Intervista
A
UMBERTO
VICARETTI
A CURA
DI
NAZARIO PARDINI
N. P.: Quali sono le occasioni della vita che
più hanno inciso sulla sua produzione letteraria? quanto di autobiografico c’è
nelle sue opere? lei pensa che ci sia differenza fra poesia lirica e
poesia di impegno; o pensa che la poesia, essendo un’espressione diretta
dell’anima, sia sempre lirica qualsiasi argomento tratti?
U. V. La
morte di mio padre (aveva cinquantaquattro anni, io otto) e il mio ingresso al
Don Orione di Avezzano rappresentarono per me il primo, fortissimo e drammatico
momento di “rottura” con il mondo e i riti dell’infanzia. Catapultato
all’improvviso nella vita vera avvertii un incomprimibile, ancorché indistinto,
bisogno di esprimere la mia ribellione, di denunciare la disillusione e
l’inganno: mi sentivo come tradito dagli elfi e dai folletti, per questo
“strappo” violento e inaspettato. Così cominciai a scrivere “poesie”, sequenze
disarticolate dei miei primi, ingenui versi. Certo non poteva dirsi, quella,
una “produzione letteraria”, ma quegli avvenimenti avrebbero in seguito
condizionato e innervato il mio poièin.
Proprio per questo credo che nei miei scritti l’elemento autobiografico giochi
un ruolo decisivo, una sorta di “transfert” sentimentale e solidale nei
confronti, per così dire, dei “vinti”.
Quanto
alla poesia lirica e a quella di impegno (la ricorrente querelle tra poesia “pura” e poesia “impura”), sono perfettamente
d’accordo con quanto sosteneva Vittoriano Esposito: “Impegno e disimpegno
non possono essere, di per sé, ragioni di salvezza o di condanna dei poeti, né
sul piano estetico né sul piano umano. Ma una verità, o certezza che dir si
voglia, mi sembra inconfutabile e cioè: un artista vero, un vero poeta, come la
storia letteraria di ogni tempo dimostra, non si sente estraneo o indifferente
ai travagli del mondo in cui vive”.
Proprio per questo,
pur ritenendo che la vera poesia è tale sia che parta dall’intuizione pura di
crociana memoria, sia che prenda le mosse dall’impegno etico e civile (senza perciò primazie di sorta dell’una sull’altra),
coltivo la convinzione che la cifra lirica cui può attingere la poesia “impura”
venga ulteriormente nobilitata dal sostegno accordato alle ragioni dell’uomo.
N. P.: Essendo uno degli interpreti principali
della poesia e della cultura contemporanea, la sua poetica è in gran
parte nota attraverso le innumerevoli recensioni, prefazioni, e note critiche
che la riguardano. Ce la vuole illustrare lei direttamente?
U. V. Non credo che la mia produzione interessi legioni
di critici e recensori, né di potermi considerare uno degli interpreti
(principali, poi!) della poesia e della cultura contemporanea. Non credo
neppure di poter “vantare” una mia poetica, intendendo per poetica “quella”
cifra espressiva e artistica, personalissima e unica, che contraddistingue i
poeti consacrati dalla critica. Più modestamente potrei dire di prediligere,
nel mio piccolo, le ragioni della precarietà esistenziale, il mistero dell’anello
che non tiene, il perché del Male. Momenti di ricerca che prendono spunto da
accadimenti, eventi, passaggi e snodi dell’umana avventura, tra i quali più mi
coinvolgono quelli che sottolineano, e quasi didascalicamente ripropongono, le
tappe ricorrenti del “male di vivere”. Ecco, a proposito di Montale, potrei
dire che, se di una poetica potessi “fregiarmi”, la si potrebbe chiamare (ma absit iniuria verbis!...) “poetica delle
occasioni”.
N. P.: Quali sono le letture a cui di solito
si dedica e quale il libro che più le ha suscitato interesse? e quindi
predilige? perché?
U. V. Ancora
bambino, in collegio, vinsi un “concorso” di poesia indetto dal mio maestro di
terza elementare. Per premio ricevetti una stilografica, un album e “Il giro del mondo in 80 giorni” di Jules
Verne. Fu per me un tuffo nella fantasia, un volo liberatorio, una sorta di
evasione dal grigiore di quella “prigione” che era il collegio. Dormivo con
quel “tesoro” sotto il cuscino e credo di aver da quel momento compreso che i libri
sarebbero diventati il mio pane quotidiano. Ho detto “i libri”, perché in
seguito avrei letto un po’ di tutto, con particolare preferenza per i testi di
poesia, a partire dall’Iliade, di cui
mi affascinavano, e provocavano rabbia e ribellione, le vicende e la morte di
Ettore. La scintilla che poi accese in me l’amore per la poesia, una sorta di
abbacinante epifania, è stata la sequenza dei versi “ti pettinò co’ bei capelli a onda / tua madre… adagio, per non farti
male” de “L’aquilone”. Poi… Poi
Virgilio e i classici greci e latini e, ancora (con riferimento alla sola
letteratura italiana), da San Francesco a Dante e Petrarca, a Leopardi e al
Novecento, con Ungaretti, il citato Montale e Sbarbaro, Sinisgalli; e quindi
Quasimodo (con “Giorno dopo giorno” a scandire la persistenza planetaria del
male) e Luzi fino ai nostri giorni… Ma i poeti che mi hanno arricchito e dato
riferimenti sono tantissimi. Sarebbe perciò esercizio riduttivo, e anche
ingiusto, continuare ad elencare nomi o indicare testi. Posso solo dire di
avere una predilezione (proprio in riferimento a quanto dicevo in precedenza)
per la poesia civile e d’impegno, quella che Umberto Saba chiamava poesia
“onesta”. Credo per questo che i poeti debbano essere i testimoni del loro
tempo, e che non possano limitarsi a poetare accademicamente con l’intimismo,
la luna, l’avvicendarsi delle stagioni, ma trovino il modo e il coraggio di
dire forte e chiaro da che parte stanno, che denuncino con l’affascinante forza
della poesia fatti, eventi, momenti che compromettono la bellezza e
l’equilibrio della vita e mortificano il senso dell’appartenenza all’umanità.
N. P.: Fino a che punto le letture di altri
autori possono contaminare uno stile di uno scrittore? e se sì, in che modo?
U. V. Ogni
scrittore che sia veramente autonomo ha un suo personalissimo registro e un suo
stile individuale e unico. Certo, dagli altri autori può mutuare stilemi e
temi, declinandoli tuttavia attraverso la sua sensibilità e la sua abilità
espressiva e semantica. La predilezione per uno specifico autore può, poi, dare
spazio ad una sorta di affinità elettiva e sentimentale, e trovare
corrispondenza e continuità, se non proprio nello stile, nella visione del
mondo e nella condivisione dei problemi che l’attraversano.
N. P.: Che cosa pensa della poesia
innovatrice, quella che tenta sperimentalismi linguistici? quella che si
contrappone e rifiuta ogni ritorno al
passato? o, per meglio intenderci, quella che si contrappone ad un uso costante
dell’endecasillabo, o a misure dettate da una rigida metrica?
U. V. Lo sperimentalismo e l’innovazione linguistica fini
a se stessi sarebbero ben futile esercizio semantico ed estetico, destinato ad
una vetrina e ad una visibilità estemporanee e di non lunga lena. Bisogna però
tener presente che la sperimentazione, in ogni campo, rappresenta il sale
stesso del fare e costituisce la premessa essenziale del progresso e della
conquista in ogni campo dello scibile, quindi anche del poièin. Detto ciò, trovo assolutamente pretenziosa e velleitaria
qualunque fuga in avanti dettata dal semplice ed apodittico rifiuto della
tradizione, solo in quanto espressione di un’esperienza di cui si vuole ad ogni
costo certificare l’estinzione. Tutto ciò configura una tendenza
“confessionale” e fondamentalista, del tutto improduttiva e sterile. Rifiuto
dell’endecasillabo come “reperto” del passato? Sarebbe come dire, per fare un
esempio banale, che si potrebbe benissimo rinunciare alla ruota, invenzione
“datata” e, per ciò stesso, da consegnare alla polvere dei musei; operazione
che, come è del tutto evidente, appare improponibile e bislacca, fuori dalla
realtà e dai canoni della ricerca e dell’autentica innovazione.
Le avanguardie, le neoavanguardie e gli
sperimentalismi di ogni risma (anche quelli di elevata qualità) di ieri (Futuristi, “Gruppo ’63”…), di oggi, di
domani, potranno continuare a progettare, nella fattispecie, le “Idi di Marzo”, della poesia e della tradizione culturale a noi più cara,
ma, almeno finora, essi non hanno partorito un solo sicario (e tantomeno un
Bruto…), capace di ferire a morte la metrica tradizionale e, in particolare,
l’endecasillabo.
N. P.: Cosa pensa dell’editoria italiana? di
questa tendenza a partorire antologie frutto di selezioni di Case Editrici? di
questi innumerevoli Premi Letterari disseminati per tutto il territorio
nazionale?
U. V. La
(famigerata) legge del mercato detta purtroppo, nel nostro paese, condizioni
insostenibili per la poesia, compresa quella di qualità. La poesia non ha
mercato a causa di quel deficit culturale generale, sistemico, che sconta il
nostro paese; deficit generato da una visione utilitaristica, semplicistica e
povera della vita e della società. Tutto ciò induce quest’ultima a non dare
credito e spazio alla letteratura in genere e alla poesia in particolare, come
peraltro si evince dai dati statistici che relegano il nostro paese in coda
alle classifiche internazionali per “consumo” dei prodotti specifici
dell’editoria. Va da sé che, in assenza di una “domanda” di valenza culturale,
gli Editori ricorrano ad antologie quasi tutte completamente autofinanziate da
sedicenti/aspiranti poeti-critici-saggisti, gratificati dal solo fatto di avere
“scritto un libro”. Quanto alla pletora insostenibile dei Premi Letterari,
tutti ovviamente “griffati” con la parolina “nazionali” e (basta un’altra
semplice aggiunta) addirittura “internazionali” (perfino quelli più
realisticamente parrocchiali…), che dire? Viene lo sconforto. Ma le eccezioni
non mancano e si manifestano dove qualità e competenza vanno a sostenere
progetti culturalmente validi.
N. P.: Certamente sarà legata ad una sua opera
in particolare. Ne parli, riferendosi più ai momenti d’ispirazione, ai tempi di
scrittura, alla scelta lessicale, alla revisione, più che ai contenuti. Che
pensa della funzione del memoriale in un’opera di un poeta? e alla funzione
della realtà nei confronti di un’analisi interiore?
U. V. Nonostante abbia in cantiere
una nuova pubblicazione, la mia produzione è talmente limitata da non
consentirmi il “lusso” di esprimere preferenze di sorta. In generale posso dire
che ogni mia nuova composizione rappresenti una scommessa, una prova, un lavoro
da affrontare con grande impegno e concentrazione. Ho detto ‘lavoro’ non a
caso, in quanto, dal momento della cosiddetta ispirazione, e fino al compimento
dell’opera, devo mettere in campo tutta intera la mia capacità creativa e tutte
le mie energie mentali, fisiche e nervose. Lo so che non si tratta degli
altiforni o della catena di montaggio, ma nella mia esperienza di scrittore ho
verificato che il dispendio di energie per “creare” una poesia è altissimo, e arriva a spalmarsi su un arco
temporale che può esaurirsi in alcuni giorni, ma può protrarsi anche per mesi;
senza poi contare che nel rivisitare le mie produzioni, anche a distanza di
parecchio tempo, spesso mi faccio prendere dalla sindrome oraziana del “labor limae”: la verifica della metrica,
il taglio o la sostituzione di un verso, le figure retoriche... Insomma, una
vera e propria ‘marcialonga’. Proprio per questo, appena ho un lampo, un’idea,
uno snodo lirico, subito mi assale, insieme all’entusiasmo, anche una sorta di
scoramento, perché penso al tempo e alla fatica che occorreranno per dare corpo
e sostanza al nuovo “prodotto”. Comunemente si crede che chi scrive versi sia
ben fortunato, dovendo egli misurarsi con un “lavoro” pulito, lineare,
benedetto dall’ispirazione. Molti addirittura pensano che al poeta basti
premere un pulsante, proprio come si fa per accendere una lampada, e oplà!...,
il gioco è fatto. Sono convinto che non siamo noi cercare la poesia, ma che al
contrario è lei che, quando meno te lo aspetti, viene a trovarti. Relativamente
alla funzione del memoriale e quella della realtà, credo che si tratti di due
momenti indivisibili e complementari per ciò che riguarda la genesi di una
lirica: essi infatti non potrebbero, se presi separatamente, rappresentare
appieno il percorso compiuto dalla poesia nella ricerca di quella verità e di
quel momento estetico che “firmano” l’opera poetica, che a mio modo di vedere
“combina” una sensibilità maturata nel tempo e l’emozione scaturita da un
“prodigio” che oggi ci chiama.
N. P.: Cosa pensa della nostra Letteratura
Contemporanea? raffrontata magari con quelle straniere? e dei grandi Premi
Letterari tipo il Campiello, il Rèpaci…?
e del rapporto fra poesia e società? fino a
che punto l’interesse per la poesia può incidere su questo disorientamento
morale (ammesso che lei veda questo disorientamento)? o pensa che ci voglia ben
altro di fronte ad una carente cultura politica per questi problemi?
U. V. In un
paese come il nostro, dove il merito (e i curricula…)
valgono ormai meno del due di briscola, la gestione dei Premi Letterari,
soprattutto dei Premi più celebrati, è appannaggio esclusivo delle grandi Case
Editrici, che si contendono il podio a suon di campagne promozionali e
pubblicitarie. La stessa cosa avviene per gli autori promossi e sdoganati dal
circuito dei grandi annunci (dalle classifiche dei bestseller alle graduatorie delle top ten) che, nel breve volgere di qualche tempo, cambiano cavalli
e cavalieri. Nel nostro piccolo, ma consolidato medioevo culturale, il primato
consegnato nelle mani di un’oligarchia editoriale senza scrupoli comprime i talenti e “crea” nuovi, quasi sempre
discutibili, “fenomeni” della narrativa e della poesia: è sufficiente essere
ammanicati e/o apparentati con i referenti giusti dei palazzi e delle
consorterie per straripare dalle vetrine delle librerie e inflazionare le
pagine “culturali” dei quotidiani.
Per
questo si amplia sempre di più, in relazione alla qualità e quantità della
nostra produzione editoriale e alla consapevolezza e alla fruizione dei valori
artistico-letterari, il gap tra noi e i paesi
più evoluti. Parafrasando Feuerbach, si potrebbe dire che “noi siamo ciò
che (non) leggiamo”…
Relativamente
al rapporto tra società e poesia, e in merito al disorientamento morale, torno
a quanto dicevo in un punto precedente a proposito dell’editoria italiana.
Accennavo al deficit culturale e di maturità che il paese sconta e all’assenza
di una solida domanda di “beni” che non siano edonistici e di scarso valore
ideale. Si tratta del danno irreversibile creato dalla destrutturazione non
solo sentimentale e morale, ma direi profondamente etica, compiuta dalla mala politica, dai mass-media
(in primis dalla TV), dal depotenziamento scientifico e progressivo della
catena dell’istruzione, dall’assottigliamento sistematico e feroce delle
risorse da destinare all’educazione e alla scuola pubblica. Di tutto ciò
risente, ovviamente, anche la poesia. Le conseguenze sono drammatiche: si
guarda alla cultura con una sorta di compatimento. Emblematica e avvilente, in
proposito, la recente considerazione (una “genialata” davvero rivelatrice) di un nostro ex ministro dell’economia
(appunto!...), secondo cui “con la cultura non si mangia” (!!) . Il poeta, in
particolare, viene per lo più percepito come un perdigiorno, un
acchiappanuvole, uno che scrive cose inutili e anche un po’ ridicole; secondo
la versione più aggiornata delle rappresentazioni didascaliche si potrebbe oggi
definirlo uno “sfigato”… Parlare a questo punto delle capacità “terapeutiche”
della poesia mi sembra addirittura patetico. Sento spesso ripetere il
ritornello secondo cui “la poesia salverà il mondo”; esercizio che, viste le
“conseguenze” dopo miliardi di versi disseminati per ogni contrada del pianeta,
puzza di retorica e di qualunquismo. Lasciamo per un momento un orizzonte così
ampio, il mondo, appunto, e restringiamo l’analisi ad una dimensione meno
ambiziosa, quella del nostro paese. Personalmente, considerata l’indifferenza,
la scomparsa degli ideali, la corruzione (compresa quella delle coscienze), il
cinismo che lo pervade, ribalterei la considerazione e comincerei a chiedermi
se “questo” piccolo nostro mondo che è l’Italia riuscirà a salvare la poesia. La
poesia, dunque, non ha certo poteri taumaturgici, ma, questo sì, può
concorrere, se non proprio a salvare il mondo, a renderlo più consapevole, meno
violento, più umano e solidale. Rimedi da mettere in campo per contrastare la
decadenza civile e morale? Penso che sia superfluo, dopo quanto ho detto,
elencare provvedimenti, ma credo che come primo passo si debba restituire alla
complessa macchina dell’istruzione, dell’educazione e della formazione la
considerazione, l’autorevolezza, le risorse necessarie per aprire ad una
stagione di vero rinnovamento ideale e sociale, e così promuovere atteggiamenti
e stili di vita capaci di restituire dignità e credibilità alla cultura,
all’arte, alla poesia.
N. P.: Se potesse cambiare qualcosa nel mondo
della poesia o dell’arte in generale, che cosa farebbe? se avesse questi poteri
che cosa lascerebbe invariato e che, invece, muterebbe sostanzialmente?
U. V. L’approccio
alle discipline rappresenta il primo e più importante passo per creare un feeling, una corrispondenza
privilegiata, per instaurare un rapporto forte e duraturo con uno specifico
sapere, e forse anche per far nascere una passione. Proprio per questo, onde
promuovere un rapporto consolidato con l’arte in generale e con la poesia in particolare,
si dovrebbe privilegiare una specifica educazione di base, a partire dalla
scuola. Ecco, una classe politica sensibile e illuminata dovrebbe puntare molto
sul potenziamento e sul rinnovamento degli insegnamenti artistico-letterari,
mediante riforme specifiche e interventi mirati. Per la letteratura e la
poesia, in particolare, dovrebbe promuovere e facilitare la conoscenza di testi
e autori. Sarebbe un modo per recuperare il gap che ci separa dai paesi più
avanzati. Sono tantissime le cose da fare, ma ciò comporterebbe l’esposizione
di modalità, itinerari, proposte e ipotesi della più varia natura, tutti
elementi che andrebbero approfonditi e discussi per promuovere una autentica
filosofia dell’istruzione e della formazione artistica e culturale.
N. P. La ringrazio per la sua disponibilità.
La sua intervista verrà pubblicata sul mio blog
Alla volta di Leucade blog.
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