Quello
che al fin fine domina è l’idea della bellezza
Quei rami di cuore
avviluppati in tondo
serrati a proteggere
lembi di vita
costringeranno il nato
a non chiedermi giorni
ma stracci di pazienza
a contenere il fuoco.
Avrò gesti lascivi
dolci ricompense
e al battesimo dei sensi
affogheremo insieme
nudi come anime.
È
così che inizia il racconto di Antonella Rizzo: un racconto di passione, amore,
memorie, sperdimenti; turbamento di sangue che “ribolliva come un braciere”; uso
di tempi all’imperfetto che dà senso di continuità a confessioni ora tragiche
ora riposanti in rievocazioni di Nili testimoni d’incontri: “Mi torna in mente
la navigazione con il mio amato lungo il Nilo, viaggio fecondo”; Cleopatra che replica
dopo la morte di Cesare: “Sto impazzendo./ So che il veleno continuo era/ solo
brace per nutrire un amore destinato/ a finire come tutte le cose del mondo”; il
tempo che passa veloce fagocitando il presente; la coscienza della precarietà
del nostro vivere; il mistero della vita; la dualità intricante fra cuore e
intelletto; l’inquietante ritorno delle nostre memorabili primavere; i tanti
perché senza risposta che assillano la fragilità del nostro esserc/ci. Sta qui
l’attualità della proposta letteraria di Antonella Rizzo. Oltre, naturalmente,
alla stesura prosimetrica di particolare interesse stilistico; genere
letterario, il prosimetro, che, in prosa e versi alternati in modo equilibrato,
ci riporta all’età classica latina. Un genere assai raro in letteratura, nato, forse, con intenti parodico/satirici
verso la lirica di tradizione greca, di cui uno dei primi esempi è costituito
dalle satire menippee Di Marco Terenzio Varrone; genere che, poi, nel Medioevo,
distaccandosi dai contenuti originali, affronta
temi filosofico-religiosi come il De consolatione philosofiae di
Severino Boezio o La vita nuova di Dante. In età contemporanea i Canti orfici
di Dino Campana, o Il Signore degli anelli di John Ronald Tolkien, ne divengono
una specie di aveu lirico, con motivazioni completamente nuove, legate alla
interiorità, al soggettivismo analitico e contemplativo di un orfismo che attribuisce un significato
magico ed evocativo alla parola poetica; per cui la poesia è vissuta come fonte
di salvezza, atta a ridare luce a un'anima immortale, ma da risvegliare, da
strappare alle tenebre come l’immagine di Euridice. La poesia, dunque, come missione suprema. E la Rizzo ne rappresenta una delle voci
più autentiche e convincenti; più fini, e ammiccanti. Il titolo: Cleopatra. Divina donna d’Inferno.
Riferimento al V canto dove “Dante descrive il secondo girone infernale,
dedicato ai colpevoli di Lussuria” e dove “Cleopatra racconta con dignità ed
orgoglio la Storia…” (dalla nota introduttiva dell’Autrice).. Fanno da
prodromico avvio all’opera i versi contestuali che ci permettono di andare a
fondo, fin dagli inizi, a quella che è l’intenzione emotivo-esistenziale della
Nostra. Una ricerca di dati storici di rara potenza vicissitudinale atti a
concretizzarne le emozioni; a fissarne gli stati d’animo con vivace realtà,
dacché il quadro d’ensemble non fa altro che convalidare le tensioni
dell’Autrice, attuando un’operazione di perlustrazione, scavo, e
attualizzazione di un mondo che, se svestito della sua scorza di romanità, si
fa vicenda di modernissimo stupore; di
attualissima e universale storia umana oltre i tempi; oltre il singolare accadimento,
cucendo indissolubilmente passato presente e futuro per il logos del poièin;
per la ritrattazione di Cleopatra, donna, con tutta la sua intensità
epigrammatica, maturata gradatamente giorno dopo giorno: pericolo, paura,
sacrificio, angoscia, morte, vita: “Dovevo prendere delle scelte repentine ogni giorno, davanti a
un nido di piccoli uccelli a cui erano state tagliate le ali e la mia pietà
doveva liberare dall’agonia con la morte, con l’apparizione di orridi spiriti
che dovevo fronteggiare con lo sguardo altero o l’esercizio dell’odio
quotidiano verso umiliazioni sconcertanti connesse verso servi e malformi”; “ La morte fu l’unico modo di fermare un Sole
senza tempo, senza rivali. E quale donna non sarebbe impazzita dinanzi a una
creatura ciclopica e immensa che non teme morale né leggi dinanzi a un amore
comparso di notte avvolto in un tappeto
di pregio?”; potere, amore, sorte, simbiotica fusione di contrapposizioni di
sapore eracliteo che rendono fresche le occasioni; contenuti portati
all’ipoebole come spesso pretende la buona Poesia con lo sguardo rivolto all’oltre.
Un testo di grande valenza letteraria, originale e sentito; nuovo e vissuto con
generosa vis creativa, in cui l’Autrice, attraverso una vicenda erotico-esistenziale,
fa della Storia una materia umana trasversale e verticale. Una materia che
partendo dai minimi particolari diviene oggettiva e plurale attraverso un
linguismo di urgente resa poematica e ontologica; ed è affondando la lama nella
interiorità dei personaggi e ricorrendo ad ogni stratagemma per farne risaltare
l’entità psicologica, che l’Autrice dimostra effettive capacità semantico/analitiche
di ampio respiro morfologico; di potente intrusione drammatica che cerca canali
altri per la sua esigenza oggettivante. Il culto per la Storia che si declina
in mito, la sua rivisitazione in tinte moderne, la capacità di farne fonte di
simboli ora erotici ora thanatici, ora passionali, ora struggenti e melanconici,
sembrano essere i punti focali di un racconto che si diluisce in urgente ed
espansa resa verbale dove la parola, per raggiungere le fughe emotive, si
dilunga, si scorcia, si arrotonda, si contrae, si rigenera, si fa arcaica,
anche, traducendosi ora in brillanti
stagioni, ora in cupe occasioni. Insomma c’è la
vita, con tutta la sua complessità, con tutta la sua polisemica
struttura emotivo/contemplativa, dove il verso appare non sufficientemente ampio a declinare tanta
potenzialità esistenziale; per cui si alterna a prose che definire poetiche non
è azzardato in tale narratologia che, ben integrata nella fluente versificazione, ci offre un quadro compatto e
organico. Anche forte nelle aspre confessioni di una donna che patisce lo stato
del suo essere ed esistere: “… Sono la settima e la sola/ cobra femmina
della notte/ parendo in eterno la
bestemmia/ di gravide e luride serve/ e dei loro infami montoni”; di una donna
che “odiava essere una Dea e che voleva gettarsi nel fango come una serva,
spogliarsi della sua divinità e mostrarsi nuda agli occhi di chi avrebbe incendiato
il suo cuore con mani virili e non con maschere d’oro e promesse di
immortalità”. Quanta verità umana, quanta sincerità trasversale in questi
sentimenti che, in un rapporto, tendono a rivelarsi nudi, senza sovrastrutture
e orpelli, né maschere pirandelliane. Ma quello che al fin fine domina è l’idea
della bellezza. Un’idea per la quale vale la pena immolare tutto noi stessi. E
quella Morte che più volte viene invocata o citata nel testo assume valore di
catartica purificazione; di grande attaccamento alla vita, al suo irripetibile
accadere, alla sua meravigliosa cabala. Dacché la morte ne fa parte ed è proprio
perché esiste continuamente in noi che amiamo questa precaria, imperscrutabile,
e fittizia presenza del vivere; e vogliamo lasciarla quando ne abbiamo smarrito
la vitale potenza per la quale l’abbiamo amata: “Potrei assolvermi in qualunque
momento ritirandomi nelle stanze buie della
vedovanza amorosa ma forse non basterebbe, e cadrei pericolosamente nell’oblio
delle vittime di guerra… Lascio che la Morte, amica adorata, suoni trionfante
lo strumento della vittoria e consegni
quella verità ai miseri di spirito… Non avrà importanza il talamo a cui
affiderò il trono malato e la grazia con la quale spoglierò le mense nuove per
nutrire i figli dell’Egitto”
Ecco.
Mi incanta l’ultimo,
caro respiro della bellezza
che vaga nelle stanze di Roma.
La
bellezza, sì, che incanta e frastorna; che percepiamo, ma che mai riusciamo a
toccare o a vivere completamente per la sua mancanza di corpo, per la sua
vaghezza, per la sua indeterminata consistenza; quella bellezza che, nella sua
sostanza, si fa etica, universale; che trae qualcosa da ognuno di noi; ed è per
questo che non riusciamo ad afferrarla del tutto; ed è per questo che sentiamo
di far parte della sua plurale totalità.
Nazario
Pardini
Le sono grata per questa magnifica lettura.
RispondiEliminaAntonella