martedì 12 gennaio 2021

ORAZIO ANTONIO BOLOGNA LEGGE: "ELEGIA PER ME SOLO" DI RODOLFO VETTORELLO

PARALIPOMENI AD ALCUNE LIRICHE

TRATTE DA

ELEGIA PER ME SOLO

DI

RODOLFO VETTORELLO


Orazio Antonio Bologna,
collaboratore di Lèucade


Nella complessa e non sempre e del tutto articolata cultura, che ha attraversato l’Europa negli ultimi due secoli, la Poesia, pur nella sua profonda e, volte, stravolgente varietà, accampa certamente un posto di grande rilievo nella formazione del cittadino. A questo mezzo espressivo, le radici prime e più profonde del quale affondano nei primordi dell’umanità, l’uomo, in un primo tempo per trasmissione orale e scritta in un secondo tempo, ha da sempre affidato i moti più svariati del suo animo. Sono, così, nati i vari metri e i numerosi generi letterari, che oggi, sebbene spazzati via da necessarie e inevitabili innovazioni, rimangono ancora saldamente legati nei meandri dell’animo, mentre rivive e veicola quanto gli urge nel cuore. L’iter della Poesia è lo stesso dell’Uomo e delle sue più alte conquiste spirituali prima civili o sociali poi: ogni poeta con la sua unica e irripetibile esperienza spirituale ha sempre contribuito al progresso del coetaneo, alla conquista della sua indipendenza morale e politica. Sotto questo aspetto le grandi voci della Poesia negli ultimi due secoli prima son diventate interpreti dei fermenti, che agitavano i vari popoli, e, successivamente, guide spirituali di quanti erano in grado di accogliere l’arcano messaggio celato sotto le parole, all’interno della composizione lessematica, metrica e strofica.

Si dice, e a torto, che oggi il Poeta non usi la metrica e molti, che non hanno benché minimamente approfondito la grande stagione della lirica greca, latina o italiana, si sbracciano a vantare successi e conquiste fondati sul nulla. Soggetto a metrica, a misura ritmica, è, infatti, tutto ciò che sgorga dall’animo nel momento, nel quale, unendo in modo idoneo alcune parole, l’uomo dà vita a un pensiero attinto dalla sua sensibilità, dalla sua riflessione, dalla sua vita reale.     

La metrica è condizione necessaria per la poesia, nella quale deve esserci perfetta rispondenza tra ritmo ed espressione verbale. Dire che un poeta non adoperi la metrica cosiddetta classica non si vuol assolutamente dire che sia del tutto svincolato da questa, la presenza della quale è avvertita anche nelle cadenze della prosa.

La metrica, come si sa, è una convenzione umana, che ha raccolto in schemi ben definiti ritmi, che, altrimenti, non avrebbero avuto senso di esistere. Per il tramite di questi ritmi a noi sono giunti capolavori, che hanno formato generazioni di grandi Poeti. E tutti, in un modo o in un altro, hanno dovuto affrontare l’esametro di Omero, la pur frammentaria lirica di Archiloco e di Saffo, la grande produzione di Catullo e di Orazio, i quali, maestri indiscussi e insuperabili, hanno offerto esempi impareggiabili di stile e di espressione, un aureo equilibrio tra contenente e contenuto.

Esaminando l’ultima raccolta di Rodolfo Vettorello Elegia per me solo non si può passare sotto silenzio la grande stagione dell’elegia romana, che Quintiliano riconobbe tota nostra, tutta e solo latina, anche se i Greci le avevano dato un impulso non indifferente, perché, a differenza dell’esametro epico, si presta a cantare i diversi, e contraddittori, aspetti della vita. È, l’elegia, il componimento più adatto per esprimere i diversi moti dell’animo, pur nella differenza dell’ispirazione e dell’indole del Poeta.

L’elegia, come genere letterario, trova pieno riscontro nelle lamentazioni, tanto diffuse nel Vivino Oriente. Per non dilungarmi troppo, cito solo il Salmo 50 della Bibbia, una dolorosa e fiduciosa composizione in distici, nella quale a un verso più lungo segue uno più corto. Il medesimo schema si trova nelle lamentazioni per la distruzione di Ugarit. Ma, avverto, il problema sotto l’aspetto metrico, non è semplice né facile da affrontare in un accenno frettoloso.  

A tutti questi Rodolfo Vettorello deve un debito, un senso di riconoscenza, anche se per il primo, e più importante, lessema del titolo si sarà, con ogni probabilità, ispirato a Pessoa o D’Annunzio o Lord Byron. La scelta, in ogni modo, non è casuale e invita il lettore a penetrare con il suo acume il grande e insondabile mistero della Poesia, dei fremiti che suscita, delle riflessioni, cui conduce il lettore, dei propositi che desta a vari livelli nella mente del fruitore.

Ma, a una lettura attenta delle liriche contenute nella raccolta, più che di elegia in senso classico si dovrebbe parlare di epicedio, perché ogni lirica contiene un frammento di vita, che con lo scorrere inesorabile e inarrestabile del tempo è destinato ad andare via, a finir, a non ritornare più. Come epigrafe alla raccolta si potrebbero collocare i mirabili versi tratti da Dei Sepolcri di Foscolo:

                    … e l’uomo e le sue tombe

     e l’estreme sembianze e le reliquie

     della terra e del ciel traveste il tempo.

Nella poesia di Rodolfo Vettorello, accanto alla profondità di pensiero e alla cura formale tanto del verso quanto della lirica, più che meditazione sulla natura e sulle sue vicissitudini, cui va necessariamente incontro, si trova la costatazione dell’ineludibile senso della fine, della Morte. Davanti a questa realtà, che sovrasta l’uomo e grava sulla sua testa come un macigno, il Poeta si china e riflette sulla rerum hominumque caducitas, che richiama il tanto eloquente quanto attuale assioma biblico: vanitas vanitatum, omnia vanitas.

Inserita in quest’alveo, la raccolta acquista una dimensione più ampia e rivolge un invito a riflettere sulla brevità e della vita umana e della variegata realtà, nella quale l’uomo, dotato di intelligenza e padrone dei suoi gesti e delle sue conquiste, è la parte più importante. Si evince dai pochi e fuggevoli accenni che l’Uomo, come artifex, ha modellato i luoghi che lo circondano, ma non è ancora riuscito a domare la Natura, della quale cerca di carpire i segreti, per piegarla al suo volere, alle sue necessità. E, nonostante le tante sconfitte, non si è ancora reso pienamente conto che è un essere molto fragile. Nel piegarsi su questa situazione sperimentata giorno dopo giorno sembra che Rodolfo abbia tenuto presente un’illuminante riflessione di Pascal: «L’uomo non è che una canna, la più debole della natura, ma è una canna che pensa. Non serve che l’universo intero si armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe comunque più nobile di ciò che l’uccide, perché sa di morire e conosce il potere che l’universo ha su di lui, mentre l’universo non ne sa nulla. Tutta la nostra dignità consiste, dunque, nel pensiero. È da qui che bisogna partire, non dallo spazio e dalla durata, che noi non sapremmo riempire. Impegniamoci quindi a pensare bene: ecco il principio della morale».

Il richiamo a Pascal è continuo nella silloge. E con questo volume Rodolfo Vettorello si inserisce nell’alveo della poesia contemporanea e vi si pone come un epigono, che molti dovrebbero tener presente per un rinnovamento radicale della Poesia, che in alcuni settori sembra che versi in una morta gora. Anche se inserito in un ambiente culturale ben definito e determinato, con i suoi pregi e i suoi limiti, Rodolfo cerca in tutti i modi di volgere la sua riflessione verso concetti intramontabili, fecondi di nuovi stimoli per la multiforme lettura e interpretazione, che offrono.

Certamente importante e fondamentale per lui è stata la scuola milanese con le sue esperienze innovative in campo strutturale semantico lessematico. Di questo ambiente di dotta e raffinata poesia continuamente proteso alla sperimentazione di nuove forme espressive Rodolfo ha scelto il meglio e lo ha seguito fino a staccarsene, senza abiurarne i sani e saldi principi fondanti.

Osservazione a parte merita la struttura metrica della produzione lirica, che, anche a uno sguardo superficiale, appare curata fino all’esasperazione: in uno stesso componimento, seguendo il moto del pensiero e del sentimento, si alternano vari metri, dall’endecasillabo al settenario e al quinario. Non mancano versi fratti, come i due che seguono, tratti da Le infinite agonie, la lirica che apre la silloge:

     Dio se mi ascolti,

                            lascia che ti dica

     che ti respingo.

                        Voglio che mi basti

     la mia coscienza libera e nient’altro.

Il terzo verso è costituito da un sonoro ed elegante endecasillabo, degno di essere collocato accanto a Foscolo o a Leopardi, a Carducci o a Pascoli. Sembra che in ogni lirica il metro preferito sia l’endecasillabo piano, cui, non di rado, segue il settenario o, con maggior predilezione, il quinario e il senario.

Come cultore della classicità, per gli spunti e le riflessioni, che offre, non posso passare sotto silenzio la seconda lirica, Le vele nere.

Il titolo, con la sottile allusione al mito, orrendo, secondo il quale gli Ateniesi, ogni anno, erano tenuti a versare a Minosse, re di Creta, come tributo sette ragazzi e altrettante ragazze per darli in pasto al Minotauro, introduce il tema della Morte, che, celata nei ricordi e nella rievocazione di luoghi e di persone, cui il Poeta era legato, costituisce il sottile e impercettibile tema di fondo. Nella calcolata sticometria della prima strofa, il Poeta detta il filo, che unirà le singole liriche dell’opera, con i seguenti versi, che rievocano il ritorno di Teseo, ormai vincitore, da Creta:

     Ha vele nere come la leggenda

     racconta a chi ti segue sulle tracce

     che vanno verso il filo dell’orizzonte.

 Teseo, secondo gli accordi presi col padre Egeo, in caso di vittoria sarebbe dovuto tornare con le vele bianche. Ma, ebbro per la vittoria conseguita, tornò ad Atene con le vele nere, con le quali era partito. Il padre, che lo aspettava in cima al Capo Sunio, un alto promontorio a picco sul mare, quando vide le vele nere, credette che il figlio fosse morto e per il dolore si gettò nel mare.

Il Poeta, però, nella breve e densa lirica non sviluppa il mito, ma mediante un dotto e pregno riferimento letterario rievoca nella mente del lettore non solo un insegnamento presente in ogni tempo, in tutte le stagioni della vita,  ma introduce con questo richiamo a una tragica realtà, al sempre attuale cotidie morimur, che trae le sue origini dall’antica sofia greca e da Seneca messo al centro delle sue opere morali. Lo spettro della morte con le sue vele nere è sempre all’orizzonte, perché, come continua il grande scrittore romano, cotidie enim demitur aliqua pars vitae, perdiamo ogni giorno un pezzo di vita. La perdita o, meglio, l’assottigliarsi della vita non riguarda una sola persona, ma tutti, grandi e piccini, perché hunc ipsum quem agimus diem cum morte dividimus, dividiamo con la morte il giorno che stiamo vivendo. Verità tremenda, come tremenda fu la dimenticanza evocata dal mito, vecchio, ma sempre attuale nella sua cruda realtà.

Il civis terrae, l’uomo che plasma il luogo dove abita secondo le sue esigenze, non è dalla natura destinato a rimanere per sempre tra suoi simili, ma al momento opportuno,

                       … al colmo della notte,

     approda alla banchina del tuo porto,

     con le vele nere dispiegate al vento,

     lo spietato veliero della morte.

La Morte nella meditazione filosofica pagana non è ingiusta: è da Orazio definita aequa, imparziale, perché, come canta il grande lirico romano, si presenta puntuale per tutti: Mors aequo pulast pede paupeum tabernas / regumque turris, la Morte si presenta imparziale al misero tugurio dei poveri e alle lussuose dimore signorili.

Chiamato dalla morte l’uomo ritorna per sempre nel grembo della grande madre, la magna mater, che durante la vita lo ha allevato, nutrito, visto crescere. Venuto alla luce dal buio del grembo materno, ritorna nel grembo della terra, la madre eterna e definitiva, ove regna il buio senza fine.

La lirica, che costituisce l’incipit del singolare florilegio, è pervasa di un tenue, appena percettibile pessimismo, rischiarato e fugato dalla magra consolazione di rimanere nel pensiero dei presenti, come Teseo del mito. Perciò il Poeta conclude con un endecasillabo, che, pur nella sua brevità, costituisce una strofa: E te ne vai così, come un pensiero.

Sorprende nella lirica, e invita alla riflessione, la presenza di pensieri, lessemi magistralmente collocati all’inizio del primo e alla fine del secondo verso, nei quali il Poeta insiste sulla più alta e importante facoltà spirituale dell’Uomo: il pensiero:

     pensieri neri intorno a te,

     velieri come spettri di pensieri.

A questa anafora, che chiude e racchiude la meditazione sulla tristezza e sula caducità del male di vivere, il lessema ritorna insistente alla chiusa della lirica: e te ne vai così, come un pensiero. Interessante e incisivo il poliptoto della studiata stesura e dimensione delle strofe e della metrica. Nella breve pericope riferita solo il primo verso, un ottonario tronco, l’unico in tutta la lirica, con chiusa bisillabica, interrompe la solita composizione monostica, costituita da endecasillabi solenni e ritmati, seppur velati di tenue mestizia.

Un’altra lirica, non meno intensa e pregna di amare riflessioni, Rodolfo Vettorello pone all’attenta meditazione dei suoi lettori: La buona morte (N. 2). I versi iniziali portano necessariamente a un ambiente culturale raffinato, che trova in Ungaretti un epigono di grande spessore per la concisa densità delle immagini scolpite nelle brevi liriche della sua scrittura poetica, che hanno infervorato ingegni di altissima levatura. Anche Rodolfo, suggestionato e conquiso dalla potente immagine ungarettiana, trasferisce nella lirica impressioni destinate a durare a lungo e a suscitare l’amara riflessione sulla incertezza e sulla caducità dell’esistenza. La vita dell’uomo già da Omero e Mimnermo è paragonata alla breve esistenza delle foglie spuntate sui rami degli alberi al sopraggiungere della primavera: il primo, infatti, vedendo come, durante una furibonda battaglia, gli uomini cadevano, uccidendosi a vicenda, così riflette: Come le stirpi delle foglie, così quella degli uomini: il vento ne scaraventa a terra alcune, altre la selva fiorente nutre allo spuntare della primavera. Così le stirpi degli uomini: nasce una, l’altra muore. Non differente è la triste meditazione del secondo: come le foglie, che nella fiorente primavera nascono e rapide crescono ai raggi del sole, noi, a quelle simili, per breve attimo godiamo dell’età fiorente e, per dono dei celesti, ignoriamo il bene e il male.

Giuseppe Ungaretti, profondo conoscitore ed estimatore della letteratura greca, mentre meditava i versi sulla caducità delle foglie e della vita, teneva certamente in mente i versi dei due grandissimi poeti greci. L’immagine, certamente veicolata da Ungaretti, trova in Rodolfo Vettorello non solo una dotta e pregnante reminiscenza, ma una ripresa non casuale del motivo della morte, divenuta fonte di speranza nell’insegnamento dell’escatologia cristiana, e non solo. Alla luce del magistero teologico, la Chiesa, e giustamente, dice: vita mutatur, non tollitur, la vita non è cambiata, ma trasformata come le foglie, che, una volta cadute, diventano nutrimento delle piante. Con la sua radiosa e provvida venuta la Morte schiude le porte della luce eterna, in vista della quale l’uomo vive sulla terra il suo travaglio quotidiano. Non sembra, almeno alla prima lettura, che Rodolfo abbia tenuto presente questa dimensione culturale, che ha caratterizzato due millenni di storia, di civiltà, di letteratura.

Il motivo delle foglie nella cultura contadina dell’Italia meridionale, profondamente imbevuta di classicità, è rimasto a lungo: non senza piacere, infatti, ricordo che io, bambino, alla fine di ogni anno, alla conta dei nati, il popolo diceva: «Quest’anno c’è stata una bella frondata»; a quella dei morti, invece, susurrava con amarezza: «C’è stata una brutta sfrondata». Lascio la considerazione al lettore.

La lirica di Rodolfo Vettorello, però, pur nella più alta e raffinata tradizione letteraria, si pone su un piano diverso: a differenza dei citati predecessori, non vede l’uomo nella sua statica attesa, ma in un monotono angosciante divenire, che informa la vita e la ingabbia in agglomerati urbani complessi e spersonalizzanti, mentre scorre tra i lunghi viali alberati, che sfociano senza fine in altri viali, con lo stesso ritmo, la stessa monotonia.

Alla nerboruta e tagliente lirica ungarettiana, prototipo moderno derivato da un’immagine antica quanto l’uomo, il Poeta inizia con un emistichio impersonale di grande impatto psicologico: si andrà via così. La lieve punteggiatura, il tempo di un breve respiro e d’una fugace riflessione prosegue incalzante, come il brano appena citato del Foscolo.

All’imitatio nella lirica di Rodolfo Vettorello va necessariamente sottolineata la variatio, che conferisce alla lirica maggiore ariosità e spersonalizzazione, per approdare, dopo potenti e suggestive evocazioni, ad una fine dolce e indolore, che ogni uomo, pur nell’incertezza, si augura di poter ottenere all’inevitabile e inarrestabile avanzare della Morte.

La similitudine delle foglie, presente nella brevissima lirica Soldati di Giuseppe Ungaretti,  

Si sta come

d’autunno

sugli alberi

le foglie,

trova ampio riscontro in Rodolfo Vettorello, il quale, nel riprendere il motivo, lo amplia in sonori endecasillabi e la colloca nel grigiore di un pallido autunno milanese:

       Si andrà via così, come d’autunno

       le foglie gialle ai platani del viale

       e se cadranno piano, aduna ad una

       non sarà troppo doloroso.

Nel filologo ed esegeta si accende una viva emozione, quando può confrontare una serie di testi, porli in parallelo, esaminarli e vedere come ognuno, secondo la propria formazione e lo stato d’animo del momento, agisce e reagisce davanti a un’immagine, che nella su realtà, è, in fondo, banale. A darle vita, e per sempre, è l’alata parola del Poeta, secondo una felice espressione epica più volte presente nei poemi omerici. Il confronto, lungi dallo sminuire la valentia del Poeta, ingenera il piacere della conoscenza, che lacera immediatamente la labile epidermide del dettato poetico, anche se nella sua compattezza si presenta come un monolite statico e compatto. La conoscenza allora si spinge al momento della genesi e ripete il movimento formativo, quando il testo viene composto prima nella mente dell’autore, e successivamente, deposto sul foglio per i posteri.

Si rivive in questo momento dell’indagine la stessa emozione e lo stesso godimento provati dal Poeta nell’atto stesso di concepire il pensiero e di concretizzarlo nella forma scritta, destinata alla fruizione. I diversi momenti creativi, opportunamente sollecitati e incanalati, consentono alla sensazione e al pensiero di prendere forma e sostanza col procedere tempo. In questo meccanismo spirituale si insinua il filologo, che cerca i momenti primi e fondanti di una genesi apparentemente lontana, ma viva presente operante nella psiche dell’essere pensante. Per cui subentra, in questo caso specifico, il concetto di arte allusiva, che emerge in tutta la sua evidenza nella menzionata lirica di Rodolfo Vettorello. Si considerino, per tal motivo, i versi di Vettorello come d’autunno / le foglie gialle ai platani e si mettano in relazione con quelli scarni e secchi di Giuseppe Ungaretti: Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie. L’accorto e fine lettore della poesia, al di fuori dell’usuale dendronimo platani e all’epiteto esornativo gialle, evoca immediatamente la fonte, dalla quale la più recente, e più ampia, lirica di Rodolfo attinge a pieni sorsi la linfa vitale, che, successivamente, diffonde e stempera in immagini e riflessioni, estranee al suo modello immediato.

Di quanto può evocare l’essenziale dettato della breve lirica ungarettiana, intristita dalla solitudine e dal timore di perdere la vita da un momento all’altro sugli aspri crinali del Carso, nulla manca in Vettorello, pur nella molle e velata mestizia di un autunno, quello della vita, che si avvicina implacabile. Alla fredda costatazione di Ungaretti, subentra un respiro più ampio, un ritmo più lento e rilassato, che prelude alla stanchezza, dopo un’estate piena di vita e di intime gioie, ormai finite e condensate nel giallo di una foglia avvizzita.

La lentezza e la rilassatezza sono rese dalle calcolate cesure, che frangono l’endecasillabo, e dal sentito e sospirato enjambement, che prolunga sensibilmente l’anelito di vita verso nuovi e inesplorati orizzonti. Ne deriva un movimento che ravviva con la sua pacatezza la semplice diposizione delle parole all’interno del verso, forgiato sulla migliore tradizione classica, e si spegne alla fine del sintagma poetico nella naturale coincidenza dell’accento ritmico con quello della parola. 

Questa energia condensata, con la quale Rodolfo Vettorello carica il proprio verso, sviluppa tutto il suo potenziale attivo tra il testo uscito dalla sua penna e quello evocato, mentre contempla dalla finestra i platani ingialliti nelle brume d’autunno.

Ma la lirica del nostro presenta altri argomenti, fecondi di stimolanti riflessioni, sebbene il tema costante della morte stenda un leggero e impercettibile velo di mestizia anche sull’intimità dei quadretti familiari. Il mio occhio si è all’improvviso fermato sulla pensosa lirica, intitolata E se si muore. Il Poeta ci porta nel suo ambiente vitale in un piovoso e incerto giorno settembrino. Agli improvvisi e densi scrosci d’acqua, tra le nubi, di tanto in tanto, filtra un rasserenante raggio di sole. Il Poeta pensoso ritrae il monotono scorrere della vita familiare, nella quale ogni persona e ogni oggetto occupa il suo posto. È l’interno di una casa normale: Maria cuce, ha appena messo una toppa su un fantoccio di Pinocchio, che il Poeta ha tra le mani; la cagnolina, spaventata dai tuoi, guaiola nascosta; una foto si riflette nello specchio. Quest’ordine richiama alla mente la poesia di Guido Gozzano, La signorina Felicita. In tutto questo ordine, che a una lettura superficiale potrebbe sembrare asfittico, Rodolfo Vettorello, senza abiurare alla poesia del Decadentismo, infonde un’anima nuova, un momento di rinascita e il senso della vita, colta nel suo scorrere. Emblematici sono i versi dell’incipit, che con la loro metrica ordinata e curata, aprono davanti al lettore una situazione familiare:

     Pioveva un po’ di sole,

     un raggio penetrante,

     un prepotente scroscio d’acqua

     di un temporale al colmo di settembre.

Il discorso diventa puramente comunicativo e trova il suo polo di tensione nella normalità di un discorso poetico a lungo meditato. Il ritmo, a mano a mano che tornano alla mente le immagini rivissute nella viva intensità, cresce: ai due settenari piani, segue un novenario, nel quale all’onomatopeica segue un lessema, d’acqua, che conduce la psiche del lettore verso i tenui orizzonti, dove si spengono i suoni prodotti dalla natura. Sebbene Rodolfo sia lontano dalla concezione panica della natura nel senso più ampio del termine, tiene, comunque, presente La pioggia nel pineto di Gabriele D’Annunzio; e, seppur da lontano, ne segue timidamente le tracce, per ritornare subito nel chiuso del suo ambiente domestico e immergere il suo pensiero nella normale attività della giornata, di una qualsiasi giornata autunnale.

La dotta e ben congegnata silloge, che Rodolfo Vettorello, insignito nel 2019 della Laurea Apollinaris Poetica presso l’Università Pontificia Salesiana, offre ai lettori e inserisce nel complesso panorama della grande poesia italiana, offre altri e proficui stimoli, che ognuno può cogliere meditare gustare.    


 Orazio Antonio Bologna 

  

     

 

   

2 commenti:

  1. Grazie Nazario per ospitare questo prezioso documento di cui il caro amico Prof. Orazio Antonio Bologna mi fa dono. Non ho parole per ingraziare lui. per il suo generoso impegno e te per l'affettuosa. accoglienza che mi onora. Grazie amici cari, siete la sola ricchezza di cui posso menare vanto e lo faccio con tutta la mia voce e la mia dedizione. Grazie.

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  2. Ieri ho provato a inserire un commento, che purtroppo ho vanificato con un gesto maldestro, mi ripeto perchè questa pagina non può passare inosservata. Credo che l'esegesi dettagliata del Professor Bologna renda il meritatissimo tributo al caro amico Rodolfo Vettorello, che conosco e ammiro da tantissimi anni. Credo che il Recensore, parlando dell'ultima Opera dell'Autore abbia evidenziato tutti i punti cardine della sua poetica. Innanzitutto ha messo in risalto l'uso della metrica, che è la base, oggi come ieri, della grande poesia. Ci si può staccare da essa solo se la si padroneggia. Vettorello ha sempre attinto al metro classico, ricordo il suo endecasillabo spezzato dal settenario e l'adozione dell'enjembement e dell'anafora nelle Sillogi di molti anni orsono. Il Professore lo accosta a Giuseppe Ungaretti e i versi postati sono quanto mai evocativi della lirica "Soldati". Inoltre nell'Opera in oggetto "Elegia per me solo" si diletta in un componimento classico di distici, che esprime emozioni e sentimenti personali in tono malinconico. L'elegia, come sottolinea il Professore deve molto a Quintiliano, ma anche al Salmo 50 della Bibbia e alle lamentazioni di Ugarit, che secondo l'élite israelita fu il responsabile della redazione del Vecchio Testamento. Il poeta in questa Silloge tratta tematiche consone all'elegia, tra cui la morte, e mostra 'la lentezza e la rilassatezza', tipica di colui che è di ritorno dall'avventura della vita... Una sorta di disincanto, di nostalgica malinconia, che si evince anche dai versi postati, assolutamente sublimi. Vorrei complimentarmi con il sommo Recensore, che con la sua lunga e dettagliata disamina dà del tu al cielo e rinnovare la grata ammirazione verso l'Amico e superbo Artista Rodolfo Vettorello, che tocca vette inarrivabili da lustri. La lettura di questa pagina mi ha fatto tremare l'anima e ha rappresentato una fonte di profondo arricchimento. Ringrazio il Professor Bologna, al quale porgo gli auguri di un 2021 lieve e distinti saluti e m'inchino ancora una volta al caro Rodolfo che abbraccio con affetto.

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