Conoscendo e frequentando da anni Sandro
Angelucci, credo di poter correttamente intendere l’apparente contraddizione
che affiora dalle sue risposte, laddove dichiara da un lato il nascere della
sua poesia dall’osservazione della realtà
e dall’altro di sentirsi irresistibilmente attratto da un programma di profonda ricerca interiore. Sono
affermazioni che spiazzano chi è abituato – infantilmente oserei dire – a
catalogare la poesia (e l’arte) secondo schemi precostituiti, seguendo i quali
essa o è di impegno sociale oppure è lirica; o è realistica oppure intimistica;
o è sperimentalista oppure tradizionalista; eccetera, mentre la
poesia è poesia e basta.
Con ciò, ovviamente,
non intendo escludere la liceità degli aggettivi che connotino una determinata
poetica, ma tacciare – questo si – la presunzione di unicità con cui molto spesso le poetiche si presentano, dando
l’ostracismo a tutte le altre. Fa bene Angelucci a ricordare che la poesia può
trovarsi dovunque. La condizione per cui questo avvenga è che ci sia il poeta
in grado di cogliere i lati sottili della vita, ovvero quel senso segreto della
vita stessa che deriva dalla dimestichezza con il mistero. Né questa
familiarità può venire confusa con la presunzione razionalistica che pretende
di afferrare il mistero dall’esterno, evitando di immergersi nelle sue acque
rigeneranti ed insidiose.
La confidenza con il
mistero, dunque, è il tratto qualificante di ogni vera poesia. E non è un
fuggire dalla realtà, come potrebbe sembrare, ma una penetrazione nella realtà,
nel cuore segreto e sfuggente delle cose. La cosiddetta realtà oggettiva non è che un arbitrio riduttivo della soggettiva mente umana. Soggetto ed oggetto si giustificano l’un l’altro, ma non hanno nulla a che fare
con la realtà, che è il mistero delle relazioni cosmiche e della comunione
universale. Ed ecco l’essenza del mito. La poesia e l’arte hanno sempre a che
fare con il mito (e ovviamente parliamo di mito allo stato sorgivo, non di mito
decaduto a mitologia, a manierismo favolistico ripetitivo).
Sta qui
l’universalità della poesia. Universalità da intendersi in senso qualitativo e non quantitativo. L’universalità dell’arte non è l’universalità del
consenso o del suffragio universale. Il suo linguaggio non si rivolge a tutti, ma ad ognuno. A partire, ben s’intende, dall’ognuno di se stesso, giacché è lì il centro, il mistero del
mistero. La comunicazione dell’arte
pretende comunione, e questo può
avvenire esclusivamente nell’autenticità, ovvero nel dialogo duale dell’artista
con se stesso, con la propria Musa o con il proprio demone interiore. Angelucci
sa bene che, se si salta, questo primo anello della catena relazionale, va in
pezzi l’intera catena e la comunicazione diviene inautentica. Quindi non
originale.
Franco
Campegiani
Nessun commento:
Posta un commento