mercoledì 27 giugno 2012

PROFUMO DI NEVE, di Nicla Mati (Racconto)


Profumo di neve
di Nicla Mati

Stanotte, senza ragione, mi sono svegliata. La casa era immersa in un silenzio irreale. A piedi scalzi mi sono avvicinata alla finestra e ho guardato fuori dai vetri leggermente appannati. Quando ho aperto, il freddo non mi ha disturbato perché ero assorta ad assaporare il profumo particolare nell'aria.
E' nevicato,” ho pensato, “solo la neve ha quell'odore impalpabile e i rumori sono soffocati e attutiti come se tutto fosse avvolto nell'ovatta.” Ho visto il mio paese sonnecchiare sotto una candida coltre mentre lontano il cielo cominciava a tingersi d'alba. Da noi nevica raramente e, quando succede, le case coperte di bianco assumono un aspetto diverso e le luci che bucano le ultime ombre della notte ti ricordano che sei viva perché altri uomini si preparano ad affrontare il nuovo giorno.
Un aspetto diverso.
Sfumato come un ricordo lontano...

E' il quindici dicembre 1951. I miei settant'anni hanno lasciato il posto a una vivace bambina di dieci. Mi trovo all'Istituto Ortopedico Toscano, dove soltanto due mesi prima ho subìto un intervento alle gambe in uno squallido e affollato stanzone di terza classe. Il tanfo di urina e di escrementi che proveniva dai nostri letti permeava l'aria di tutto il reparto; tutti noi eravamo adagiati su materassi privi del lenzuolo sottostante, con un buco nel centro. Là, stava infilato un vaso da notte, dove veniva raccolta la nostra sporcizia, e che le infermiere svuotavano una volta al giorno. Per mia madre c'era solo uno sgabello a tre gambe su cui sedersi e riposare. In quel luogo, era palpabile tutta la terribile realtà della sofferenza umana. Due mesi dopo, mi trovo invece in una spaziosa e luminosa camera di seconda classe, con solo quattro candidi letti che profumano di pulito e una comoda poltrona dove mia madre può finalmente riposare e anche dormire durante i lunghi giorni della mia degenza, in attesa che mi vengano tolti i gessi e possa tornare a camminare. Solo un letto della stanza è occupato, là dove gioca un bambino vivace, Gabriele, mio coetaneo. Facciamo amicizia, mi colpiscono i suoi capelli ricciuti e lo sguardo birichino quando gli offro una delle bamboline di celluloide che ho portato da casa perché mi tenessero compagnia. La stanza adiacente è occupata da tre grandi invalidi di guerra soli al mondo, che si trovano lì in attesa che lo Stato Italiano dia loro un'adeguata sistemazione. Fra questi c'è Alberto, il mio amico grande, un tipografo bolognese che durante un bombardamento è rimasto schiacciato sotto una pressa, e da allora è costretto a camminare con le gambe rigide e ruotando quasi completamente su se stesso. I segni della guerra sono impressi a fuoco nella sua carne; queste cicatrici, tuttavia, hanno lasciato intatto il suo cuore. Alberto non ha perso la voglia di sperare, e soprattutto la capacità di amare. E' un uomo di media statura; ha trentotto anni, i capelli biondi ondulati e due bellissimi occhi azzurri. Ogni volta che entra nella mia stanza, un sorriso tenerissimo gli fiorisce sulle labbra e sale fino agli occhi, rendendoli simili a due laghi di montagna baciati dal sole. Non so perché Alberto mi abbia scelta fin dal primo momento, ma ho trovato in lui il calore, la tenerezza e le attenzioni di quel padre che non ho mai conosciuto, e lui la figlia che forse avrebbe voluto avere. Alberto riempie le mie giornate; quando torno in camera è lì che mi aspetta e il solo vederlo mi fa dimenticare la fatica e il dolore che devo subire giornalmente per poter correre di nuovo. Passa tutto il suo tempo con me, mi racconta storie fantastiche e sempre diverse, che mi portano in luoghi meravigliosi e lontani, distanti dalla mia sofferenza quotidiana. Spesso giochiamo a carte, sfidandoci in modo infantile. Quando siamo insieme tutto sparisce. Rimangono solo una bambina di dieci anni e un uomo che, chissà perché, la ricolma di amore. Passano i giorni, Gabriele viene dimesso e torna a casa, ma io non rimango sola: Alberto, il mio Alberto, escogita ogni giorno nuovi modi per farmi sorridere e gioire. Fra fisioterapia, racconti e giochi arriviamo alla vigilia di Natale. Al mio risveglio, all’alba, da uno spiraglio della finestra penetra un profumo inconfondibile... Profumo di neve. A piedi scalzi mi avvicino al finestrone della mia camera; gli alberi del giardino sono completamente coperti di bianco e intorno a me c'è un silenzio irreale che mi avvolge come una coperta calda. Ritorno a letto a godere di questa sensazione di quiete e di calore finché non viene giorno pieno e non mi portano la colazione. Visto che sono l'unica bambina rimasta nel reparto, la direzione dell'ospedale ha permesso a mio fratello Bruno e alla mamma di rimanere con me per le feste. Dopo colazione arriva Alberto e insieme con Bruno ci mettiamo a giocare senza accorgermi che mia madre si è allontanata uscendo sotto la neve, ed è rientrata portando un piccolo abete artificiale. Insieme all'albero, una scatola di palline che mi lasciano a bocca aperta: ognuna di esse rappresenta una fiaba: la scarpetta di Cenerentola, il fuso della Bella Addormentata, la casetta di Hansel e Gretel, i nanetti di Biancaneve, la lampada di Aladino e altre ancora. Tutto ciò è certamente costato una piccola fortuna che mia madre non potrebbe spendere in questo momento, ma il suo amore per me lo ha reso possibile. Passiamo il pomeriggio ad ammirare e addobbare il piccolo abete, mentre la mamma con pazienza spezza dei cioccolatini e li avvolge in carta stagnola rossa, appendendoli all'albero perché io possa trovare i doni di cioccolata a cui sono abituata. Quel Natale nasce sotto i miei occhi stupiti di bambina. La sera, con mia madre e mio fratello, ceniamo da soli serenamente. Tutta la mia famiglia è con me, poco importa il luogo in cui siamo. Subito dopo cena appare Alberto. Porta trionfalmente una torta ricoperta di panna, la mia preferita. Come ha fatto a indovinare? Che ci sia lo zampino della mamma? La torta e l'albero: due miracoli di questo Natale così pieno di magia. Ho l'onore della prima fetta. Più tardi, mentre stiamo giocando, volgo gli occhi verso l'albero e vedo sul tavolo due pacchetti apparsi come per incanto. Mia madre ha due amici fraterni, Gino e Marina: lui, falegname, ha costruito per me un lettino in miniatura per le bambole completo di rete e materasso, e un salottino rosa imbottito composto da due poltrone, un piccolo divano e un tavolo rotondo, mentre lei ha completato l'opera confezionando un paio di lenzuola con la trina e la coperta per il lettino, due cuscini ricamati per il divano, un centrino per il tavolo e un minuscolo vaso di porcellana. E’ il terzo miracolo di questa giornata da favola. Giochiamo tutti insieme, poi, quando le luci del reparto vengono abbassate, Alberto torna nella sua camera, mio fratello e mia madre si addormentano nei letti vicino al mio, ma io rimango a lungo sveglia a contemplare il mio albero che brilla silenzioso nella penombra, come una piccola stella. I giorni successivi riprendono il loro ritmo. Fisioterapia, fiabe e giochi colmano la mia giornata. L'otto gennaio 1952 torno a casa, finalmente in grado di camminare di nuovo, ma come tutti i bambini non sono del tutto consapevole della dolcezza e importanza di quei giorni vissuti in ospedale.
Sono stata felice e con questo dono nel cuore la vita riprende il suo corso quotidiano.

La neve ha smesso di cadere. Chiudo lentamente la finestra e accarezzo il vetro che è freddo e pungente sotto le mie dita. Il mio cuore però è riscaldato da una luce che viene da dentro.
Molti anni sono trascorsi da quella lontana neve di Natale; la consapevolezza e la coscienza della maturità mi hanno fatto capire il valore di tutti coloro che furono artefici della mia gioia in quei momenti. Vorrei poter rendere loro tutta la tenerezza che mi è stata data, ma molte di quelle persone se ne sono andate, alcune forse per sempre. Di Gabriele e Alberto non ho saputo più nulla. Il primo avrà certamente realizzato la sua vita come abbiamo fatto io e mio fratello. E Alberto? Se fosse vivo avrebbe ormai novantotto anni. Molto probabilmente ha raggiunto gli altri in un mondo che spero migliore. Mi addolora, però, che non abbia potuto leggere nei miei occhi di donna il valore che lui ha avuto, e ha ancora oggi, per me. Questo è l'unico rimpianto e rammarico che offusca il ricordo di quel Natale speciale. Molti altri Natali sono trascorsi da quel lontano giorno. Alberi più grandi e maestosi hanno sostituito il piccolo albero da tavolo, che ormai non esiste più. Alcuni dei suoi ornamenti tuttavia hanno resistito al tempo, e ogni anno brillano della loro magica luce nella mia casa a testimonianza di quel Natale unico, simile a una fiaba. La mia fiaba di Natale.

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