venerdì 1 giugno 2012

Intervista a Paolo Ruffilli, di Nazario Pardini


Per NazarioPardini

Intervista
a Paolo Ruffilli
A CURA DI
 NAZARIO PARDINI

                                                        
N. P.: Mi dica un po’ quali sono le occasioni della vita che più hanno inciso sulla sua produzione letteraria? quanto di autobiografico c’è nelle sue opere? lei pensa che ci sia sempre differenza fra poesia lirica e poesia di impegno; o pensa che la poesia, essendo un’espressione diretta dell’anima, sia sempre lirica qualsiasi argomento tratti?



P. R.  La mia vocazione nasce dalla mia passione musicale, già da piccolo, quando intorno ai 3 anni, imparavo a parlare. Le parole mi interessavano soprattutto come note musicali e la cosa non è mai cessata. Ancora oggi, come allora, per me scatta l’ossessione musicale dietro all’innesco di una parola e gli vado dietro. Per me, la poesia è prima di tutto musica, nel senso che tutto il resto viene dopo. Ecco perché è impossibile separare la forma del contenuto: nascono insieme come esecuzione musicale. L’autobiografia è fondamentalmente, per me, l’andare dietro alle mie ossessioni musicali. Per il resto non c’è molto di quello che chiamiamo “autobiografico”. Anche in poesia a me piace rovesciarmi nelle vite degli altri e, usando la prima persona, immaginare sentimenti, emozioni, vicende… Né mi capita mai di distinguere, nella mia avventura dello scrivere, tra lirica e impegno. Non ci penso proprio. Sono gli altri poi ad attribuire le etichette.



N. P.: La sua poetica, essendo uno dei maggiori interpreti della poesia contemporanea, è in gran parte nota attraverso le innumerevoli recensioni, prefazioni, e note critiche che la riguardano. Ce ne vuole parlare lei?





P. R.  Esiste sempre un percorso. Ma, quasi  mai, si riesce a fotografarlo dall'alto, come se si stesse in cima e fosse tutta in vista la strada compiuta. Perché si tratta di un percorso sghembo, fatto dì corsi e ricorsi, di volute e di pieghe. Così, è più facile che uno parli delle intenzioni che lo hanno mosso, piuttosto che delle tappe che ha toccato in successione. Del resto, avendo la consapevolezza dei limiti di questa prospettiva, che male c'è? Ecco, allora, il mio sogno di scrittore. La mira di un tempo e di adesso: togliere peso, il più che si possa, alla scrittura dietro all’ossessione musicale. Così ho cominciato, con qualche incertezza di progetto, e così sono andato continuando. Avendo dinanzi agli occhi quel gioco di pieni e di vuoti in cui è l'assenza maggiormente a contare. Che sogno sublime, quello di una pronuncia lieve e sfug­gente. Che amabile inganno, giocato a se stessi e al lettore, portati su un 'onda leggera dentro il dolore e l'impronuncia­bile dramma. Che audace licenza, l'aver celato nel tenue ri­flesso del luogo comune la più scandalosa effrazione.


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N. P.: Quali sono le letture a cui di solito si dedica e quale il libro che più le ha suscitato interesse? e quindi predilige? perché?




P. R.  Ho sempre letto di tutto e già da piccolo ero un lettore onnivoro. Invecchiando, poi, ho cominciato a privilegiare (per l’ossessione del tempo che incalza) quasi esclusivamente le riletture. Rileggendo i grandi (già di per sé sterminato l’elenco), italiani e stranieri. Faccio qualche esempio. Dante (che ho riletto almeno dieci volte). Leopardi (almeno sei volte). Tutto Tolstoj (almeno tre volte). Dostoevskij (almeno tre volte). Kafka (almeno tre volte). Checov (almeno quattro volte). E così via: Bulgakov, Joyce, Shakespeare, Musil, Proust, Maupassant, Sterne, Pirandello, Marquez, Roth, Puskin, Svevo, Pasternak… Impossibile scriverli tutti e impossibile fare una graduatoria. E la rilettura è straordinaria, perché ti fa scoprire sempre più cose, aspetti che ti erano sfuggiti, implicazioni, retroscena. Sto parlando della letteratura con la maiuscola, la grande letteratura. E la grande letteratura è una pratica esoterica che ti porta nel cuore della profondità, perché i suoi fondali arrivano negli abissi e l’occhio ha bisogno di tempo per adattarsi a cogliere ciò che in principio ancora gli sfugge.


N. P.: Fino a che punto le letture di altri autori possono contaminare uno stile di uno scrittore? e se sì, in che modo?




P. R.  Una delle cose che si imparano istintivamente è che solo la lettura porta alla scrittura. Non esistono grandi scrittori che non siano stati grandi lettori. Solo leggendo grandi scrittori si alimenta il talento personale. E i grandi scrittori sono grandi proprio perché sono tra di loro diversi (non ce n’è uno uguale a un altro, proprio in quanto ciascuno è originale). Dunque, leggendoli ci si alimenta di cibi variegati e diversi che, senza accorgercene, digeriamo e risputiamo fuori in altra e ulteriore diversità. È la varietà e la qualità che producono tale effetto e valorizzano un talento creativo. Guai a credere a quelli che affermano di non leggere per non farsi contaminare… Chi non legge non sa scrivere. Creativamente parlando. Infatti, abbiamo tanti scriventi e scrivani e scribacchini, ma pochissimi scrittori.




N. P.: Che cosa pensa della poesia innovatrice, quella che tenta sperimentalismi linguistici? quella che si contrappone e rifiuta  ogni ritorno al passato? o, per meglio intenderci, quella che si contrappone ad un uso costante dell’endecasillabo, o a misure dettate da una rigida metrica?



P. R.  Intanto, bisogna subito dire che senza esperimenti non si va da nessuna parte, né nelle scienze né nelle arti. Di per sé la creatività è sperimentazione, parlo naturalmente della creatività che conta. I creativi vanno dietro a un impulso che li spinge avanti e oltre, spesso senza neppure rendersene conto. Usano, da creativi, le antenne che hanno. E le antenne pescano in alto, dove tutti gli altri, meno creativi, non arrivano ancora. Ricordiamoci il vecchio monito sapienziale: niente di nuovo sotto la luce del sole eppure tutto nuovo. Tutto ciò che conta, creativamente, è sempre “nuovo”. Non c’era fino a un attimo prima. Poi c’è. Ci dimentichiamo troppo spesso che la vita è trasformazione continua: solo ciò che si trasforma è destinato a durare. Il resto è già morto, anche se non lo sa. Nella vita, non esiste la possibilità di nessun ritorno al passato, Indietro non si torna mai e chi lo crede possibile è un ingenuo. Anzi, peggio: è pericoloso.



N. P.: Cosa pensa dell’editoria italiana? Di questa tendenza a partorire antologie frutto di selezioni di case editrici? di questi innumerevoli Premi Letterari disseminati per tutto il territorio nazionale?



P. R.  L’Italia è un paese anomalo, tra i paesi così detti civili, non solo politicamente, ma a tutti i livelli. Dunque, anche l’editoria risente della tragica realtà che ci riguarda come paese e, in primo luogo, il criterio mafioso che è dominante in Italia. Il merito non esiste, prevale l’affiliazione (l’amicizia, l’appartenenza allo stesso gruppo, famiglia, partito…). Abbiamo un’editoria sgangherata che promuove quasi esclusivamente una letteratura di serie B o C. la serie A è casuale e prevalentemente in traduzione (sono gli editori stranieri che la promuovono e i nostri la traducono). Per i premi vale lo stesso discorso.



N. P.: Certamente sarà legato ad una sua opera in particolare. Ne parli, riferendosi più ai momenti d’ispirazione, ai tempi di scrittura, alla scelta lessicale, alla revisione, più che ai contenuti. Che pensa della funzione del memoriale in un’opera di un poeta? e alla funzione della realtà nei confronti di un’analisi interiore?



P. R. In realtà, non sono legato a un’opera in particolare. In genere, io lavoro in parallelo a cose diverse per anni. I miei libri hanno sempre una gestazione non inferiore ai dieci anni. E, lavorando in parallelo a libri diversi, ne avrei tanti candidati alla pubblicazione. Ma, poi, non pubblico che una minima parte di quello che scrivo, dopo averci convissuto a lungo. La convivenza coincide con una continua riscrittura e la riscrittura avviene rileggendo a voce alta ciò che ho scritto. Proprio per quella ossessione musicale di cui  parlavo prima. L’orecchio ha bisogno di tempo per mettere a punto l’intera orchestrazione di un libro. E, per me, ogni libro è una partitura musicale. La musica è parte fondamentale, per non dire tutto, della letteratura che conta (e non solo della poesia, ma anche della narrativa), perché la parola che “suona” è la parola più capace di rivelare la realtà. E la realtà è difficile da individuare. In genere, chi ci informa sulla realtà si ferma alla superficie, all’apparenza… l’evidenza è un inganno di cui ci dimentichiamo. Solo chi va oltre l’evidenza può dirci qualcosa sulla realtà. Se ne sono accorti anche gli scienziati, che si occupano ormai della realtà così detta non fattuale, quella appunto che sfugge ai cinque sensi. Lo scrittore che conta non è quello che usa gli occhi (per descrivere), ma quello che usa l’immaginazione (per rivelare). In questo senso, anche la memoria è qualcosa di ambivalente. Pensare che sia solo una risorsa è sbagliato, perché la memoria è anche un pericolo e in ogni caso un limite. Basterebbe pensare al nostro cervello e alla sua istintiva necessità di dimentica il più possibile… o ai nostri computer che, caricati nella loro memoria, diventano lenti e incapaci di collegamenti.


N. P.: Cosa pensa della nostra Letteratura Contemporanea? raffrontata magari con quelle straniere? e dei grandi Premi Letterari tipo il Campiello, il Rèpaci…?




P. R.  Il meglio della nostra letteratura contemporanea è ancora “segreto”. Per quello che dicevo più sopra: in Italia, i media, gli editori, i premi, si occupano quasi esclusivamente della serie B e C. E la cosa si è accentuata negli ultimi 15/20 anni. Confondere ciò che si vende con ciò che conta, creativamente è sempre un errore imperdonabile. Sul piano commerciale, nessuna obiezione, rispetto a una legge di mercato: l’editore deve avere un suo guadagno. In genere, si usava (e si usa ancora tra gli editori stranieri) impiegare parte del guadagno per pubblicare ciò che si vende meno ma vale di più. Ma la cosa più drammatica e, insieme, più ignobile è che media, editori e premi italiani presentano come letteratura di qualità merce di seconda e terza scelta.



N. P.: Se potesse cambiare qualcosa nel mondo della poesia o dell’arte in generale, che cosa farebbe? se avesse questi poteri che cosa lascerebbe invariato e che, invece, muterebbe sostanzialmente?





P. R.  In letteratura, come in politica, come in ogni altro aspetto di questa nostra Italia martoriata, bisognerebbe liberarsi da quel vincolo mafioso di cui parlavo. Cosa non facile, per non dire impossibile, vista la metastasi malavitosa che ha invaso quasi tutto l’organismo del nostro paese.



La ringrazio per la sua disponibilità.

Nazario Pardini                                                                                                        31/05/2012


1 commento:

  1. Il lavoro intellettuale è sempre un po' difficile ed anche in passato lo era. Anche pensare che le novità di oggi siano degli errori perchè, non hanno nulla in comune con l'arte del passato, vuol dire restringere lo spirito della creazione artistica e togliergli la libertà. Bisogna sempre pensare al fondo delle fantasie e dell'occhio interiore che vede e scruta il mondo, da un punto di vista personale e non ripetitivo. Ci sono infatti molti collezionisti di quadri antichi che non amano l'arte, ci tengono ad avere i quadri o i libri rari solo per un investimento e per scambiarli alle aste. Ma questa è un'altra faccenda non è arte è commercio dell'arte. La poesia più di ogni altra forma di arte è davvero molto penalizzata. Si sentono i grandi nomi del passato da Dante, Leopardi a Pavese, Montale ma la poesia è concepita come una didattica vuota o inutile. Anche mio nipote si confonde a scuola tra lo studio utile e le materie inutili che non portano ad un lavoro. Questi ragazzi usano molto il cellulare per riprendersi tra di loro ma talvolta non stanno attenti a quello che vedono e si perdono nelle immagini della pubblicità, senza un tocco di fantasia. Certe scuole credo non insegnano l'importanza della creatività anche per scopi di ricerca. Condivido con Paolo Ruffilli che la grandezza della diversità produce un patrimonio che andrebbe valorizzato. I poeti soprattutto sanno raccontare in maniera davvero libera ed originale molte cose e molte suggestioni interessanti che meritano attenzioni da parte di tutti , anche degli insegnanti delle scuole. Spero che i Concorsi letterari sappiano trovare le ragioni giuste non solo per piazzare, quelli che vogliono sedersi sulla tribuna e si spacciano per critici e letterati solo per dare visibilità a se stessi e per premiare personaggi che sperano di guadagnarsi un posto tra le Muse, senza studio, senza impegno e con quattro pensierini. L'arte non è mai una cosa scontata anzi, bisogna investire sulla vera immagine della bellezza quella che diventa anche ricchezza artistica del nostro paese e valorizzata nel mondo (a patto che sia vera!). Marco Casiraghi artista

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