Vito Lolli collaboratore di Lèucade |
Le tracce
degli dèi fuggiti
Un saluto a tutti voi da nessun luogo.
Considerazioni sparse, queste mie. Senza ordine, senza logica. La folgore
colpisce dove è attirata e quando stanno per morire gli uomini cantano, dice il
verso del poeta polacco. Gli dèi sono fuggiti, cantò uno degli ultimi poeti
dell’occidente, cogliendone in questo l’essenza stessa. Egli comprese il
silenzio del Cielo ma mai le parole degli uomini, e suo fu infine il silenzio
della follia. Dio è morto, decretò il poeta filosofo che dell’occidente chiuse
il tempo; nelle sue mani si spense il fuoco rubato da Prometeo. E il divino
fuoco spento fu il buio della sua mente. Ma voi, che cavalcate il vostro
cantare verso la candida Lèucade, sperate che siano le sue scogliere, le sue
irraggiungibili spiagge, i suoi misteriosi anfratti, a fare da lussuoso recesso
agli dèi fuggiti? Considerate così altisonante il canto odierno da credere di
poter valicare il clamore assordante della Macchina e che i Divini nascosti
vogliano rispondere rivelandosi? Non facciamo, forse, altro che riandare i
sempiterni calli, percorsi e ripercorsi, detti e ridetti, illudendoci di
poetare ancora mentre, in realtà, paroliamo l’ormai inessenziale? La fuga degli
dèi non è forse l’immagine del farsi sterile di un linguaggio ormai esaurito,
dal quale la Poesia non può che estraniarsi, ritirandosi? E la conseguente
morte di Dio non è forse l’immagine dell’agonia di un tempo che proprio
nell’assenza della Poesia sta vivendo la sua conclusione? No, la fuga non è
fuga. Come onda dopo onda, alla spinta verso la terraferma segue il ritirarsi
del mare, che ciclicamente torna in sé lasciando le tracce del proprio
avanzamento. O forse il linguaggio si è fatto sterile a causa del suo
progressivo stravolgimento fuorviante, il farsi parola-che-dice in luogo di
quella parola-che-ascolta e risponde alla chiamata silenziosa del dio? La fuga,
allora, non è che l’assenza di risposta in assenza di evocazione. Questo ci
sottrae dall’ethos che costituisce l’essenziale, il nostro essere un dialogo coi
Divini – e quando il dialogo tace è il mondo stesso che viene a mancare,
lasciando i terrestri nell’abisso del tempo che travolge. Non sono dunque gli
dèi ad essere fuggiti. Per questo, in assenza del dialogo che ci istituisce
come uomini, non può darsi Poesia. E senza Poesia il volto dell’uomo si
sfigura, si ritira in un riflusso immemore dell’esperienza ispirativa. Cessano
le visioni, il sonno è morte senza più sogni. Il vuoto di tale oblìo è
l’angoscia ma non si può poetare la non-poesia e restare indenni. Non esiste un
canto del dialogo assente. Dopo il canto che annuncia il ritiro nel riflusso e
l’oblìo dell’essere bisogna tacere.
La forza di ogni verso è la misteriosa eco della
parola nascosta che orienta la rotta verso l'orizzonte di tale ritirarsi,
annunciato dalla poesia stessa. Vagabondi nel tempo della povertà, naufraghi in
un infinito ove solo possenti primevi uccelli volarono spinti dal turbine di
ali angeliche e un giovane, piccolo Icaro prigioniero misurò le sue misere
finzioni di smisurata libertà, poetiamo per rimemorare le tracce degli dèi
rifluiti e aprire una via per lasciarci bagnare, o sommergere, dalla prossima
onda, per sognare il dio venturo e poetarne la Misura. Forse anche per cogliere
l’eco lontana, e ancora inudibile, che ci annuncia la mai avvenuta morte di
alcun dio. Ma l’udibile aderisce all’inudibile, come il visibile all’invisibile
e il pensabile all’impensabile: al di là dell’orgoglio tragico, figlio della
miope idea della morte, non c’è più spazio e tempo per rimpiangere dèi fuggiti
o morti. Nulla di tutto questo, che non sia la nostra misera alienazione, la
de-funzione dei nostri superiori canali di comunicazione, il mortale sonno
della coscienza avvelenata dalla volontà di potenza. E noi siamo ancora
l’ebbrezza di Icaro, divenuto uccello d’acciaio che strazia un Cielo non più
grembo angelico. Gli
ultimi angeli hanno cantato il compiersi di un destino già rivelato, e i lampi
che ne hanno lacerato i cuori e le menti sono il viatico di un crepuscolo
inquietante. Queste sono le ultime folgori di Zeus. E su queste tragiche
folgori della poesia ultima, che chiudono il tempo dell’occidente annunciando,
dopo il tramonto, la notte in cui tutto si cela nell’oscurità della latenza che
custodisce la rigenerazione del divino, le ceneri del linguaggio, con tutte le
illusioni della conoscenza, attendono l’istante di oblìo silenzioso che rivela
la parola mai ascoltata. La fenice
rinasce dalle sue stesse ceneri. Tramontate le parole, le cose non sono più
quello che erano. Non sono più. Periscono nel silenzio, ma da questo silenzio
ex-periscono. Una nuova esperienza per una nuova Poesia. Nuove parole, nuovo
ethos, nuovo tempo, e le cose risorgono.
Il nulla, il pericolo, l'insperabile: un
linguaggio sterile, l'incapacità del parlare di generare il silenzio fecondo,
il sentimento del non-più come nascondimento del non-ancora. Chi non spera
l'insperabile non può trovarlo.
Fu detto che dov’è il pericolo là sorge la
salvezza; ma non è forse l’oblìo della salvezza già sorta il pericolo più
grande, quello per il quale non c’è
salvezza? Il pericolo è il luogo della prova suprema, quello dove coabitano il
perire e l’esperire, dove cioè si può morire la vita o vivere la morte, momento
in forza del quale la coscienza della salvezza è una lampada che si accende nel
buio; il perire e l’esperire fondano lo
sperare che accende l’insperabile e
lo rende, cioè lo restituisce, esperibile. Ma quando non sappiamo di essere in pericolo, o se ancora banalmente pensiamo
che il pericolo sia una situazione da evitare,
non è per ciò stesso che non possiamo
intendere la salvezza, per cui l’insperabile resta lontano? E non è questa la
Tenebra della vera morte, quella che la Luce della Vita non può raggiungere perché non è altro che oblìo? E non è dunque,
per questo, il pericolo stesso a salvare? Non è il pericolo, allora, il luogo
non-luogo dell’essere stesso che si fa presenza?
Allora, nell’occidente già crepuscolo, il solo
autentico Poeta è stato Gesù di Nazareth. Il nulla, il pericolo, l’insperabile,
convergono in una sintesi originaria; il perire e l’esperire trasmutano quella
tenebra in una folgore che accende
l’oscurità di un sepolcro chiuso, e avevano già risorto la lettera morta in
Parola viva. Questo è lo sperare che fa del pericolo,
sintesi di perire ed esperire, la salvezza. Questa è la Poesia. No, non c’è spazio
per gli orpelli della religione, perché Gesù ne ha distrutto le fondamenta
svelando, come mai nessuno prima o dopo, quale sia la sola vera creazione del
pensiero religioso, il denaro.
Non si possono servire due padroni. E il signore
di questo mondo, ora più chiaramente di quanto non lo sia mai stato, è il
denaro. Può essere ridicolo riproporre una critica del denaro ora che non ci si
occupa altro che di “spread”, finanziarizzazione dell’economia, accumulazione
di capitali, profitti da non reinvestire ed economia di crisi. Ed è già un bel
po’ che la paralisi della critica si afferma come segno dei tempi. Come il
numero, unità di misura, inventammo il denaro per creare, al di sotto di un mezzo
per trasformare l’economia dello scambio fondata sul baratto, una misura di
valore per le cose che non fosse soggetta a decadenza. Astratta. Le cose
vengono ad essere poi scompaiono, si consumano, sono soggette a corruzione e
distruzione. La stessa natura, la Physis
che ama nascondersi nel creare, ciclicamente crea e dissolve mondi, civiltà,
vite. Numeri e denaro, invece, no. Realtà virtuali, astratte, spirituali;
concetti puri incorruttibili, assoluti, iperuranici. Divini. Questi sono gli
strumenti con cui portiamo avanti il sacrificio salvifico del mondo, di cui
trasformiamo la ciclica decadenza transeunte nel puro valore astratto: la
conoscenza fondata sul numero e il valore fondato sul denaro. Sottrarre a Dio
il mondo, dominarlo e trasformarlo nel valore che abbiamo creato. Sostituirci a
Dio, farci padroni del mondo trasformandolo in denaro posseduto da un solo
uomo, che in quell’istante compie la storica apoteosi. Il cerchio si chiude,
nell’illusione che le cose siano come le pensiamo e vogliamo. Forse,
semplicemente, mai schiavi quanto ora perché di questo ethos profondo siamo
ormai inconsapevoli. Non sappiamo
quello che facciamo e in questo non
sorge il senso del pericolo, e questo aliena la salvezza. L’alienazione della
salvezza è l’assenza della Poesia.
L’essenza dell’Immagine è il lasciar vedere
qualcosa. Copie e imitazioni sono degenerazioni dell’Immagine autentica.
L’Immagine autentica, che è visione e vista, lascia vedere l’invisibile, e in
tale modo, lo immagina, lo fa entrare in qualcosa che gli è estraneo, appunto
l’immagine stessa, che riguarda l’umano in modo essenziale. Siccome il poetare
coglie quella misura segreta celata nel volto del cielo, esso parla in immagini
e per immagini. Per questo le immagini poetiche sono immaginazioni in un senso
elevato, non mere fantasie o illusioni, ma immaginazioni in quanto inclusioni visibili dell’estraneo
nell’aspetto di ciò che è familiare. Il dire poetante delle immagini riunisce
in un Uno lo splendore e il suono delle manifestazioni celesti con l’oscuro e
il silenzio dell’estraneo. E’ qui che
il Dio folgora e rapisce come un che di strano, e in questo spaesamento
estraniante mostra la sua continua vicinanza. Qui il perire, l’esperire e lo sperare svelano l’arcano dell’Uomo
come Immagine del Divino, Arca di Dio e non fantasma dell’acqua e della terra. Qui, la Poesia. Non ci sono dèi fuggiti o morti, ma Poesia nascosta nel
lontano. Vi ascolto.
Vito Lolli
Terre
di nuovo vestite
Gli
dèi sono morti perché sono gli uomini che hanno fornito loro il veleno della
vita. Gli dèi sono fuggiti perché gli uomini hanno dimenticato l’alito del
vento, il pianto del gabbiano, le fiabe degli avi, il messaggio dei campi.
E come è possibile che i terreni utilizzino veleni tanto
possenti da far morire gli dèi?; che posseggano TANTO MALE DA METTERLI IN FUGA;
da farli fuggire dalla terra prescelta. Loro che rifiutarono l’Olimpo per
questo miracolo in terra.
Sì,
perché i divini abitavano le grotte, le spelonche dei nostri monti; e dall’alto
gioivano della madre primigenia, più antica; della virtù parsimoniosa, della
felicità paziente, degli abbracci alle albe, delle preghiere ai loro altari, e
dei ringraziamenti per le mèssi procaci; amavano quelle grotte a cui giungeva
il profumo di selve prospicienti agli incavi. E gli dèi non volevano più allontanarsi
dalle offerte alle vigne, dai respiri fecondi di una natura generosa e sana. In
lei vedevano il loro tempio, e si sentivano appagati dalle melodie degli zeffiri
sui grani maturi. Se ne cibavano. Quelli erano l’ambrosia e il nettare della
loro esistenza; del loro vivere destinato all’eternità. Ne campavano, si
nutrivano della cristallinità dei fiumi, e della purpurea polpa dei frutti. Ne
avevano fatto un nuovo Olimpo. E in sintonia con l’uomo si beavano dell’equilibrio
perfetto, dove passato, presente e futuro si contenevano. I viventi tutti
contribuivano a questa assonanza umana e divina. Ma gli umani, coscienti della
precarietà del tempo, insoddisfatti della loro breve permanenza, e del fatto di
vivere in spazi ristretti; attratti dalle ricchezze che avrebbero demolito il
monte sacro; dalla materia che lo avrebbe rimpiazzato; dimentichi dei colori
del mare, e del fiorire dei colli, si nutrirono carpendo il cuore e il sangue
di quegli dèi che li vollero felici; non ci fu più purezza, anche il verbo non ebbe
più forza per toccare le vette del nuovo Olimpo; si frantumò e restò povero
suono. Virtuale inchiostro asservito alle ingordigie di società liquide,
corrotte, moderne e post-moderne, incapace di raggiungere le vette divine
dell’anima pura. Si tentò con la poesia
di acchiappare quelle cime, ma la parola si sperse nei fiumi malati, nei cieli
nebbiosi di
nubi malefiche. Il canto rimase; rimase coi suoi pochi cantori a gridare
memorie di terre feconde, di tempi inviolati da tramandare ai figli, ai nipoti,
dacché i figli dei figli potessero vivere della rinascita di un nuovo respiro.
Fu l’unica parte dell’uomo che più si accostava al giardino dei sogni. Ed è su
Lèucade che quei cantori continuano a tendere sguardi ad orizzonti lontani e
vicini. Quegli orizzonti che portano dentro e che dicono il Bello. Mitopoiesi
da donare al futuro per farlo passato, presente; per farlo senza tempo; timbro
di naturale abbandono che contiene ogni giorno, a ché questo divino equilibrio rinasca
novello, più forte, ed umano; a ché respiri di zolle, di solchi di padri; di mani di madri ricurve su prode che davano
vita, nemiche di morte. E’ allora che l’uomo potrebbe tornare ad essere parte
dell’anima eterna; e solo allora la poesia potrebbe innervarsi del verbo sacro nascosto
tra i tigli e tra gelsi di Spiriti in
fuga. Si ricuciranno gli animi, ritroveranno quel giardino divino, e in terra,
nelle grotte dei monti, torneranno gli dèi a sposarsi coi colli. La Poesia
riavrà il suo verbo per toccare le vette dell’anima; per poter rispondere al richiamo
che ci viene dall’alto. Dacché la scala per raggiungere il cielo è fatta di
semplici cose: amore, fratellanza, profumo di un fiore, o voce di albe che
chiamano uccelli all’inno del giorno. Non ci sarà più paura di morte; farà parte della vita, perché
la contiene, come il figlio il padre, il padre il figlio; come la notte il
giorno che chiaro illumina terre di nuovo vestite.
Nazario Pardini
Dio non nasce e non muore, ma muore e nasce nel cuore e nella mente degli umani. Là infatti incanti e disincanti si alternano in una strana e necessaria pulsazione. Il processo storico che ha condotto all'offuscamento degli dei parte da molto lontano, probabilmente dalla nascita del razionalismo nel mondo classico, che al tempo stesso segnò la nascita della tragedia (ma forse anche da prima). Tuttavia non è lecito generalizzare. Ogni uomo fa a sé e la storia non è mai a senso unico, a dispetto delle tendenze omologanti da cui è seminata. Ci sono indubbiamente indirizzi dominanti, ma il leitmotiv razionalistico-metafisico della cultura occidentale non ha impedito, ad esempio, al Poverello d'Assisi di far sentire la sua voce nettamente distinta e contraria. La storia, pur procedendo in una direzione, non è mai univoca ma plurivoca. Ed è ciò a consentirle di non essere lineare ma ciclica. Ci sono semi apparentemente scomparsi che germoglieranno al momento opportuno. Verrà il momento del silenzio (sta già venendo) per la babele che abbiamo creato. Sarà quello il segno dell'inversione di rotta, l'indizio della rinascita, che a sua volta non potrà essere univoca, se è vero che la testa di Orfeo, sbranato dalle Menadi, continuerà in eterno a piangere nelle acque del Lete. Incanto e disincanto si giovano l'uno dell'altro. E' vero che non si possono servire due padroni, ma è pur vero che si deve dare a Cesare e a Dio in equa misura. Non bisogna demonizzare il denaro. Il demonio è l'uomo, non il denaro. Con il denaro si possono anche fare, e si fanno, le opere buone. Caino è esistito molto prima dell'invenzione del baratto e di ogni tipo di scambio commerciale. L'umanità è sempre la stessa: un'altalena di azioni distruttive e costruttive. Occorrono le une alle altre e lo scoglio di Leucade, in fondo, non è altro che l'uomo stesso, in questa sua ricchezza di angelici voli e di perversioni. Leucade è l'isola dell'armonia dei contrari. Non è soltanto il dirupo della disperazione e della tragedia saffica, ma è anche l'oasi della speranza, verso cui Ulisse il naufrago, il disperso, da sempre orienta la prua.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Errata corrige: "leitmotiv razionalistico-nichilistico", al posto di letmotiv razionalistico-metafisico".
RispondiEliminaFranco Campegiani