giovedì 1 ottobre 2015

ANNA MARIA PACILLI: "SENTIRE LA FELICITA': ALCUNE RIFLESSIONI"


Anna Maria Pacilli collaboratrice di Lèucade







Poesia e psicologia. Amore e felicità
di Nazario Pardini

“… Ecco, quindi, la Felicità come “amore” ma anche come “progetto”, non come qualcosa di autonomo, che può accadere comunque, che si verifica indipendentemente dalla nostra volontà, come un fato predeterminato, ma che va cercata, costruita, e, possibilmente, anche imparata.
Con un salto generazionale, leggo una frase di una mia ex alunna di Scienze Infermieristiche, Alice Zucco, “La felicità è come un cestino da picnic: la puoi portare dappertutto”. La Felicità per i giovani sarebbe “trasportabile”, può contenere tutto ciò che serve avere, può addirittura essere “alimento” e “alimentare” altra Felicità, anche qui, elemento collettivo e condivisibile, contagioso, quasi”. Sì, contagioso, universale, totale, polivalente, parenetico, olistico; amore, felicità: un binomio di valenza umana ed ultra. Ma l’amore, purtroppo, non sempre ci rende felici: direi che è quel sentimento che più si avvicina al fatto di esistere, dacché significa inquietudine, malessere, saudade, tormento insicurezza, vita; e sono eros e thanatos i due ingredienti a rendere il nostro essere vero, mortale, esistenziale; il nostro esistere patrimonio di conturbazioni attuali e memoriali di grande carica poetica.        
Un saggio, questo di Anna Maria Pacilli di elevata caratura; di profonda vicenda letteraria, scientifica, antropologica, filosofica, psicoanalitica, neurobiologica che, con un linguismo tonico, saporoso e incisivo, riesce a metterci in sintonia con argomentazioni che sembrano a prima vista estranee alla poesia ma che, al contrario, molto hanno a che vedere con la sua polisemica valenza; con la sua multicorde estensione e soprattutto con le sporgenze interiori che essa pretende, dacché è confessione dei nostri sobbalzi intimi; degli accadimenti rimasti a macerare per  tempo nel serbatoio del subconscio; in quel pozzo di immagini confuse, di ontologiche emotività, che trovano corpo in memorie o in fremiti panici di polivalente cromia.  Riattivarle, dare loro nuova lucentezza, significa essere un po’ psicologi di noi stessi. Sottoporsi a autosedute; leggerne i risultati in diagnosi poematiche, liriche, attraverso cui veniamo a conoscenza di un altro noi sconosciuto. “L’inconscio è un particolare regno della psiche con impulsi di desiderio propri, con una propria forma espressiva e con propri meccanismi psichici che non vigono altrove”. (Freud); e parafrasando Jules Renard, possiamo dire che nella casa della poesia la stanza più grande è la sala d’attesa. Quella sala in cui restano a decantare episodi scampati, che, tradottisi in immagini, attendono l’ora giusta per tornare a vivere nella sonorità del canto. O come affermava Alda Merini: “portiamo i nostri morti con noi fino a quando moriamo noi stessi”. Quindi scavare nei nostri recessi significa cercare quella verità che unisce tutti noi in un unico amplesso. Una verità etico-estetica che è nella parola. Nella ricerca del Bello, che mai avrà fine, dacché il Bello è eterno, immortale e abita oltre quegli orizzonti che delimitano il nostro sguardo di esseri mortali. Noi possiamo solo avvicinarcisi il più possibile; arrivare a toccare appena la coda del supremo; solo sfiorarla, in quanto limitati dalla precarietà della nostra stagione. Possiamo fare questo, solo affidandoci al sentimento, non di certo alla ragione; è il sentimento che si fa cospiratore di un’estasi di sovrumana levatura. Sarà la psicologia, con tutto il suo potere diagnostico, analitico-introspettivo, poetico, oserei dire, a rivelare a noi stessi quella parte misteriosa e misterica del nostro essere imperfetti; la poesia non è che una faccia di quella medaglia; quella che cerca di dare continuità, armonia, e sopravvivenza ai tanti frammenti discontinui raccattati nel subconscio del nostro esistere; un malum vitae, una malinconica natura poetica che mi sembra di rintracciare nei versi di “O poeta é um fingidor” di Fernando Pessoa, paradigma rivelatore della condizione del vero poeta: “Il poeta è un fingidor. / Finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente”.  Leggere questo stimolante saggio significa mettersi a confronto con argomentazioni atte a suscitare interesse per eventuali approfondimenti scientifico-filosofici, nonché poetici, dacché il sentire del poeta (Mi piace il verbo sentire. Sentire il rumore del mare, sentirne l’odore. … Sentire l’odore di chi ami, sentirne la voce e sentirlo col cuore. Sentire è il verbo delle emozioni, ci si sdraia sulla schiena del mondo e si sente. [Alda Merini]) è tanto simile alla percezione che si ha della felicità, sudando (Dunque potremo anche percepire e comunicare la Felicità sudando. E ciò potrebbe essere messo in “comune” con gli altri, contagiando la Felicità.).  Un sentimento  che presuppone l’aspirazione al completamento; cosa improbabile, considerando la pochezza e la ristrettezza dei nostri mezzi nei confronti del tutto (L’homme c’est un milieu entre rien e tout. <Pascal>); o come scrive uno scrittore francese “L’infelicità è quella parte di noi che più si avvicina alla felicità”.
                                                                                                                                                                           
                                                                                            “Sentire” la Felicità: alcune riflessioni.
di Anna Maria Pacilli                                                                      

Mi piace il verbo sentire. Sentire il rumore del mare, sentirne l’odore.
… Sentire l’odore di chi ami, sentirne la voce e sentirlo col cuore.
Sentire è il verbo delle emozioni, ci si sdraia sulla schiena del mondo e si sente.  [Alda Merini]
                                                                                                                                                                                                                                                                                               
Lo spunto per quanto segue mi è stato dato da una riflessione di Gianni Di Quattro sull’argomento “Felicità”, che egli considera qualcosa che non si può vedere ma si può sentire, che non è uguale per tutti, può essere un fatto individuale ma anche collettivo. Concetto, questo, che, a mio avviso, richiamerebbe quello dell’Amore di Alberoni del 1979, inteso come “movimento collettivo”, o meglio dell’Innamoramento, lo stato nascente di un movimento collettivo a due, che può trovare la sua realizzazione se i due innamorati riescono a creare un progetto, ma che è destinato a naufragare, invece, se i progetti individuali che loro hanno, sono troppo diversi o incompatibili.
Ecco, quindi, la Felicità come “amore” ma anche come “progetto”, non come qualcosa di autonomo, che può accadere comunque, che si verifica indipendentemente dalla nostra volontà, come un fato predeterminato, ma che va cercata, costruita, e, possibilmente, anche imparata.
Con un salto generazionale, leggo una frase di una mia ex alunna di Scienze Infermieristiche, Alice Zucco, “La felicità è come un cestino da pic nic: la puoi portare dappertutto”. La Felicità per i giovani sarebbe “trasportabile”, può contenere tutto ciò che serve avere, può addirittura essere “alimento” e “alimentare” altra Felicità, anche qui, elemento collettivo e condivisibile, contagioso, quasi.
A me, pensando alla parola “Felicità” è venuto in mente un vestito tutto colorato che, però, nonostante i vari colori, sia, comunque, abbinabile con tutto. Non “sdice” la felicità, non è mai “pacchiana”, non è mai troppa, non sono mai troppe le tinte con cui riesce a colorare la nostra vita. Felicità, insomma, è sentirsi in “sintonia” con la vita stessa. Anche se non si può non considerare che la parola reca in sé, inevitabilmente, anche il concetto di caducità
 “La felicità è sempre e soltanto un istante. La felicità non è una cosa che dura. Non è un tempo, è un istante o una serie di istanti. Un punto di contatto con qualche cosa di straordinario” (in Gianni Bisiach, Inchiesta sulla felicità, Rizzoli, 1987)

Per qualcuno la Felicità è questione di chimica, un fatto di neuroni, di sinapsi. Per altri è l’appagamento immediato di un bisogno, fisico, biologico. Per altri, ancora, è un desiderio più mirato e duraturo. Cioè può avere partenza dalla chimica, ma si completa attraverso l’anima. La ricerca (scientifica) della Felicità è un viaggio misterioso e appassionante attraverso le la letteratura, la filosofia, le neuroscienze, la psicologia, la religione, l’antropologia, un viaggio che non può finire se non conducendoci al centro di noi stessi. Perché spesso, anzi molto spesso, ci si domanda se esista, per ognuno di noi, una formula della felicità. 


La Letteratura e la Felicità
  
Il tema della Felicità e dell'aspirazione umana verso di essa è stato trattato da molti poeti, tra cui Eugenio Montale, che ritiene che tale condizione sia raggiungibile solo per pochi attimi, in cui la persona scopre un mondo di emozioni fino ad allora quasi sconosciute.
La poesia "Felicità raggiunta" fa parte della raccolta « Ossi di seppia » del 1925: il tema dominante è l'esistenza come una specie di corsa ad ostacoli, piena di difficoltà e di incertezze, in cui l'uomo è solo e non può sperare nell'aiuto divino. Dio è indifferente alle vicende umane e addirittura nella poesia "Spesso il male di vivere ho incontrato", la Felicità viene vista consistere nel raggiungimento della Divina Indifferenza, cioè di una condizione di assoluto distacco spirituale dal dolore.
Solo eccezionalmente gli eventi della vita possono aprire la porta ad uno spiraglio di speranza.
La Felicità è fragile, è "barlume che vacilla" e "ghiaccio teso che s'incrina", quindi è un miraggio destinato a svanire.
"Non ti tocchi chi più t'ama": secondo il poeta proprio chi desidera maggiormente essere felice deve rinunciare a ricercare la gioia, perchè essa svanisce presto e lascia il posto alla delusione; è importante notare inoltre che le persone normalmente tristi provano un senso di turbamento quando sperimentano la gioia, non essendo abituate a questo stato d’animo.

Per Guido Gozzano nel 1909, la Felicità assume le sembianze di una donna, la signorina Felicita, il cui aspetto è filtrato dalla dimensione malinconica del ricordo e dalla sofferenza esistenziale: "[...]  Nel mio cuore amico | scende il ricordo. E ti rivedo ancora, | e Ivrea rivedo e la cerulea Dora | e quel dolce paese che non dico".

Il Piccolo Principe ( 1943) di Antoine de Saint-Exupéry è  un “racconto filosofico” su un pilota che si schianta nel deserto ed incontra un giovane principe caduto sulla terra dal suo piccolo pianeta. Il principe insegna al pilota il senso della vita, la natura dell’amore e la bellezza di una esistenza felice.
Anche dopo molti anni il tema della Felicità rimane sempre attuale: il “Progetto felicità. Aspetti psicologici di un viaggio interiore” di Carmen Meo Fiorot e Marcello Andriola del 2010 sostiene che la felicità dipende dall’autostima e dalla fiducia in se stessi.
Ancora in “ Momenti di trascurabile felicità” (2010),  Francesco Piccolo si chiede quali siano le piccole gioie che ci colgono in modo improvviso e in momenti inaspettati della vita e della giornata. Sono attimi, piccole parentesi in cui e grazie ai quali, trovare il tempo di sorridere.

Stefano Bartolini, docente di Economia Politica all’Università di Siena, in “Manifesto per la felicità. Come passare dalla società del ben-avere a quella del ben-essere” del 2010, spiega che siamo infelici perché siamo poveri di relazioni interpersonali. Occorre, dunque, riorganizzare le nostre vite.


La “Lettera a mio figlio sulla Felicità” di Sergio Bambaren (2010) è una mappa per affrontare il viaggio più importante, quello verso la felicità, in cui unici bagagli indispensabili sono l'ottimismo e il coraggio.

 In “Progetto felicità. Aspetti psicologici di un viaggio interiore” di Carmen Meo Fiorot e Marcello Andriola del 2010, gli autori sostengono che la felicità dipenda da una forte autostima e fiducia in sé stessi.

Dalai Lama (Gyatso Tenzin) e Howard C. Cutler in “L’arte della felicità in un mondo in crisi” del 2013, sostengono che viviamo in un mondo  inquieto, segnato da crisi profonde e non solo economiche, in cui sembrano prevalere impulsi distruttivi che portano a guerre e conflitti tra individui e nazioni. In questa situazione può ancora esistere la Felicità? Dalai Lama e lo psichiatra americano Howard C. Cutler affrontano il tema partendo dall’assunto che l’uomo è fondamentalmente buono e se coltiva le sue doti innate, potrà essere felice.

Tal Ben-Shahar ne “La felicità in tasca. L’arte di vivere bene senza essere perfetti” (2014) sostiene che una vita felice non è una vita perfetta. Una persona felice è una persona che va incontro agli insuccessi, ma che, comunque, non ha paura di fallire.
Questo, nonostante la società moderna ci imponga continuamente di essere perfetti: apparire giovani e belli, guadagnare di più, ed essere sempre all'altezza di ogni situazione. In realtà, secondo l’autore, dai fallimenti e dalle emozioni dolorose si può imparare molto.


L’Antropologia e la Felicità

Per l’antropologo Lévi Strauss, la Felicità è equilibrio e l’alternanza degli opposti, che ne determina anche l’amore. Il Sole e la Luna, infatti, assolvono, complementariamente, ma ognuno per suo conto, due funzioni diverse, illuminante e riscaldante.


 
La Filosofia e la Felicità

Epicuro sostiene che non si è mai troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità e che a qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell'anima.
Secondo Aristotele ogni essere umano desidera essere felice, anche se i percorsi per raggiungere la felicità sono spesso, in contraddizione tra loro: per alcuni essa coincide con l’onore, per altri con la ricchezza, per altri con il piacere, per altri ancora con la virtù. Dunque, anche se nessun uomo agisce per essere infelice, in diversi casi qualcuno si inganna sul
modo di esserlo. Anche chi si impicca, sostiene Pascal, lo fa perché ritiene che, togliendosi la vita, potrà accedere ad una condizione migliore, il nulla o una vita oltremondana. A partire dall’Illuminismo, si era diffusa nella mentalità la convinzione di un diritto alla felicità, o, meglio, un “diritto a ricevere la felicità”, che qualcuno ha il dovere di
procurarci: se qualcuno non è felice è vittima di un’ingiustizia, perché vuol dire che chi aveva quel dovere non lo ha assolto. Questo atteggiamento che, in qualche modo è ancora presente nei giorni odierni, determina un aumento dell’infelicità: poiché l’uomo ritiene di avere diritto a ricevere la felicità, quando, per vari motivi, non la sperimenta, si sente vittima di un’ingiustizia e questo accresce l’insoddisfazione. Da ciò, l’aumento numerico dei suicidi, in parte dovuto al fatto che si è diventati intolleranti alle frustrazioni, piccole o grandi che siano, la crisi delle famiglie, l’aumento dei casi di patologie psichiche, soprattutto di tipo depressivo, prodotte dalla delusione nei confronti della vita; il ricorso indiscriminato, come surrogati della felicità, al sesso ed alle sostanze stupefacenti.
L’infelicità, dunque, secondo Aristotele, sarebbe determinata da una condizione di solitudine: “riteniamo che l’amico sia uno dei beni più grandi e che l’esser privo di amici e in solitudine sia cosa terribile” (Etica Eudemia, 1234b 32 - 1235a 2)
 Non si può, dunque, essere felici da soli, perché l’uomo è un essere sociale, ma non basta neppure vivere con gli altri: bisogna essere in comunione con la loro vita tramite l’amore, che ci fa sperimentare su di noi le gioie e i dolori altrui. Nonostante ciò, i contemplativi che vivono da eremiti, non sono infelici, perché non sono realmente soli, ma in comunione con Dio, che Platone chiamava il Primo Amico.

Esisteva anche un nesso tra Etica e felicità: l’uomo moralmente buono, che cioè esercita le virtù, è l’uomo che giunge
alla felicità più profonda possibile in questa vita. Egli non è colui che è imprigionato in regole e divieti, ma colui che vive motivato dall’amore.
Da tutto questo si possono comprendere le ragioni dell’infelicità nella nostra epoca, connotata da stili di vita del tutto
egoistici ed orientati al conseguimento della propria felicità, mentre la felicità la consegue solo chi non la
cerca per se stesso, bensì chi la cerca per gli altri.
 Questo “paradosso” lo troviamo lungo tutto il corso della storia della filosofia.
Autori come Bentham, Mill e Sidgwick (i capostipiti di quella corrente di filosofia morale che è l’Utilitarismo), hanno ritenuto che l’uomo agisca motivato solo dal proprio egoismo.
Bentham sosteneva che "per ogni granello di gioia che seminerai nel petto di un altro, tu troverai un raccolto nel tuo petto, mentre ogni dispiacere che tu toglierai dai pensieri e dai sentimenti di un'altra creatura sarà sostituito da meravigliosa pace e gioia nel santuario della tua anima” (Bentham Manuscripts, University College, CLXXIV, 80, cit. da A. Goldworth, Editorial Introduction, in J. Bentham, Deontology,together with a table of Springs of Action and Article on Utilitarianism, in The Collected Works of Jeremy Bentham Clarendon Press, Oxford, 1983, p. XIX).




Per Mill: “la capacità cosciente di rinunciare alla propria felicità è la via migliore per il raggiungimento di tale felicità”
( J.S. Mill, L’utilitarismo, Sugarco, Milano, 1991, p. 33).

…“non ho mai dubitato che la felicità sia […] lo scopo della vita. Ma ora
penso che quello scopo può essere ottenuto se non lo cerchiamo come scopo diretto. Sono felici (io
credo) solo coloro che hanno le loro menti fissate su qualcos’altro che la propria felicità; sulla
felicità degli altri, o nel miglioramento dell’umanità, persino in qualche arte o occupazione, cercati
però non come mezzi, ma come un ideale scopo. Puntando così su qualcos’altro essi trovano la
felicità lungo la strada”

Sidgwick parla dell’edonismo come di una forma di egoismo, consistente nel fatto che “l’impulso al piacere, se troppo predominante, viene a vanificare il suo stesso fine”… “i nostri godimenti attivi [...] non possono essere conseguiti se il nostro scopo viene consapevolmente concentrato su di essi” (H. Sidgwick, I metodi dell’etica, Il Saggiatore, Milano, 1995, p. 84).

I piaceri della ricerca intellettuale, della creazione artistica, della benevolenza “sembrano richiedere, perché li si provi in misura accettabile, la preesistenza di un desiderio di fare il bene degli altri per se stesso, e non perché così facendo ne deriva il nostro”. Perciò, come principale ostacolo per il loro conseguimento Sidgwick indica l’egoismo: “quell’eccessiva concentrazione dell’attenzione sulla propria felicità personale […] rende impossibile all’individuo sentire un qualche interesse per i piaceri e dolori degli altri. La continua attenzione rivolta al proprio io che ne risulta, tende a privare tutte le gioie della loro intensità e del loro aroma, e a produrre una rapida sazietà e la noia: all’uomo egoista manca […] quella dolcezza particolarmente ricca che dipende da una sorta di complicato riverbero della simpatia che sempre si trova nei servizi forniti a coloro che amiamo e a cui siamo grati.” ( H. Sidgwick, I metodi dell’etica, cit., p. 527).
Buona parte della filosofia morale insegna proprio che la felicità è la conseguenza e l’effetto di una prassi che non è direttamente finalizzata ad essa.
Nell’età antica lo avevano compreso Aristotele e Seneca. Per quest’ultimo virtù e saggezza consentono di raggiungere la Felicità. In età medievale, Agostino, Bernardo di Chiaravalle e Tommaso d’Aquino; nell’età moderna, oltre a Bentham, Mill e Sidgwick, anche  Leibniz, Shaftesbury, Hutcheson, Smith, Palmieri, Genovesi e Ferguson; nel XX secolo d.C., tra gli altri, Scheler, Weil e Frankl. Se, dunque, la Felicità è la conseguenza di una prassi che non se la pone direttamente come obiettivo, allora essa è un dono, non direttamente perseguibile. Lo aveva già intuito Aristotele, secondo cui la felicità non sarebbe una scelta, ma un dono divino.
Per Shaftesbury, la ricerca appassionata del piacere come della felicità portano alla sazietà e al disgusto, così come per Scheler, l’uomo che vive secondo i principi della filosofia edonistica, tanto più sicuramente non ottiene il piacere quanto più lo ricerca, mentre partecipare alla gioia o alla Felicità degli altri è ciò da cui dipendono i più grandi di tutti i nostri piaceri.
Si comprende, così, il nesso tra amore e Felicità: l’uomo è aperto all’infinito, omnium capax (Tommaso d’Aquino, De veritate, q. 24, a. 10), ovvero la natura umana è proiettata verso l’unione con tutto ciò che è altro da sé. Perciò, l’amore è l’espressione e la realizzazione connaturale alla natura dell’essere umano che è proiettata verso l’esterno, e che non si può realizzare attraverso rapporti intersoggettivi superficiali, ma solo attraverso l’amore autentico.
Così, la Felicità è gioia della Felicità dell’altro, come ha ribadito anche Leibniz in età moderna, spiegando che essa è delectatio in felicitate alterius, o (nel caso in cui l’altro non sia felice) gioia del cercare la felicità dell’altro ( G.W. Leibniz Codice diplomatico di diritto delle genti, in Scritti politici e di diritto naturale, UTET, Torino, 19652, p. 159).
Anche Kierkegaard sostiene che la porta della felicità si apre amando e donandosi agli altri.
Esiste, però, la “felicità perfetta”? La delusione, in realtà, è sempre in agguato e, secondo Tommaso d’Aquino, tutti i nostri obiettivi suscitano una reazione comune: quando vengono raggiunti e posseduti non li si apprezza più e si desiderano
altre cose, cioè il desiderio non viene mai appagato. Come se, in qualche modo, nel fine a cui si anelava fosse insita la frustrazione di averlo conseguito, perché, comunque, esso si rivela non definitivo. Ogni bene finito è un’anticipazione simbolica del Bene Infinito: l’uomo è perennemente insoddisfatto non perché ha conseguito questo o quel bene invece che un altro, ma per la natura finita di tutti questi beni, incapace di appagare il desiderio umano, che è un
desiderio di Infinito, che solo un Bene Infinito può estinguere: solo la comunione con Dio, se esiste, può dare soddisfazione all’anelito del nostro desiderio.

Fu solo tra il tardo Settecento e l'Ottocento che si osò pensare alla Felicità come qualcosa di più che un dono divino o una ricompensa ultraterrena, meno casuale della fortuna.  Per la prima volta nella storia dell'uomo, ci si trovò di fronte alla  prospettiva di non dover soffrire come per un'infallibile legge dell'universo, ma di potere e di doversi aspettare la Felicità e provare piacere come un diritto dell'esistenza. Ad esempio, “Le Paradis est ou je suis”, dichiara Voltaire all'inizio del diciottesimo secolo: “Il  paradiso è dove sono io”.


La Psicologia e la Felicità

Secondo  la letteratura psicologica-psichiatrica contemporanea, la felicità, è conseguenza di un’attività vitale non
direttamente polarizzata verso di essa con desiderio e ricerca intenzionali. Il clinico può osservare che il principio del piacere è in realtà autodistruttivo, la ricerca diretta della felicità è autodistruttiva. Quanto più ci si sforza di guadagnarla, tanto meno la si consegue.((J. Cardona Pescador, La depressión, psicopatología de la alegría, Ed. Cíentifico-Médica, Barcellona, 1983, pp. 106-107).

Sempre in ambito psicoterapeutico, prevarrebbe l’idea che la felicità e il piacere non siano direttamente “intenzionabili”: “il piacere non si lascia ricercare per se stesso, ma può essere ottenuto solo quale effetto spontaneo, così, più l’uomo ricerca il piacere, più questo gli sfugge. “Ciò di cui l’uomo ha bisogno non è il piacere in se stesso, bensì una ragione per essere felice.”  (V. Frankl, Der Mensch auf der Suche nach Sinn, Verlag, Stuttgart, 1952, tr. it. Alla ricerca di un significato della vita. Per una psicoterapia riumanizzata, Mursia, Milano, 1990, p. 55).



La Psicoanalisi e la Felicità
In realtà, a partire da Freud non è stata elaborata una teoria psicoanalitica delle emozioni, quanto piuttosto degli affetti, o pulsioni sessuali e pulsioni dell’Io. Le prime sono stimoli interni che influenzano il comportamento dell’individuo e lo spingono a determinate azioni, caratterizzate ognuna da tre elementi: una fonte, una meta ed un oggetto. La fonte di ogni pulsione ha un origine interna specifica, di natura biologica o biochimica, che provoca uno stato di tensione interna che spinge l’individuo verso una meta, allo scopo di scaricare la tensione. L’oggetto della pulsione, invece, rappresenta sia il fine che il mezzo attraverso il quale la pulsione raggiunge la sua meta; può trattarsi di una persona, di un oggetto parziale, di un oggetto reale o fantasmatico. Delle pulsioni dell’Io fanno parte la fame, la sete, l’aggressività e tutti gli impulsi rivolti al controllo del comportamento altrui, come esercitare potere, attaccare e fuggire. Successivamente Freud modificò la sua teoria introducendo i concetti di pulsione di vita e pulsione di morte.
Sebbene la teoria di Freud sulle pulsioni non sia una vera e propria teoria delle emozioni, fornisce delle basi per le interpretazioni psicoanalitiche degli affetti, in particolare l’ansia e la depressione.
Un ulteriore aspetto da prendere in considerazione è il riconoscimento delle emozioni negli altri. Per Freud nell’espressione di un’emozione possono verificarsi vari spostamenti e trasformazioni volti ad impedire all’affetto di apparire alla coscienza liberamente.
In questa prospettiva, sogni, associazioni libere, lapsus, postura, atti mancati, espressioni facciali e tono della voce assumono particolare importanza come indicatori di emozioni rimosse da un individuo. In tutti questi casi l’affetto inconscio riemerge alla coscienza grazie ad un indebolimento dei meccanismi di censura.


La Neurobiologia e la Felicità
La tesi a favore dell’esistenza di un sistema per le emozioni nel cervello umano è, ancora oggi, oggetto di molte discussioni. L’opinione corrente è che ci sarebbero alcune strutture cerebrali più importanti di altre per l’esperienza e l’espressione dell’emozione. Gli studi di Cannon per primi hanno preso in considerazione le varie aree del cervello in relazione all’evento emozionale. Nella figura 1. sono riprodotte le principali strutture del sistema limbico, che rappresenterebbe un correlato cerebrale delle emozioni.


Figura 1: Principali strutture del sistema limbico

 Localizzato al di sotto della corteccia cerebrale, il sistema limbico, comprendente l’amigdala, l’ippocampo e l’ipotalamo, riveste un ruolo importante in buona parte delle reazioni emotive, nella motivazione, nell’apprendimento e in certi aspetti della memoria.  L’amigdala è un elemento critico nei circuiti del cervello che elaborano paura e aggressività. Questa struttura ha un ruolo specifico nell’elaborazione delle emozioni, sia a livello anatomico che funzionale e riceve un’ampia gamma di input relativi a stimoli presenti, ricordati o semplicemente immaginati. Ognuno di questi input è capace di mettere in moto dei meccanismi che integrano informazioni sia di tipo cognitivo che emotivo in altre parti del sistema. Sebbene l’amigdala non è in grado di decodificare la qualità emozionale degli stimoli, il suo ruolo consiste nell’ alimentare ed attivare l’intero sistema emotivo. Numerosi studi hanno esaminato l’effetto di lesioni all’amigdala che provocano danni sull’abilità di riconoscere le espressioni emozionali del volto, riportando deficit associati a paura, rabbia, tristezza e disgusto. La varietà di deficit probabilmente riflette, in parte, differenze nelle lesioni, tuttavia l’inabilità a riconoscere la paura nelle espressioni facciali sembra essere il più frequente.
L’ippocampo e l’ipotalamo formano, insieme all’amigdala, il sistema limbico. Il primo è localizzato nella zona mediale del lobo temporale e svolge un ruolo importante nella memoria a lungo termine e nella navigazione spaziale.
L’ipotalamo, infine, è la zona del cervello che coordina il sistema nervoso autonomo e regola, tramite una complessa attività ormonale, funzioni diverse all’interno dell’organismo, come l’equilibrio della temperatura corporea, il metabolismo dei glucidi e dei lipidi, ecc. Molte di queste funzioni sono implicate nel vissuto e nella manifestazione psicofisiologica delle emozioni.

Il sistema nervoso autonomo
L’esperienza emozionale è quasi sempre accompagnata dalla mobilitazione del sistema nervoso autonomo (che regola le reazioni corporee involontarie) attraverso le sue due parti: il sistema simpatico e il sistema parasimpatico. Il sistema simpatico ha il compito di attivare le risposte di sopravvivenza alle minacce che vengono percepite; le ghiandole surrenali secernono gli ormoni dello stress (adrenalina, noradrenalina, cortisolo), il battito cardiaco aumenta, i muscoli si contraggono, le pupille si dilatano e il respiro si fa più profondo e rapido. Un versione estrema dell’attivazione del sistema nervoso simpatico è conosciuta come risposta di attacco o fuga, che porta gli animali a fuggire o attaccare in caso di pericolo. Quando il pericolo è passato, il sistema parasimpatico prende il sopravvento su quello simpatico e riporta il corpo ad uno stato di riposo pre-ansia.


I neurotrasmettitori

Un ultimo aspetto da prendere in considerazione, che sono alla base non solo delle esperienze emozionali ma riguardano tutte le strutture del nostro corpo, sono i neurotrasmettitori, responsabili della trasmissione sinaptica chimica. Questi rientrano in tre categorie chimiche: aminoacidi, amine  e peptidi e la loro funzione è quella di trasmettere l’informazione dalla membrana pre-sinaptica a quella post-sinaptica.
Tra i neurotrasmettitori aminoacidi rientrano il glutammato (Glu), la glicina (Gly) e l’acido gamma-aminobutirrico (GABA). Il glutammato è un neurotrasmettitore eccitatorio e consente allo stimolo nervoso di propagarsi nel neurone post-sinaptico. Un eccessiva presenza nelle sinapsi di glutammato può indurre uno stato di ipereccitazione e insonnia con forti cefalee. Il neurotrasmettitore GABA, invece, ha una funzione prevalentemente inibitoria, sopprimendo l’attività del sistema nervoso centrale. Il sistema limbico è particolarmente ricco di recettori per il GABA e si pensa che la sua funzione sia quella di “calmare” il sistema limbico quando è sovraeccitato. Sui recettori per il GABA agiscono le benzodiazepine, i farmaci più utilizzati per ridurre l’ansia patologica. Questi farmaci si legano ai recettori per il GABA e ne modificano la forma aumentandone l’affinità con il neurotrasmettitore, determinando un potenziamento dell’azione del GABA.
La seconda categoria è rappresentata dai neurotrasmettitori aminici: serotonina, dopamina, acetilcolina e noradrenalina svolgono un ruolo molto importante nelle manifestazioni comportamentali, nei processi cognitivi e, soprattutto, nelle emozioni. La serotonina è implicata nella regolazione dell’umore e del sonno, nella temperatura corporea e nella coordinazione delle attività intestinali. La dopamina, invece, è il principale neurotrasmettitore del cervello emozionale; svolge un ruolo importante nella regolazione di comportamenti quali il mangiare, il bere, il riprodursi, avere successo nella lotta o nella competizione o il fuggire da un pericolo. Una scarsa produzione di dopamina sembra sia correlata alla depressione, mentre una iperattività nella produzione pare connessa alla sindrome maniacale e alla schizofrenia. La noradrenalina, infine, coinvolge parti del cervello dove risiedono i controlli dell’attenzione e delle reazioni. Insieme all’epinefrina, provoca la risposta di attacco o fuga (fight or flight), attivando il sistema nervoso simpatico per aumentare il battito cardiaco, rilasciare energia sotto forma di glucosio dal glicogeno e aumentare il tono muscolare.
I peptidi costituiscono la terza categoria chimica dei neurotrasmettitori; essi comprendono le encefalite, le endorfine, la sostanza P, la neurotensina e molti altri. Si tratta di catene proteiche di lunghezza variabile la cui funzione è prevalentemente inibitoria; per esempio le endorfine sono maggiormente concentrate nella parte del midollo spinale in cui arrivano le fibre nervose sensitive che conducono gli stimoli dolorifici nelle varie parti del corpo o nelle zone del cervello che hanno il compito di ricevere, integrare e trasmettere le informazioni dolorifiche nelle altre aree cerebrali.


I neuroni specchio

La scoperta dei neuroni specchio non è la scoperta di un nuovo fenomeno clinico, ma solo dei possibili meccanismi neurali che possono far luce su fenomeni clinici già noti, come sostiene Gallese nel 2006.
Essi sarebbero una popolazione di neuroni visuo-motori scoperti nel cervello dei primati e dell’uomo che si attivano sia durante l’esecuzione di azioni sia durante l’osservazione delle stesse azioni compiute da altri.
Nel contesto emozionale, questi neuroni assumono grande importanza in quanto regolano le strategie di adattamento alle situazioni ambientali. Prove scientifiche hanno dimostrato che l’attivazione di un particolare circuito neurale, che comprende la corteccia premotoria ventrale e include l’amigdala e l’insula, assume grande importanza nell’osservazione e nel , come paura, felicità, rabbia, disgusto, sorpresa, tristezza. Percezione e produzione delle manifestazioni espressive ariconoscimento  di espressioni (facciali) emozionali di basevrebbero, quindi, una base comune. Un ruolo importante in questo meccanismo viene svolto dall’insula, che connette il sistema limbico con il sistema dei neuroni specchio ed è un centro di integrazione viscero-motoria trasformando gli input sensoriali in reazioni viscerali. Il meccanismo specchio risulta attivo anche nel riconoscimento del dolore.
Freedberg nel 2007 notò che anche nello spettatore di un’opera d’arte vengono attivati gli stessi circuiti neurali corrispondenti alle azioni o alle emozioni rappresentate nell’opera.


Dunque, i circuiti neurali di un’emozione:

1.   Sono geneticamente predisposti (innati) e selezionati per il loro valore adattativo
2.   Sono organizzati per rispondere in modo automatico agli stimoli salienti
3.   Modificano i comportamenti, attivando o inibendo programmi motori, i pattern biochimici, l’attivazione fisiologica.
4.   Influenzano anche i sistemi sensoriali
5.   Interagiscono con i sistemi cognitivi
6.   Sono implicati nei circuiti alla base dell’esperienza soggettiva cosciente
Secondo il Modello del sistema emozionale unico da un unico centro sottocorticale per tutte le emozioni si passerebbe a un circuito sottocorticale composto da diverse aree interconnesse per l’elaborazione di tutti i processi emozionali. In realtà le emozioni non sono solo sottocorticali e l’Emisfero sinistro sarebbe quello maggiormente collegato alle emozioni positive, quello destro alle emozioni negative
Inoltre, la teoria del “cervello trino” di Mc Lean del 1970 composto da cervello emotivo ( sistema limbico), cervello razionale ( neocorteccia), cervello rettiliano ( tronco encefalico, gangli della base), non solo sarebbe ancora valida, ma spiegherebbe anche molti aspetti connessi alla Sessualità. E, dunque, anche alla Felicità.

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Infine (perché no?)…Annusare la Felicità

Le persone sarebbero in grado di comunicare la Felicità agli altri attraverso la loro traspirazione. 
Uno studio condotto dal Prof. Gün Semin, psicologo presso l’Università di Utrecht, nei Paesi Bassi, e pubblicato sulla rivista  Psychological Science di quest’anno, ha messo in evidenza che alcuni composti chimici “felici” contenuti nel sudore, possono essere rilevati dagli altri, mentre studi precedenti avevano dimostrato che siamo in grado di annusare e percepire la paura e il disgusto tramite il sudore.
 Lo studio ha osservato un mutamento delle espressioni del volto dei soggetti che sono stati sottoposti: quando le donne ( che, notoriamente, hanno un olfatto più sviluppato degli uomini), annusavano del ‘sudore felice’, i muscoli della loro faccia si spostavano per indicare un sorriso.
Dunque potremo anche percepire e comunicare la Felicità sudando.
E ciò potrebbe essere messo in “comune” con gli altri, contagiando la Felicità.

Anna Maria Pacilli 



ANNA MARIA PACILLI

Curriculum vitae et studiorum


Nata a San Severo (FG), il 30/01/65, ha compiuto nella stessa città gli studi classici.
Laureata in Medicina e Chirurgia presso l’Università “G. D’Annunzio” di Chieti, ha discusso con il Prof. Filippo M. Ferro la tesi dal titolo: La psicoterapia di gruppo nell’età dell’adolescenza.  
Specializzata in Psichiatria presso la Scuola di Specializzazione dell’Università di Chieti, discutendo la tesi dal titolo:” Il dialogo interrotto tra Mente e Corpo. Le disfunzioni sessuali di origine psicogena: aspetti eziopatogenetici, psicopatologici e prospettive terapeutiche di uno studio inter-regionale Abruzzo-Puglia”.
Dal 2003 è Dirigente Medico presso il Dipartimento di Salute Mentale di Cuneo, referente per il Centro di Salute Mentale di Boves. Dal 2008 l’attività clinica si è ampliata con la cura dei Disturbi del Comportamento Alimentare, presso la sede di Cuneo.
E’ membro della SIP (Società Italiana di Psichiatria), della FISS (Società Italiana di Sessuologia Scientifica), della AISPA (Associazione Italiana Sessuologia Psicologia Applicata) e della ASST (Associazione Italiana Scuola Sessuologia Torino).
Ha partecipato e tuttora partecipa, in qualità di discente e docente, a Corsi e Congressi di Psichiatria.
Ha frequentato “con profitto” il Corso di Perfezionamento sui Disturbi del comportamento alimentare presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.
Ha frequentato “con profitto” il Corso di Perfezionamento in: Psicologia e Psicopatologia in adolescenza presso l’Università di Chieti, presentando una tesi dal titolo: I Disturbi del Comportamento Alimentare, aspetti eziopatogenetici, psicopatologici, clinici e prospettive terapeutiche.
Ha frequentato il Master di primo livello in “Criminologia”, con una tesi finale dal titolo “Psicopatologia delle madri omicide”.
Ha ultimato il Master biennale in Consulenza sessuale presso la sede di Torino ed ha ultimato il Perfezionamento in Sessuologia Clinica presso la sede di Milano.
Dal 1998 collabora con la Scuola di Specializzazione in Urologia di Chieti, diretta dal Prof. Raffaele L. Tenaglia, per la valutazione testologica e il trattamento psicoterapeutico e psicofarmacologico di pazienti affetti da Disfunzione Erettile su base psicogena.
Per lo stesso lavoro di ricerca scientifica è, altresì, in collaborazione con l’Ambulatorio di Andrologia, Azienda Mista Università di Foggia.
Ha svolto attività seminariali presso il Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia, partecipando agli esami di profitto per la disciplina di Psichiatria in qualità di componente la commissione (Tutor e Cultore della materia), ed inoltre ha collaborato alla programmazione ed allo svolgimento di ricerche promosse dalla Cattedra.
Nell’attività di Perito ha svolto perizie per conto del Tribunale di L’Aquila e di avvocati della provincia di Chieti ed ora per il Tribunale di Cuneo.
Nell’attività di Docenza ha svolto e sta svolgendo didattica per i seguenti corsi:
1.D.U. di Dietologia e Dietetica applicata, insegnamento di Psicopatologia Alimentare
2.Scuola di Specializzazione in Igiene e Medicina Preventiva, insegnamento di Psicologia Medica
3.Scuola di Specializzazione in Pediatria, insegnamento di Psicologia dell’età evolutiva
4.Scuola di Specializzazione in Fisiatria
5.Corso di Laurea in Scienze Sociali della Facoltà di Lettere
6.Scuola di Specializzazione in Igiene e Medicina Preventiva, nell’ambito dell’ insegnamento di Psicologia Medica
7.Corso di Laurea in Psicologia, nell’ambito dell’insegnamento di Neuropsichiatria Infantile
8.Diploma Universitario di Scienze dell’Educazione
9.Diploma Universitario di Scienze Infermieristiche.
E’ nel Board del sito www.Psicosoma.it e www.nelfuturo.com
E’ autrice di più di novanta pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali ed internazionali, comunicazioni congressuali e alcuni capitoli di libri :
1. La Sindrome del Burn–out e gli operatori sanitari: una revisione(con Grimaldi M.R., di Giannantonio M.) in:
La Sindrome del burn-out, di F. Pellegrino, Centro Scientifico Editore, Torino 2000.
2. Le Disfunzioni sessuali: inquadramento diagnostico, valutazione e comparazione di due campioni di soggetti in uno studio inter- regionale (con di Giannantonio M., Ferro F.M.) in: Gestire la crisi emotiva. Una guida pratica per il medico di Famiglia di  Pellegrino F, Mediserve Edizioni, 2003, Casoria (NA)
3. L’alimentazione come arte terapeutica: percorsi storici in:
Alimentazione e sistemi di cultura correlati, a cura di A. Cicchitti e C.Cotellessa, Casa Editrice Tabula-Fati, Lanciano, 2007
4. Pierced, tatuati e alimentazione: una possibile correlazione in un’esperienza clinica, in: Psicopatologie emergenti di Pellegrino F, Mediserve s.r.l., 2007 Milano
5. I disturbi dell’alimentazione tra psichiatria e medicina: uno sguardo clinico, in:
Disturbi Psichici e Patologie Fisiche di Pellegrino F, Mediserve s.r.l., 2007 Milano
6. Volume monotematico unico autore: L’Ansia nascosta. Ansia, Disturbi del Sonno e Patologie Geriatriche. Carocci editore, 2011 Roma.








14 commenti:

  1. Una dissertazione sobria e accattivante , profonda ed esaustiva , ricca di citazioni e approfondimenti che rendono la lettura di notevole interesse culturale sotto varie angolature. Il tragitto segnato dalla collega ha valore conoscitivo estremamente lucido e proficuo. La ricerca della felicità purtroppo rimane audace desiderio degli umani , e la si rincorre ad ogni sospiro, tra le ansie di Eros , che la trattiene con luminosità. Antonio Spagnuolo ( http://antonio-spagnuolo-poetry.blogspot.com ) -

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    1. Desidero anzitutto ringraziare il Prof. Pardini per questa bella e prestigiosa opportunità. Per avermi permesso di essere qui, di poter esprimere i miei pensieri e le mie riflessioni, che spesso si allontanano ( ma non molto) dal mio lavoro di psichiatra-psicoterapeuta. Riflessioni che, già vedo, accolte e commentate da autorevoli pensatori. Questa per me è già "felicità" , "audace desiderio degli umani", come riflette Antonio Spagnuolo. Ecco, il tema dell'audacia, è interessante pensare come possiamo considerarla un sentimento che presupponga coraggio, rincorsa, timori. E invece, come, a volte, sia qui, più vicina di quanto pensiamo, quasi accanto a noi e che possa bastare allungare una mano e sfiorarla, per trarne forza.

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  2. Un discorso esauriente, molto ben argomentato quello di Anna Maria Pacilli per considerare cos'è e da che cosa può dipendere la felicità. Ci sono molte congetture, rispettabili punti di vista scientifici e filosofici su cui riflettere.
    Per me la felicità è rappresentata da un subitaneo senso di soddisfacimento, di pienezza, Vale l'istante in cui si ottiene, e/o si prova una forte piacevole emozione, un non so che di desiderato, di super gradito. Esempio: ad uno come me che tende a considerare spesso il domani in modo inquietante; ecco, se si presenta qualcosa, al limite donato anche dall'esterno, che può dare speranza al futuro, allora si prova un senso dolce di benessere e chiedo cortesemente alla Pacilli se è corretto identificarlo con la felicità.
    Sarebbe stato per me molto più semplice fare riferimento alla “Felicità come Amore”, per l'evidente nesso che corre tra i due sentimenti, ma come accade spesso negli ultimi tempi mi sono complicato la vita.
    Ubaldo de Robertis

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    1. Carissimo Ubaldo, tutti prima o poi ci complichiamo la vita ( se non sono altri a complicarcela...). Il benessere, credo, sia uno stato molto più pacato della felicità, ma, forse per questo, se ne esistano i presupposti, anche più duraturo. L'esistere bene ( ben-essere) può derivare, come ritiene Ubaldo, da un dono esterno, che si intreccia con il nostro bene interiore, arricchendolo. O da noi stessi, che impariamo a trarre gioia dal bene esterno. La felicità, per sua natura caduca e transeunte, ci sorprende, ci illumina, rischiara i nostri momenti (più o meno lunghi) di buio interiore, ma per sua natura caduca e transeunte, la paragonerei più allo scoppio di fuochi d'artificio, che ad un faro sicuro nella nebbia.

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  3. Vasto panorama interdisciplinare, percorso in lungo e in largo. Una molteplice interazione di punti di vista intorno al fenomeno della felicità e le sue radici nascoste e, forse, indicibili, non riducibili a contenuti convenzionali, massificati a scopo di controllo sociale e induzione a consumi vari. La felicità è quella di ogni-uno ed è, al di là del vissuto immediato di situazioni quotidiane positive, uno stato della coscienza.
    Il termine "felix" riporta a "felis", e forse ad una assunzione simbolica del carattere felino. Ma sì, giochiamo con le parole.. Il felino preda ma non è predato, e sa cogliere l'istante in cui tutto il suo si decide. "Carpe diem", cogliere l'attimo fuggente in cui la verità dell'essere viene allo scoperto, un sentimento fulmineo di pienezza interiore che può essere erroneamente associato ad eventi abituali che la ripetitività fissa nei circuiti neuronali e rende così esclusivi di tutto ciò che da essi esula. Forse la felicità è l'istante di follia che ci sorprende aprendo un varco nello spazio chiuso dell'ormai maniacale circuito quotidiano - oppure la certezza che tale sconvolgimento passi lontano da noi. Oppure?
    Vito Lolli

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    1. Interessantissime riflessioni...mi soffermerei sulla Follia che diventa quasi Felicità e libera dagli affanni, come voleva Erasmo da Rotterdam

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  4. Splendida la disamina della Dottoressa Anna Maria Pacilli sul senso della felicità. Ci illustra la possibile fonte di questo sentimento che rappresenta l'apice dell'umana ambizione e ci coinvolge in una serie di ipotetici sentieri per arrivare a sperimentare lo stato di felicità.
    Per quanto mi riguarda coltivo una tesi alquanto bislacca, quella della doppia felicità. Da passionaria della vita mi sono convinta che esiste la possibilità di sperimentare la 'felicità facile', ovvero quella che ci consente di sperimentare emozioni purissime e uniche e 'la felicità difficile', relativa ai momenti di dolore, che rappresentano una sorta di stanza d'accesso alla gioia. Soffrire può divenire il metro di misura per valutare esattamente la gioia. Dovendo sposare una corrente mi attrae l'epicureismo, secondo cui il la felicità é il fine e il principio di una vita beata, l'obiettivo verso cui ogni individuo orienta la propria azione. Epicuro distingue tra il piacere effimero , con il quale identifica la gioia e quello stabile, definito, per via negativa, assenza di dolore. Il secondo fine, a mio umile avviso non si identifica con il lampo abbagliante della felicità, ma come l'obiettivo del saggio. Non appoggio Epicuro quando sostiene la necessità del 'razionalismo etico, ossia di un sapiente controllo sulle emozioni, perché mi sembra che attui un calcolo della felicità. E se esiste un sentimento scevro da calcoli é proprio la felicità. Grazie per avermi fatto riflettere su questi principi... Un caro saluto a tutti!
    Maria Rizii

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    1. Ringrazio sentitamente la dott.ssa Rizzi per le belle parole dedicatemi ma soprattutto per avermi fatto riflettere sulla "doppia" felicità...è proprio vero che i cassetti della mente e del cuore ci rimangono per lo più inesplorati.

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  5. Penso che la felicità sia uno stato soggettivo, il quale dipenda molto dal vissuto personale. Dalla quantità delle volte in cui il termometro individuale abbia toccato e oltrepassato la soglia del dolore. In questo momento, all’età di 65 anni, io, posso affermare: intanto, che la serenità sia l’anticamera della felicità, che per il suo raggiungimento, sia opportuno aver maturato un discreto equilibrio. E che essa sia l’elemento indispensabile per affrontare e superare nei limiti del possibile, gli ostacoli onnipresenti nel nostro percorso.
    E che il nostro incontro con la felicità avvenga proprio nello spazio temporale, che intercorre, tra un ostacolo e l’altro.
    Una pausa, un momento di respiro, in cui, superata l’angoscia, ha inizio la fase del “sentire.”
    Quella fase preziosa in cui riusciamo a mettere in moto tutti i sensi
    e “sdraiandoci sulla schiena del mondo” ci apriamo ad esso.
    Pronti ad essere inondati da questo breve ma intenso flusso benefico che ci ritempra e ci ricarica.

    Mi complimento con l’autrice Pacilli per questo interessante ed esauriente saggio.
    Serenella Manichetti.

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    1. Grazie dott.ssa Menichetti. Imparare a "sentire" non è così scontato, come evidenzia Lei, ma spesso lo si acquisisce con l'esperienza

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  6. Anna Maria Pacilli ci fornisce uno stimolante e ricco riepilogo delle principali correnti di pensiero che si sono interessate della "felicità" nel corso della storia dell'uomo, e lo fa riportando con acribia e levità di scrittura le voci più significative che se ne sono occupate a livello letterario e filosofico, antropologico e psicologico, psicoanalitico e scientifico, mostrando una competenza davvero sorprendente. Il suo non vuole essere tuttavia un arido elenco e percepisco gradevolmente l'intento di favorire una linea di pensiero costante: quella che identifica la felicità con l'amore e l'amore con un progetto, con una ricerca, con una sfida, se vogliamo, che punta alla pienezza facendosi carico della limitatezza, della mancanza, dell'insoddisfazione. Si potrebbero e dovrebbero dire molte cose sull'amore, a partire dalla considerazione che esso è innanzitutto "amore di se stessi": la "filautia" degli antichi filosofi (che non è l'amor proprio dell'egoismo), confermata dal detto evangelico: "Ama il prossimo tuo come te stesso". Ha ragione Lévi Strauss a sostenere che l'amore è equilibrio. Esso è felicità, ma al tempo stesso sacrificio, sofferenza. Le due cose non sono mai scindibili tra di loro, mentre la storia della civiltà, vuoi nei suoi aspetti materialistici vuoi nei suoi aspetti ascetici, non ha fatto altro che costruire artifici e tecniche per tentare di sfuggire al dolore. Sta qui l'uscita dall'Eden, in questa discriminazione tra il Bene ed il Male che invece sono e dovrebbero restare strettamente uniti tra di loro. Ricordo di avere letto e presentato molti anni fa un libro che mi impressionò tantissimo del Senatore Antonio Bolettieri: "La felicità assente", edito da Armando nel '95. Scopo del libro - uso le parole dell'autore - era "di riportare dall'inconscio alla luce della coscienza una legge della natura umana provvidenzialmente equitativa, tale da produrre nel tempo un perfetto equilibrio tra il sentimento della felicità e il sentimento dell'infelicità". Il Bene ed il Male sorgono dal medesimo ceppo. Unica è la radice del tormento e del gaudio. Il bimbo che nasce urla di gioia e di dolore. Ringrazio Anna Maria Pacilli per queste benefiche riflessioni.
    Franco Campergiani

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    1. Ringrazio il dott. Campergiani. è assolutamente così: gioia e dolore hanno radici uniche: anche anatomicamente le fibre nervose che li trasportano sono le stesse. Quella che varia è la nostra soggettività del percepito e l'intensità della sensazione stessa

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  7. Un apprezzabile lavoro compilativo-divulgativo di introduzione al tema, affrontato sia sul versante filosofico-letterario che su quello neurofisiologico.
    Un ottimo punto di partenza per dialogare sull'argomento.
    Complimento alla dottoressa Pacilli.

    Luciano Domenighini

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