lunedì 15 giugno 2015

N. PARDINI: LETTURA DI "GIORNI DIVERSI" DI PAOLO BUZZACCONI


Paolo Buzzacconi: Giorni diversi Edizioni Effigi. Arcidosso (GR) 2015. Pg. 96

Immensi silenzi che invogliano al viaggio


Giorni lontani dal voler capire,
belli senza un motivo, una ragione,
giorni affamati d’aria, d’emozione,
dove ogni istante sembra non finire.

Giorni vissuti solo per seguire
il volo d’ogni nostra sensazione,
giorni dove comanda la passione,
dove non si ha paura di scoprire.

Giorni di luce, colmi di speranza
per un qualcosa che non ci appartiene
ma che ci guida come in una danza.

Giorni diversi, senza più catene,
dove l’amore annulla ogni distanza.
Giorni sbocciati per volersi bene (Giorni diversi).

Iniziare da questo sonetto, che si propone come momento incipitario con valore eponimo, significa andare a fondo, fin da subito, nella poetica di Paolo Buzzacconi. Nel modo di intendere la vita, il rapporto con il mondo, con la realtà, con la fuga, con la libertà; il bene, l’amore, l’amicizia; in cerca di giorni, di speranze, così come vengono, non calcolati, dove comanda la passione;  e soprattutto significa entrare  nel cuore del suo canto. Un canto libero, morbido, di euritmica sonorità, che sgorga da un sentire vasto e luminoso; da un sentire d’apertura verso lidi sconosciuti, scoperti dalla meraviglia, belli, senza un motivo, una ragione; ritrovati nelle cose semplici, della quotidianità, negli affetti più intimi, quelli che lasciano tracce nel nostro ontologico percorso, facendosi ricordo di antiche primavere, o di accorate privazioni: “Noi siamo quello che ricordiamo/ il racconto è ricordo/ e ricordo è vivere” (Mario Luzi).
È il sentimento, l’immediatezza, la spontaneità che genera il suo poièin. E non di certo la ragione. Semmai quest’ultima tende a frenarci, a richiamarci all’ordine, al controllo delle cospirazioni passionali. Insomma un inizio di odeporica navigazione oltre quelle barriere che ci impediscono di vedere lontano; di allungare gli sguardi oltre i limiti del vivere, oltre le regole che imbrigliano il nostro esistere; in cerca della luce, di un porto vagheggiato e mai raggiunto dopo burrasche e  secche di un mare che estende i suoi spazi al di là della miopia del nostro essere mortali:

Ci sono sere
che ad occhi chiusi
riesci a vedere
ciò che hai nel cuore.

Ti senti libero
e puoi volare
sopra le cose
senza  valore… (Fra cielo e  mare),

al di là di una miopia che ci tiene attaccati alle cose futili, incapaci di sognare, di abbracciare un vicino come fratello; presi da una società liquida, che pretende fretta e che annulla ogni palpito di umanità:

(…)
Fuggiamo dal silenzio e dalla fretta,
dall’odio, la menzogna, l’arroganza.
La nostra primavera è lì che aspetta (La nostra primavera),

quella primavera che il Nostro sa auspicare per le persone più vicine:

Un giorno, piccolina, sarai grande
e alla tua porta busserà l’amore
(…)
Però quel giorno, sai, sarò felice,
perché nella tua gioia di volare
ritroverò il profumo di quel fiore
che adesso nutro con le mie carezze.
E finalmente lo vedrò sbocciare (Un giorno).

Ed è umano, fortemente umano, aspirare a ridurre la distanza fra cielo e terra; aspirare a un porto di bene, pace, fratellanza e quiete; a superare i limiti della nostra fragilità, della nostra diatriba fra rien e tout;  della nostra incomunicabilità:

(…)
Ma nella testa abbiamo dei confini
che il cuore non riesce a superare,
delle distese fatte di silenzi
che non sappiamo ancora attraversare.

Così anche se in fondo siamo uguali
noi continuiamo ad essere stranieri (Stranieri),

lasciarsi andare, allora, alla incoscienza di un istante che sembra non finire, dacché: “La vita è un naufragio, ma nelle scialuppe di salvataggio non dobbiamo dimenticare di cantare” (Voltaire); dacché “..Principio di tutte le cose è l’àpeiron (infinito, illimitato, indeterminato) che comprende in sé tutte le cose e a tutte le cose è guida. Immortale e imperituro. Da dove infatti gli esseri hanno l’origine lì hanno anche la distruzione secondo necessità…” (Anassimandro); un àpeiron verso la luce che ci rigeneri, che ci completi, permettendoci di ritrovare l’altro di noi, quella parte che scopriamo scrivendo, o leggendoci allo specchio, o amando:

(…)
Ma adesso che ti stringo fra le braccia,
ora che vivo in ogni tuo respiro
mi sembra come se la nostra storia
sia la ragione per cui esiste il mondo.
Quasi tu fossi l’alba ed io il tramonto (Alba e tramonto).

  Quella libertà indefinita, vaga, inappagabile di cui i Romantici sentivano il forte bisogno, il delacoisiano bisogno, che faceva scrivere all’Alfieri (che direi protoromantico) “…la vera libertà non esiste in nessun potere, ma il suo senso ci è dato dai nordici infiniti piani candidi di neve”; o da quegli immensi silenzi sapidi di salmastro che ci invogliano al nostos, al viaggio, alla soluzione dei perché che inquietano il nostro esistere con sperdimenti in immensità sproporzionate nei confronti della nostra esilità, facendoci dimenticare di esistere:

(…)
Cerchiamo tra le stelle ciò che abbiamo     
e ansiosi di sfruttare ogni secondo
 nemmeno ci accorgiamo che esistiamo (Viaggiatori distratti).       

D’altronde la diatriba fra  eros e thanatos, fra luce e buio, fra l’ordine e il caos è cosa che riguarda da vicino il nostro percorso terreno. Ed è proprio dalla fusione degli estremi che si genera questa nostra permanenza. La riflessione sulla morte ha sempre creato imbarazzo, melanconia, e senso di fine totale in ognuno di noi ed è per questo che cerchiamo di rimediare ricorrendo ad artifici di plurima valenza: panismo, memoriale, eterno respiro di un amore che vada oltre; partendo dal senso di precarietà della vita; del tempo che tutto fagocita, togliendoci il sapore delle cose più care; dacché è proprio questo senso di precarietà che ci richiama a gioirne; ad un carpe diem conquistato con una quotidianità non di rado triste e melanconica:

Sono lontane ormai le tue carezze
E forse non potranno più tornare,
(…)
Però c’è un bimbo qui dentro il mio cuore
che non ha ancora smesso di  sperare
e ingenuamente tenta di seguire
le strane traiettorie dell’amore.
Ed il suo piccolo, tenero sognare
nei giorni grigi, quando fuori piove,
si porta via la voglia di morire
come il più dolce dei raggi di sole (Quando fuori piove).

Una tristezza che s’invola col sogno;  come il più dolce dei raggi di sole. Una voglia di superare il potere di Kronos con una realtà fattasi immagine:

Perdiamoci di vista, amici cari,
cerchiamoci con gli occhi dei ricordi (Senza tempo).

Considerando che grande è la differenza fra fra realtà ed immagine. Di questa ha bisogno la poesia per farsi emotivamente vera in un parco di dolci illusioni che vincano il tempo:

Custodi di emozioni senza tempo (ibidem),

e che lo possano vincere con un amore indefinibile a parole; con un amore fatto di tenerezza e muti baci:

(…)
E quanti sguardi tuoi
mi hanno salvato
quando la vita
mi spezzava il fiato?
Ma quanto t’amo?
Posso sentirlo,
ma non riesco a dirlo…  (Ma quanto t’amo?).

Un tourbillon di sentimenti: melanconia, saudade, speranza, illusione delusione; un ensemble di stati emotivi che cercano concretezza in verbi di varia struttura. Ma a dominare è il verso dei versi, quello bello, musicale, di eufonica sonorità che come una sinfonia wagneriana si distende su uno spartito di polisemica vitalità: l’endecasillabo che in tutte le sue variazioni si fa corpo di un sentire forte e urgente, aiutato, nei suoi intenti   esplorativi, da rime, assonanze, consonanze, allitterazioni e enjambements, fluenti in un rivolo chiaro e cristallino. 
Ed è a questo rivolo che il Poeta affida tutto il suo pathos a ché lo porti in un mare dove:

(…)
Non conteranno i soldi ed il potere
Le scelte che uno ha fatto ed il sapere.
Ciò che ti sarà chiesto, è quanto hai amato (Luce). 


Nazario Pardini      

2 commenti:

  1. Grazie infinite, caro professore, per queste sue preziose considerazioni. Come sempre ha compreso in toto lo spirito che aleggia tra i versi e lo ha saputo rendere ancora più chiaro e condivisibile.
    Ancora grazie e un caro saluto a lei e a tutti i nostri straordinari compagni di viaggio.
    Paolo Buzzacconi

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  2. Carissimo Professore,
    in questo caso ritengo necessario, urgente rivolgerLe il mio umile e immenso ringraziamento. Paolo merita un'esegesi come la Sua: completa, attenta, incredibilmente calata nella realtà dell'Autore.
    Nel ringraziarLa non posso fare a meno di parlare di questo Poeta silenzioso, che non ostenta, vive all'insegna dell'umiltà, ma ha pensieri d'autentico amore per ognuno di noi.Gli eventi sono sempre scanditi da una lirica di Paolo. Non può farne a meno e noi siamo diventati tutti egoisticamente dipendenti dalle sue 'carezze'.
    "Giorni diversi" vede il trionfo del termine 'cuore'. L'ottimo prefatore del testo Claudio Porena, glottologo, nel suo intervento critico, ha precisato che la radice della parola cuore é la stessa del sostantivo 'coraggio'. E ha reso, come Lei, mio adorato Nazario, il giusto onore a versi che non si fermano all'incanto, ma disincagliano le paure, le rabbie, le solitudini, con coraggio e le lasciano approdare sulla sponda nuova dell' amore verso il prossimo.
    Le sue liriche hanno spesso chiuse che rappresentano poesie in se stesse. Ricordo, a proposito, una delle 'carezze' che inviò agli amici il giorno dopo la presentazione di Sandro Angelucci, quando a cena, come sempre, si creò un clima magico... Paolo raccontò in versi le emozioni vissute e concluse con questo cammeo: " Mangiamo e di noi stessi ci cibiamo"!
    Credo che Poeti e Uomini simili rappresentino ricchezze da preservare. Lei, adorato Nazario, ci onora della Sua Grandezza ed é il simbolo di questi Poeti e di questi Uomini.
    Vi abbraccio entrambi!
    Maria Rizzi

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