Nazario Pardini, Scampoli serali di un venditore di arazzi, The Writer Edizioni, Milano, 2012,
pp. 220, Euro 10
Sulle rive del Serchio
Sulle rive del Serchio al mio paese,
là dove le donne andavano a fare
il bucato di cenere del mese
all’aria fresca che spira dal mare,
si potevano vedere in gran fermento
dolci fanciulle riflesse da spere
che come macramè in un movimento
d’orli di gonne impigliate nel blu
sguazzavano in acqua sorridendo al vento.
Erano i tempi in cui le primavere
Erano i tempi in cui le
primavere
riempivano di gocce di candore
getti di primule, mandorli e acacie
e l’aria accarezzava con le piume
l’azzardo alla vita di butti precoci.
E c’era un asolo
spirante da lontano; e una corrente
col chioccolìo dell’acqua di sorgente
a coprire il clangore del fronte
alla mia infanzia.
Nella notte
i pensieri predicevano l’estate
spegnendo i bengala
col sole della
fantasia.
Tutto si dilata di quelle primavere:
il candore dei bocci,
quell’asolo vagante,
i voli oltre i bengala,
e la fiaba di una bionda regina
che mio padre mi narrava ogni sera
avanti di partire deportato.
30/12/2002
Vedi. La vita è questa
Vedi. La vita è questa
Tanto vale abbandonarsi alla corrente,
ai flutti che trascinano
i nostri pensieri nel vuoto azzurro.
Il battello della poesia,
intonando romanze con versi sublimi,
ci porterà tra rive traforate
da trecce di bosco, da vaghi profumi
che inganneranno assenzi
misteriosi e mortali. Vedi. Non
c’è nella vita un respiro di pace;
ci assaltano i rumori di tempi pressanti.
Andiamo sopra il mio battello
tentennante, ma felice
di recarci con sé tra le sue rive!
E quando il colmo calerà su noi
la luce presaga della notte
continueremo a viaggiare sulle acque
trafitte da buone memorie. Sì!,
saremo inebriati e confusi;
ascolteremo solo suoni
di un’aria che ci ruba. Vieni, andiamo!
La vita è troppo scabra nelle sue
strade strozzate, nei suoi colli forati,
nei suoi gridi acuti di storie violentate
da falsi condottieri.
E se verrà l’oscuro
e al chiudersi del giorno
l’occhio sarà cieco,
asserberemo in noi l’ultima eco.
20/06/2002
Qui dalle dune
Qui dalle dune vestite di pruni
essiccati, lo sguardo si dilata
sul freddo celeste. Alcuni
scafi brillano sul piano e una rada
nebbia porta in alto
un alito leggero. Accanto a me
tirano a riva uno smalto
di maglie macramè
i pescatori, e l’anima si espande
ad un intreccio di ricami
che legano il cielo col mare.
Un branco di volatili diffonde
un’aria aggrinzita da acuti richiami
su verdi barche appoggiate alle case.
La casa sulla collina
- Come potrei riconoscere i tuoi luoghi, padre,
sono vissuto qui, in questo paese.
Per te è straniero; ma è questo il mio paese -.
- Trasalirai davanti alla mia terra.
Campi biondi di grano vedrai, piccoli prati,
vedrai chiarìe turchesi, pinete
che vibrano bandiere
in mezzo al cielo;
groppe di rena tra le tamerici,
viali di ginestre, macchie di ginepri,
ondulazioni a simulare nubi,
simili a dei castelli sopra il mare.
Vedrai gli ulivi, tanti ulivi
sopra la mia terra, millenari,
che se potessero saprebbero dire
non solo la mia storia, ma la tua,
quella del mondo intero da che è nato.
E poi laggiù, proprio laggiù, tra i lecci,
vedrai apparire un colle. È ricamato.
Tante volte l’hai visto nella foto.
Là sentirai una cosa. La più preziosa.
È un’aria fine, un’aria di ponente,
un’aria che attraversa grandi spazi
ma tiene solo il gusto dei miei posti.
Mischia perfino il sapore di ragia
con quello dei *rivelti del pianoro.
C’è la mia casa là. La vedi? È questa.
È questa qui col portico di fianco,
con i cipressi accanto, col cortile,
con quelle due finestre sgangherate,
con lo stormo dei piccioni che s’invola
e con nel mezzo il gelso.
Nella foto era d’estate,
era carico di more.
E poi vedrai, alzando lo sguardo,
vedrai dalla collina sullo sfondo
un grande piano azzurro.
Quello è il mio mare.
Lo riconoscerai. Te n’ho parlato.
Te n’ho parlato tanto.
È proprio là sul fondo, lo vedrai.
La riconoscerai questa mia terra,
questa mia terra mia,
proprio dal mare.
Da
là vedrai lontano. -
A Lesbia
Mi attendeva la città raccolta.
Quando giungevo in centro
mi salutava uno spazzino
dentro le mura
di un bar cittadino.
Stavo nascosto
dentro i miei pensieri,
mischiavo Ovidio con i candelieri
che mordevano l’aria di cucina.
Mi venivi incontro
sul ponte davanti a Garibaldi
e si guardava baldi
scorrere l’Arno sotto i nostri piedi.
Il sapore dei grani
e la storia ripassata la
mattina
galleggiavano sulla brina
che il fiume si portava dietro.
Leggo un libro
di liriche a Lesbia di Catullo;
su una Lesbia è cancellata:
mi viene in mente tutta una giornata
quando vedo il tuo nome al primo verso.
Per la morte di mio padre
L’ultimo respiro desti all’alba
stringendo nel palmo la mia mano,
dopo gli stenti di una vita scialba.
Erano desti i suoni del tuo piano
e tu morivi in un grande silenzio
come era nel tuo stile, inosservato;
l’odore le mie nari dell’incenso
mischiavano al profumo del tuo prato.
Per un’intera vita mi hai
lasciato
della pelle il calore sulla mia,
padre! Per fiumi, monti, coste, e mari
ho corso, riposato, navigato,
tenendoti con me tutta la via,
togliendo il tuo silenzio dal sagrato.
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