dalle sue 'carezze'.
"Giorni diversi" vede il trionfo del termine 'cuore'. L'ottimo prefatore del testo Claudio Porena, glottologo, nel suo intervento critico, ha precisato che la radice della parola cuore é la stessa del sostantivo 'coraggio'. E ha reso, come Lei, mio adorato Nazario, il giusto onore a versi che non si fermano all'incanto, ma disincagliano le paure, le rabbie, le solitudini, con coraggio e le lasciano approdare sulla sponda nuova dell' amore verso il prossimo.
Le sue liriche hanno spesso chiuse che rappresentano poesie in se stesse. Ricordo, a proposito, una delle 'carezze' che inviò agli amici il giorno dopo la presentazione di Sandro Angelucci, quando a cena, come sempre, si creò un clima magico... Paolo raccontò in versi le emozioni vissute e concluse con questo cammeo: " Mangiamo e di noi stessi ci cibiamo"!
Credo che Poeti e Uomini simili rappresentino ricchezze da preservare. Lei, adorato Nazario, ci onora della Sua Grandezza ed é il simbolo di questi Poeti e di questi Uomini.
Vi abbraccio entrambi!
Maria Rizzi