Guido Zavanone: Lo sciame delle parole. Poesia di una vita. Interlinea
Edizioni. Novara. 2015. Pgg. 350. € 20
In altra occasione ebbi a scrivere su Guido Zavanone: “Fenollosa Ernest
Francisco affermava che la poesia è l’arte del tempo. Perché riportare tale
affermazione. Perché il tema del tempo ha una funzione determinante nella
poesia di Zavanone. Non solo da un punto di vista del memoriale, ma soprattutto
da quello della realtà contingente: hic
et nunc. In lui l’ieri, l’oggi e il domani si embricano indissolubilmente
per dare energia espansiva al suo poema. È cosciente del tepus fugit Zavanone. E la realtà circostante la vive come
frammento del suo essere mortale e degradante. Ma dall’altra parte sente
l’urgenza di farne un accadimento perpetuo, di vincerne quel sapore di
caducità, ricorrendo all’idea di arte/poesia; per proiettarsi oltre il breve
tratto della vicenda umana. Oltre lo sfacimento degli autunni; per accostare le chant d’un chardonneret che sa tanto
d’azzurro…”. Iniziare da questo frammento testuale significa avvicinarci il più
possibile allo spirito poetico di Guido Zavanone di cui il libro in questione
segna, in maniera diacronica, le tappe fondamentali. Un testo corposo, di ben
350 pagine, che, dato alle stampe nel 2015 coi caratteri di Interlinea
Edizioni, si presenta come tomo di grande fascino per la sua essenzialità
editoriale ma soprattutto per il fatto che riporta a memoria volumi di grande pregio
e di invitante livello contenutistico; consuntivo, nostos; il viaggio di una
vita che ci pone di fronte alla valenza del poeta genovese, allo spessore del
suo linguismo, alla polivalenza del suo verso e al proficuo entusiasmo per la
scrittura. Sì, proprio così, una vita, un redde rationem, con tutto il suo
rocambolesco andirivieni di sogni, di aspirazioni, di illusioni, delusioni,
saudade, amore, memoriale e ignoto:
“Vorrei cavalcare l’ignoto/ e come un cavallo alato/ allungare il collo nel
vuoto/ nel mai esplorato/…”. Ma quello
che più di ogni altra cosa incide sulla sua poetica è la coscienza della
fragilità del vivere; dell’esistere in questo mondo che lascia infiniti perché
irrisolti e irrisolvibili. Tutte le questioni dell’esser-ci vi sono
contemplate: abbrivi edenici, sobbalzi esistenziali, riflessioni ontologiche,
scottature emotivo-vicissitudinali; e fughe verso l’oltre, verso una vetta da
cui il Poeta possa abbracciare “… la (tua) sua croce nera/ che affonda nella
terra riarsa/ e nel limpido cielo”. Una vera spinta verso l’alto per sottrarsi
alle deficienze della condizione umana: “Tu cercavi soltanto/ un sorriso e lo
trovi/ nella foto sbiadita/ della lapide accanto”. Ed è proprio così: il fatto
che più inquieta è il rapporto fra l’uomo e l’infinito; fra l’uomo e la
scadenza di una storia; fra l’uomo e le aporie del viaggio: “…/ Perché
fratello,/ non è una montagna felice/ da salire cantando tenendosi per
mano,/ una montagna di rocce, d’abissi,
d’agguati,/ dove l’aria ti manca/ nessuna corda che ti possa aiutare/ e sulla
vetta ad attendere forse/ null’altro/ che un cielo chiaro”; dacché non sempre
la religione può sopperire a tale travaglio, per cui, spesso, si ricorre alle
memorie per costruire un mondo virtuale, vero, più vero del reale nel tentativo
di prolungare magari il fatto di esistere o di trovare un rifugio alle
sottrazioni della quotidianità: “L’anima (se esiste)/ l’immergerei nella
fontana della/ ritrovata giovinezza/…”. D’altronde la poesia non è mai solo
realtà fenomenica; non è mai solo il prato, il mare, il colle, l’arancio di un
tramonto, o l’oro di un’alba. È essenziale che queste configurazioni si
traducano in immagini, occorre che restino in animo a decantare per ri-farsi
vere, vogliose di ri-vivere. Tutto deve passare dal serbatoio dell’anima; tutto
deve essere intinto nel calamaio del nostro esistere: “Lungo i sentieri
squallidi del tempo/ già si spengono i fuochi e s’allontana il canto/ delle
dolci fanciulle./ La grande notte passa e nel suo volo/ l’ombre dei
morti”; quei sentieri, quei fuochi o
quelle ombre devono farsi corpo dei nostri frammenti di vita; devono essere
commisurati al tempo che fugge irrimediabilmente; un repêchage continuo a corpo
a corpo con la voracità della clessidra. Questo, tutto questo è nella poesia di
Zavanone che, pur partendo dalle piccole
cose, dai piccoli accidents o dagli odeporici messaggi, sa elevarsi
all’universale; sa oggettivare ogni sensazione
che si fa parte di un tutto in cui ognuno di noi si ritrova, ricorrendo,
anche, in maniera estremamente simbolica, al mito dei miti, sempre e
estremamente attuale: “…/ Alla soglia della luce/ Orfeo si volterà, perderà per
sempre/ l’amata Euridice./ Serberà il canto”, quello che, nell’animo
dell’Autore, può farsi eterno. Opera
vasta in diacronico movimento: Lo sciame
delle parole. Poesia di una vita, il
titolo. Un titolo emblematico e risolutivo; un’opera di grande forza
comunicativa, dove il verbo, trattato con tutti i crismi epigrammatici e
euritmici, diviene corpo indissolubile della storia del Poeta; elemento
portante, fiore profumato in piena fioritura dopo una lunga fecondazione su
terricci sapidi di vita: la cultura, il senso dell’estetica, la profondità
psicologica, il culto della parola, l’amore per il poièin, lo studio, la
riflessione, l’inquietudine, la ricerca della luce, del bello, del verso
compatto e plastico sono gli ingredienti di un excursus antologico che,
partendo da LA TERRA SPENTA, si protrae fino all’ultima silloge inedita ULTIME.
Ed anche se i tasselli dell’esistere sono tante stazioni di una via crucis;
anche se alla fin fine permangono dubbi e insoluzioni, quello che sembra primeggiare
in questo percorso è una dolce illusione di memoria foscoliana: affidare tutto noi
stessi al canto nella speranza che vinca le ristrettezze del giorno, la
futilità del nostro soggiorno, per prolungare una storia oltre i limiti dei
nostri orizzonti:
Come ti ha cambiato il
tempo,
mio piccolo usignolo!
Di te è rimasto soltanto
il canto
che accompagna il tuo volo (Il tempo e il
canto).
Sì, il
canto e il volo.
Nazario
Pardini
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