Maria Rizzi collaboratrice di Lèucade |
Umberto Ceri collaboratore di Lèucade |
La
lirica di Umberto Cerio introduce in uno dei temi più inflazionati della
letteratura e della poesia. Basta pensare ai Poeti Maledetti, al grande
Baudelaire, che recitava”Uomo libero / amerai sempre il mare,/il mare è il tuo
specchio,/ contempli la tua anima /nello
Svolgersi
infinito della sua onda”… Ma il nostro Autore
evoca nei suoi versi il mare quando brucia:
“Ho sempre ascoltato i tuoi canti
e l'urlo delle tue bufere
che erano gli urli ripetuti
di mille marinai disperati
imprigionati a gomene e sartie,"
Un
cantico per gli uomini del mare, partiti con i rami d’ulivo e le spose chine
sui rosari a pregare. E un’esegesi dei cicli di questo scrigno d’infinito
mistero, dei suoi tramonti ‘di alghe e di rosse lame del Sole’; del suo
ribollire feroce, quasi a ricordare a noi uomini che
non
v’é difesa dalla rabbia della natura.
L’Autore nei versi, di rara, intensa musicalità, lascia che il ricordo
dell’urlo della burrasca divenga allegoria del tempo passato, e dei sogni di un
tempo nuovo da vivere, che non è arrivato:
“Mi sono perso nelle tue falèsie
alla ricerca di scomparse
sirene tra i tuoi flutti sacri
e di cielo e di folgori e d’alberi,
senza più un ritorno di alcioni
e d’augurali colombe di pace.”
Umberto
Cerio ripercorre le storie di sempre, di tanti di noi… E insegue il mare con
una proposta di varietà , scendendo dalla vastità alla restrizione e compiendo
il percorso inverso… Ci riporta ai miti nati dal mare, come quello di Odisseo e
del suo viaggio, metafora di troppe avventure, di storie che si ripetono, senza
il sapore della leggenda; e vola sulle ali dei gabbiani, che per dirla con
Cardarelli “vivono balenando in burrasca”.
L’Autore
ha voce inarrestabile, così dannatamente simile al mare. La sua risacca, il suo
respiro è inarrestabile; la sua nostalgia violenta nutrita di sdegno, tenerezza
e ribellione, sulla cresta dei versi porta i relitti del nostro esistere verso
un inaccessibile lido: la poesia del futuro.
Maria Rizzi
MARE
Ho sempre ascoltato i tuoi canti
e l'urlo delle tue bufere
che erano gli urli ripetuti
di mille marinai disperati
imprigionati
a gomene e sartie,
mio
mare, che sorprendi ad ogni sguardo,
che
giochi d’azzurro e di verde.
Erano
dolci alla sera i tuoi canti
e
l’anima si ubriacava nell’aria
di
alghe e di rosse lame del Sole
quando
si immergeva nell’Ovest.
Ed era
selvaggio delle tempeste
l’urlo
pauroso nelle scogliere
che
declinavano al Nord della morte:
l’urlo
delle tue bufere oscure
che di
luce tagliente abbagliavano
e
d’ombra riempivano il cuore.
Eri ai
lampioni del molo basso
della
darsena solitaria
e
schiaffeggiavi una barca impazzita.
Così
ti ricordo una volta
che
bianca la strada scopriva
il
passaggio di una stella cadente.
La
stella polare mi sospingeva
oltre
scogli ch’erano dure note
della
tua voce mai stanca.
Spesso, al canto delle tue perle,
mi
sono perso nelle tue falèsie,
culla
d’umanità e tremito
di
luci con sapore d’eternità
scesa
nei miei occhi d’erba salmastra
a
scandire il terrore del cuore.
Le tue
parole nascoste e folli
erano
linfa del pugno chiuso
che
stringeva certezze e speranze.
Mi
sono perso nelle tue falèsie
alla
ricerca di scomparse
sirene
tra i tuoi flutti sacri
e di
cielo e di folgori e d’alberi,
senza
più un ritorno di alcioni
e
d’augurali colombe di pace.
Spesso,
al volo dei tuoi gabbiani,
e nei
tuffi dei tuoi delfini
mi
sono perso nelle tue falèsie
con
dolcezza di suono d’arpa.
Al volo dei tuoi eterni gabbiani.
Ho trovato consunti resti d’uomo
legati
a relitti sperduti,
e
illividiti corpi di suicidi
nelle
maree invernali e fredde
di
notti sconfinate e solitarie.
Ho
temuto scirocco e maestrale
e
rotte sconosciute senza stelle
e
lunghe carovane di paranze
come
girovaghe costellazioni
in te
precipitate con lentezza
di
cielo alla ricerca di antichi
argonauti
in te allora sperduti
per
maleficio di maga tradita.
Ho
trovato corpi di annegati
per
amore e per oscuro delitto
nel
loro ultimo grido disperato,
che
ancora guardavano alle stelle
dell’orizzonte
arcano della vita.
E carovane d’ombra e di delirio.
Senza fughe e senza illusioni
ho
vissuto le tue solitudini,
una
per una, e amandole
le ho
riconosciute amiche,
anche
qui, nel minuscolo Adriatico,
che ad
occhio posso vedere
nel
vento delle tamerici
e nel
colore delle ginestre,
lontane
come le colline
dell’infanzia
e della mia giovinezza.
Le tue
solitudini amare
e le
dolci solitudini antiche
sulle
quali passarono lenti
i
canti della nostra esistenza,
le
parole di oracoli divini
sono
ancora fuoco vitale.
Ho navigato le profondità
di
Grecia e di Fenicia antica
sulla rotta
di mitici naviganti
che ti
cantavano inni e preghiere
per il
ritorno e gli amori lontani.
Ho
vissuto il canto di Orfeo,
d’amore
e di dolore, e il pianto
sconsolato
delle Driadi,
il
pentimento di Attis e la furia
di
Cibele che sguinzagliava il leone,
infinito
di Ecuba il pianto,
e di
Omero il canto immortale.
Non
rapaci avvoltoi su quel cielo,
ma
dalle cime di arida roccia
maestoso
d’aquile il volo:
l’eterna
danza della morte
rispecchiata
negli occhi della preda.
E
l’antica cantilena del coro,
che
ancora gli empi ammonisce
e
sentenzia pene e condanne.
In te il lungo viaggio di Odysseus
che
vide le sirene e Polifemo,
ch’ebbe
la maga e la dea di Ogigia
che
invano gli offrì l’immortalità.
In te
le avventure e le stragi
di
mostri e giganti e la vita
del
sole e degli astri nel tuo specchio
segreto
e incantato e la luna.
Vascelli
affondati nella notte
delle
diomedee, sulla rotta
dell’arcipelago
delle Tremiti
pei
gemiti dell’eroe impazzito,
e
l’urlo dei pirati illiri
e il
rantolo dei naviganti
con le
alghe negli occhi e nella bocca.
Dentro i tuoi solchi tutte le leggende
del
Mediterraneo antico
e
degli oceani sconosciuti
e le
incendiate navi nelle guerre
infami
assurde e sconvolgenti.
Nelle
tue bianche scie serene
il
riposo e degli uomini la gioia
di
un’ora o di un’intera vita.
Su di te non vive mai spazio
che
non sia infinito e lontano,
ed il
tempo in noi eterno entra
e
solitario a dirci l’amore
la
danza lenta con passi segreti
i
tremori ed il battito dei giorni,
le
tentazioni della vita
e il
palpito stupito della morte.
Portiamo i tuoi silenzi in cuore
che
amara sveleranno la fine
del
tuo singhiozzo e del mio canto.
Delle
tue ombre il fascino arcano.
E
vergine l’attimo iniziale
- e
lento l’attimo finale -
resterà
sul filo della tua luce;
sospeso
il tuo sigillo d’oro,
e la
lama atroce delle memorie.
Umberto Cerio
Grazie, Maria, per questa che è più di una semplice presentazione di "MARE". Il tuo commento, sapido e preciso, coglie con sentita adesione i motivi che mi hanno spinto a scrivere questo poemetto, composto da alcuni anni, quando il mio animo era più giovane. Hai colto, con la dote di ermeneuta che spesso ho colto nei tuoi commenti, tutte le inquietudini e le dolcezze della solitudine della storia e dei miti che ne sono i motivi ispiratori, per di più con le "tue" metafore che ne hanno rivelato e completato anche il senso recondito. Il tuo commento mi giunge davvero gradito.
RispondiEliminaUmberto Cerio
Questo che a me appare come un colloquio con il mare è in realtà un monologo. Ma poiché il poeta si rivolge a un destinatario -il mare, appunto-, presenza peraltro incombente in questa composizione che ha la lunghezza del poemetto e il passo della lirica, mi sembra appropriato usare il termine colloquio. E, chissà perché -forse per via delle “bufere”del secondo verso- ho subito pensato al Carducci del “patrio, selvaggio, urlante mare” e all’ “iracundior Hadria” oraziano, cioè all’Adriatico che poi è il (primo?) mare di Cerio.
RispondiEliminaMa, venendo alla poesia, colpisce questo viaggio della memoria, sapido della più attuale classicità e della più fervida e partecipata contemporaneità. È un viaggio nell’immensità degli spazi marini, in epoche umane selvagge, eroiche, leggendarie, belle e feroci, nel tempo fantastico della storia, nella variegata geografia dei miti. E la rievocazione avviene per scarti di varia intensità, che talvolta connotano il testo di qualche punta dolorosa, anzi addirittura tragica. Perché il mare è bello e terribile e quegli “illividiti corpi” di morti annegati richiamano, per la loro icasticità, certi passaggi di “Death” di Eliot o de”Le bateau ivre” di Rimbaud. È un potente affresco questa interpretazione poetica del mare offertaci da Umberto Cerio. Al quale vanno i miei complimenti, che estendo a Maria Rizzi per le sue penetranti intuizioni.
Pasquale Balestriere
Storia, mito, fantasia, realtà, emozione, patema esistenziale, sofferenza e vicissitudine, vita e cultura: tanta cultura, immenso patrimonio umanistico, rievocazione di leggende e odisseici travagli in cerca del sapere; un impasto di tutti questi ingredienti per simboleggiare col canto poematico una quotidianità che affoga i suoi valori in mari senza confini; corpi galleggianti che ci condannano coi loro lividi; fughe di uomini in cerca di libertà, di dignità, come da antico sempre si è ripetuto. Il mare! Quanta storia! Quella che Cerio ci liricizza con picchi di forte intrusione emotiva. Sì, quel mare che secondo i grandi ha sempre significato spazio indefinito, orizzonte a cui l'uomo aspira per ovviare alla sua caducità; volo oltre colonne, verso marosi che ci rendono orgogliosi della sfida; coscienti dei nostri limiti: nostos, nostoi, azzardi, abbracci di mondi che ci fanno felici dacché contengono la materia prima della POESIA. Questo è Cerio; questo il suo canto: un inno alla vita in tutta la sua plurale polivalenza: amore, scottature, lungo viaggio verso rotte che lasciano: "la lama atroce delle memorie".
RispondiEliminaComplimenti amico per il tuo fulgido poemetto.
Nazario
Dice bene Pasquale Balestriere, con i suoi felici rimandi ad Eliot e a Rimbaud, che quello di Umberto Cerio è un “potente affresco” del mare. E io aggiungo che la potenza dell’affresco viene di volta in volta declinata, dal poeta, nell’epica tenacia dei personaggi omerici o nella possente, divina bellezza di quelli di Michelangelo; nell’onirica, sognante leggerezza delle atmosfere ariostesche, o ancora nel dramma, nella disperante sconfitta dei “vinti” di Verga. Ed ogni volta la resa lirica della rappresentazione sconvolge o appassiona, annichilisce o esalta, in un’altalena di emozioni contrastanti che ci restituiscono l’essenza stessa della poesia. Nel suo poemetto Cerio canta la natura sacra del mare, essenza intesa come azzardo e mistero, scommessa e fede, naufragio e terra promessa. Una visionaria, favolosa rappresentazione, che scandisce i sogni dell’uomo: fuga, coraggio, fantasia, volo, conoscenza, libertà; o che, di converso, segna i confini invalicabili dell’esperienza e della ricerca: sofferenza, paura, violenza, resa, tradimento, morte. Un viaggio nel tempo e nello spazio in cui mito e racconto, leggenda e storia, fantasia e realtà, come gioiosamente nota Nazario Pardini (per il quale il poemetto di Umberto Cerio rappresenta un sontuoso invito a nozze…), si contaminano a vicenda, si fondono e si confondono. Una fantastica rivisitazione, quella compiuta da Umberto Cerio, dell’umana avventura, di questo misterioso e periglioso cammino, di cui il mare è testimone privilegiato. Solo che il mare di cui Cerio è nobile cantore non è ormai che solo un ricordo, rimpianto, nostalgia. E’ quel mare che, nella illuminante trasposizione di Maria Rizzi, è anche, baudelerianamente, il mare-specchio e il mare-anima dell’uomo libero. E Umberto Cerio canta, del mare, in particolare quel “Mediterraneo antico” custode di “tutte le leggende”, il mare dalle “bianche scie serene”, quello dei Fenici e dei Greci (ma anche il mare degli Iapigi e dei Messapi, quello estremo e profetico di Enea…), e soprattutto il mare del sempiterno Ulisse.
RispondiEliminaProprio per questo io avverto e “leggo”, nel poemetto di Umberto Cerio, uno straziante grido di dolore, un senso di disfacimento e di abbandono: l’angoscia e lo sconcerto per quel mare ormai per sempre sparito, quel Mediterraneo che è stato “culla d’umanità e tremito / di luci con sapore d’eternità”, e che ora invece nasconde “consunti resti d’uomo / legati a relitti sperduti”; quel mare “senza più un ritorno di alcioni / e d’augurali colombe di pace”.
Umberto Vicaretti
Non è facile trovare parole per commentare le lusinghiere note di Pasquale Balestriere, Nazario Pardini e Umberto Vicaretti e partecipare a un dialogo nel quale quelli che io considero tre fra i più significativi poeti contemporanei interagiscono con piglio di validissimi ermeneuti, per commentare una mia poesia, non so se all'altezza della loro bravura di critici. Certo è che le loro note non solo hanno colto nel segno delle mie scelte di fondo e dei connotati ispiratori presenti nel mio poemetto sul mare (per celebrare la sua sacertà) al quale ho affidato il senso della varietà e della vastità della vita, nel bene e nel male, nella bellezza e nelle bufere che hanno giustamente ricordato a Pasquale Balestriere la via del senso di qualche verso carducciano e dell' "iracundior Hadria" di oraziana memoria. E dice il vero, con grande maestria, quando afferma che si tratta di "rievocazioni di varia intensità....che connotano il testo di qualche punta dolorosa". Sulla stessa lunghezza d'onda si muove la nota sapiente e sapida di Nazario Pardini, che da par suo nota come "storia, mito, fantasia, realtà, emozione, potenza esistenziale, sofferenza e vicissitudini" e molto altro ancora sia presente nella visione del mare, perché il mare veramente "ha sempre significato spazio indefinito, orizzonte a cui l'uomo aspira per ovviare alla sua caducità". E Umberto Vicaretti rincara la dose quando afferma che "nel poemetto" si "canta la natura sacra del mare, essenza intesa come azzardo e mistero...sofferenza, paura, violenza, resa, tradimento, morte". E che il mare di una volta oggi quasi non esiste più e che le leggende ad esso legate rischiano di scomparire per sempre.
RispondiEliminaSicché io sento la necessità e, perché no?, anche il piacere di ringraziarli, perché hanno chiarito ed ampliato i temi, le emozioni, le storie, il senso dei miti che, in "MARE", sono tutti presenti o in nuce o solo immaginabili nel bianco dei versi. E il tutto contenuto e conservato, come dice Nazario, riportando l'ultimo verso, ne "la lama atroce delle memorie".
Umberto Cerio
Vive di morte e muore di vita il mare. Fin dalle prime battute, il poema di Umberto Cerio ci immerge nell'incandescente tensione, tragica e dolce, dei flutti marini: l'urlo delle bufere e dei marinai dispersi, insieme ai "giochi d'azzurro e di verde" delle salmastre onde marine. Appaiono fantasmi di mitici eroi, avvolti in drammi mai spenti e in amori viventi tuttora. Nel mare c'è tutto, c'è l'inizio e la fine e si raccolgono tutte le voci. Nei suoi abissi sprofonda e riemerge l'intero vivente. Il canto di Cerio è un inno alla mutevolezza, alla cangianza, all'avvicendarsi della gioia e del dolore. Ma c'è di più: il paesaggio violento dove tutto s'avviva e muore, il campo di battaglia dove gli odi e gli amori si scontrano e si danno la mano, viene come assorbito in uno scenario più ampio, in quel senso di eterno suggerito dall'immensità del mare.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Grazie, Franco, per questo tuo commento, dove noti con efficacia e animo sapiente che "nel mare c'è tutto, c'è l'inizio e la fine e si raccolgono tutte le voci". Il tuo è un commento sapido che mi giunge gradito, perché ha il sapore della spontaneità e della condivisione insieme, soprattutto quando poi aggiungi che il mare ci offre "un paesaggio (anche) violento, dove tutto si avviva e muore" e ridona la vita. Grazie per aver inteso lo stato dell'anima.
RispondiEliminaUmberto Cerio