martedì 12 giugno 2012

Intervista a Sandro Angelucci, di Nazario Pardini


Intervista
A
SANDRO ANGELUCCI
A CURA DI
 NAZARIO PARDINI

                                                        
N. P.: Quali sono le occasioni della vita che più hanno inciso sulla sua produzione letteraria? quanto di autobiografico c’è nelle sue opere? lei pensa che ci sia differenza fra poesia lirica e poesia di impegno; o pensa che la poesia, essendo un’espressione diretta dell’anima, sia sempre lirica qualsiasi argomento tratti?



S. A.:  Escludendo la nascita (la prima, la più grande occasione che mi è stata concessa), ciò che - ne sono certo - ha profondamente inciso sul manifestarsi della parola come espressione del mio sentire è stato il diretto contatto avuto, negli anni infantili ed adolescenziali, con la Natura. Sono nato in campagna e, frequentandola, ho appreso dalla terra l’amore. La poesia, però, ha atteso che i frutti fossero maturi per parlarmi. È sulla base di quest’ultima considerazione che cerco di rispondere per quanto riguarda l’aspetto autobiografico: è impossibile che nella scrittura manchi questa connotazione (se si entra in confidenza con una vera amica non si può non dire tutto di sé); il fatto, poi, che dal particolare si passi all’universale - come credo avvenga nel mio caso - non implica, comunque, che si debba essere assenti. Sono convinto - e, con questo, prendo in esame il terzo argomento - che la poesia sia sempre d’impegno, ma in questo senso: che pretenda dal poeta la massima abnegazione, che tenga fede alla sua promessa. E allora, di qualsiasi tema si tratti (tutto può essere poesia), questo dire, questo mistero, non può che essere lirico.



N. P.: Essendo uno degli interpreti principali della poesia e della cultura contemporanea, la sua poetica è in gran parte nota attraverso le recensioni, prefazioni, e note critiche che la riguardano. Ce la vuole illustrare lei direttamente?



S. A. :  E’ davvero arduo rispondere a questa domanda. Non tanto perché mi resti difficile individuare il mio pensiero poetante quanto per la complessità che richiede doverlo far intendere. Come ho già detto, la poesia - per me - è mistero, e dunque inesplicabili sono le sue “ragioni”; tuttavia cercherò di chiarire - se non altro - quali sono le mie “regole”, ma la parola non mi piace. Ciò che credo di poter affermare, con una certa sicurezza, è che i miei versi scaturiscono sempre o, almeno in larga parte, dall’osservazione della realtà; voglio dire: tutto, proprio tutto, quello che i miei sensi riescono ad afferrare. Ma, immediatamente, e indipendentemente dalla mia volontà, prendono la strada che più li appaga portandosi dietro, però, quel fremito iniziale che, in definitiva, coincide con la mia visione del mondo. Altro, sinceramente, non arrivo ad indagare: forse perché sto parlando di me. Ad ogni modo, è meglio così.

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N. P.: Quali sono le letture a cui di solito si dedica e quale il libro che più le ha suscitato interesse? e quindi predilige? perché?



S. A. :  Le letture alle quali m’interesso sono molte ma non sono tante quanto quelle di cui - per mancanza di tempo - vorrei occuparmi. Le mie preferenze vanno, senz’altro, ai libri di poesia e, dunque, è tra questi (se può essere identificato) che deve trovarsi il più attraente. Dire quale sia mi mette un po’ in difficoltà per l’ovvio motivo che sono più di uno, naturalmente. Per non parlare delle opere immortali dei classici, sulle quali mi sono formato, e per rifarmi agli ultimi grandi del novecento, non posso non pensare ad Ungaretti, al suo “Il sentimento del tempo”, alla meno nota ma intensissima raccolta de “Il dolore”, dove la parola raggiunge l’indicibile senza, per questo, perdere quella valenza che la lega alla tradizione del ritmo e del metro della nostra lingua, rinnovandola come pochissimi hanno saputo fare. E, tra questi, non va dimenticato David Maria Turoldo, il suo “O sensi miei…”.



N. P.: Fino a che punto le letture di altri autori possono contaminare uno stile di uno scrittore? e se sì, in che modo?



S. A. :  Io credo che la lettura sia complementare alla scrittura; non nel senso accessorio, però, ma integrativo del termine. Mi spiego: leggere non significa apprendere per avere un modello, uno stereotipo da imitare; leggere vuol dire conoscere il pensiero di un altro scrittore perché la nostra riflessione ampli gli orizzonti al fine di conseguire il proprio compimento. È dunque impossibile - a mio modo di vedere - che la lettura di altri autori possa, in qualche modo, corrompere o modificare lo stile - che è, poi, lo specchio del suo creare - di uno scrittore. Sempre che chi scrive, s’intende, sia autenticamente tale.



N. P.: Che cosa pensa della poesia innovatrice, quella che tenta sperimentalismi linguistici? quella che si contrappone e rifiuta  ogni ritorno al passato? o, per meglio intenderci, quella che si contrappone ad un uso costante dell’endecasillabo, o a misure dettate da una rigida metrica?



S. A. :  Non ho nulla contro l’innovazione, a patto però che di vero rinnovamento si tratti; e questo non significa abbandonare o, peggio, rigettare il metro classico, quello che più si addice alla lingua italiana, ossia l’endecasillabo; al contrario, vuol dire riprenderlo, riproporlo in modo tale che il suo suono, i suoi accenti si calino nella contemporaneità. In questo senso, il dire della poesia non potrà che essere sempre nuovo. Tutto il resto: avanguardismi, sperimentalismi elucubrativi, lasciano il tempo che trovano.



N. P.: Cosa pensa dell’editoria italiana? di questa tendenza a partorire antologie frutto di selezioni di case editrici? di questi innumerevoli Premi Letterari disseminati per tutto il territorio nazionale?



S. A. :  L’editoria italiana soffre degli stessi mali che affliggono il nostro tessuto sociale: pressappochismo, utilitarismo, clientelismo. Non si può fare, però, di tutta l’erba un fascio: ci sono editori che, ancora, hanno la forza di resistere alla logica del profitto; specialmente quelli che si occupano essenzialmente di poesia: terreno sempre ai margini dei grandi latifondi. Per quanto riguarda i Premi Letterari: si, sono davvero troppi e, molti, di bassissimo livello; ma, anche qui, vale il discorso precedente: ce ne sono di seri - pochi - ma ci sono: soprattutto quelli in cui operano giurie composte da scrittori e poeti.



N. P.: Certamente sarà legato ad una sua opera in particolare. Ne parli, riferendosi più ai momenti d’ispirazione, ai tempi di scrittura, alla scelta lessicale, alla revisione, più che ai contenuti. Che pensa della funzione del memoriale in un’opera di un poeta? e alla funzione della realtà nei confronti di un’analisi interiore?



S. A. :  Sembrerà poco originale ma, davvero, sento ogni opera come una creatura. In poesia, poi, i legami che la uniscono a chi le ha dato vita sono pressoché irreperibili. Potrei pensare all’ultimo libro, “Verticalità”, e non perché è il più recente. Questa raccolta - come le altre d’altronde - ha una cronologia disseminata nel tempo: contiene liriche che ho riunito nel corso di almeno un lustro e, dunque, come è facile immaginare, lontani sono i momenti ispirativi, il concepimento. Qualcosa posso dire del parto - questo si - e mi piace ricordare non soltanto l’indescrivibile gioia ma anche il travaglio che le ha dato origine; riferendomi, con ciò, alla revisione, al labor limae in cui, a distanza, ma senza troppo modificare, mi sono dovuto dedicare. Ritenendo di aver detto tutto quanto potevo sul primo quesito, rispondo ora sulla funzione del memoriale: il ricordo è importante ma non bisognerebbe mai dimenticare che è un’arma a doppio taglio. Sulla funzione della realtà, ho già risposto precedentemente, almeno per l’ineludibile valenza che la stessa assume nella mia esperienza di scrittura come ricerca interiore.



N. P.: Cosa pensa della nostra Letteratura Contemporanea? raffrontata magari con quelle straniere? e dei grandi Premi Letterari tipo il Campiello, il Rèpaci…?
e del rapporto fra poesia e società? fino a che punto l’interesse per la poesia può incidere su questo disorientamento morale (ammesso che lei veda questo disorientamento)? o pensa che ci voglia ben altro di fronte ad una carente cultura politica per questi problemi?



S. A. :  L’arte italiana - e in essa includo anche quella letteraria - può sostenere e vincere qualsiasi confronto: lo ha fatto in passato, e potrà farlo in futuro se non abiurerà, dimenticandole, le proprie radici culturali. Per i grandi Premi, vale quanto ho detto in generale sui Concorsi: cambia l’importanza, entrano in gioco, soprattutto, altri interessi ma - anche tra questi - bisogna distinguere. Sul rapporto tra poesia e società ci sarebbe molto da dire; in particolare su come la poesia viene concepita dalla massa: io ritengo che la stragrande maggioranza delle persone abbia un’idea distorta della stessa (che deriva da abitudini - anche scolastiche - non sempre corrette). Questa mancanza - a mio modo di vedere - influisce a livello culturale e (rispondo così alla successiva domanda) non meno, sul piano morale: il disorientamento c’è, ed è grave, ma sono convinto che, se una speranza esiste, anche politicamente, non possa prescindere dalla consapevolezza poetica della vita.



N. P.: Se potesse cambiare qualcosa nel mondo della poesia o dell’arte in generale, che cosa farebbe? se avesse questi poteri che cosa lascerebbe invariato e che, invece, muterebbe sostanzialmente?



S. A. :  Premesso che non vorrei avere poteri di questo genere, ritengo che, a livello - diciamo così - ufficiale o, pubblico, se vogliamo, molto ci sarebbe da cambiare e, prima di tutto, l’approccio, il contatto fra il poeta (l’artista) ed il fruitore del suo operato. È solo una delle cose che non vanno ma ce ne sono tante altre: come detto, però, non m’interessa disporre di mezzi né di entrare nei particolari. Tengo, però, a precisare che la mia adesione non è qualunquistica per una semplicissima ragione: l’arte (la scrittura, la poesia) muta continuamente, e continuamente resta se stessa; l’uomo - nonostante ne sia l’espressione, il tramite - non è in grado di fare altrettanto.



La sua intervista verrà pubblicata sul mio blog Alla volta di Leucade blog.

La ringrazio per la sua disponibilità.

Nazario Pardini                                                                                                        04/06/2012

3 commenti:

  1. Conoscendo e frequentando da anni Sandro Angelucci, credo di poter correttamente intendere l’apparente contraddizione che affiora dalle sue risposte, laddove dichiara da un lato il nascere della sua poesia dall’osservazione della realtà e dall’altro di sentirsi irresistibilmente attratto da un programma di profonda ricerca interiore. Sono affermazioni che spiazzano chi è abituato – infantilmente oserei dire – a catalogare la poesia (e l’arte) secondo schemi precostituiti, seguendo i quali essa o è di impegno sociale oppure è lirica; o è realistica oppure intimistica; o è sperimentalista oppure tradizionalista; eccetera, mentre la poesia è poesia e basta.
    Con ciò, ovviamente, non intendo escludere la liceità degli aggettivi che connotino una determinata poetica, ma tacciare – questo si – la presunzione di unicità con cui molto spesso le poetiche si presentano, dando l’ostracismo a tutte le altre. Fa bene Angelucci a ricordare che la poesia può trovarsi dovunque. La condizione per cui questo avvenga è che ci sia il poeta in grado di cogliere i lati sottili della vita, ovvero quel senso segreto della vita stessa che deriva dalla dimestichezza con il mistero. Né questa familiarità può venire confusa con la presunzione razionalistica che pretende di afferrare il mistero dall’esterno, evitando di immergersi nelle sue acque rigeneranti ed insidiose.
    La confidenza con il mistero, dunque, è il tratto qualificante di ogni vera poesia. E non è un fuggire dalla realtà, come potrebbe sembrare, ma una penetrazione nella realtà, nel cuore segreto e sfuggente delle cose. La cosiddetta realtà oggettiva non è che un arbitrio riduttivo della soggettiva mente umana. Soggetto ed oggetto si giustificano l’un l’altro, ma non hanno nulla a che fare con la realtà, che è il mistero delle relazioni cosmiche e della comunione universale. Ed ecco l’essenza del mito. La poesia e l’arte hanno sempre a che fare con il mito (e ovviamente parliamo di mito allo stato sorgivo, non di mito decaduto a mitologia, a manierismo favolistico ripetitivo).
    Sta qui l’universalità della poesia. Universalità da intendersi in senso qualitativo e non quantitativo. L’universalità dell’arte non è l’universalità del consenso o del suffragio universale. Il suo linguaggio non si rivolge a tutti, ma ad ognuno. A partire, ben s’intende, dall’ognuno di se stesso, giacché è lì il centro, il mistero del mistero. La comunicazione dell’arte pretende comunione, e questo può avvenire esclusivamente nell’autenticità, ovvero nel dialogo duale dell’artista con se stesso, con la propria Musa o con il proprio demone interiore. Angelucci sa bene che, se si salta, questo primo anello della catena relazionale, va in pezzi l’intera catena e la comunicazione diviene inautentica. Quindi non originale.
    Franco Campegiani

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  2. Forse la caratteristica centrale della poesia è proprio la sua indisponibilità a essere delimitata, etichettata, inchiodata. Non ama le definizioni alle quali sempre si sottrae come un vento inafferrabile. Spazi bianchi lacerati da parole di gioia, dolore, fantasmi, rabbia, amore, impegno sociale, il tutto e il nulla protesi alla rivelazione di un enigma che resta avvolto in un enigma. La voce del caro amico Sandro Angelucci in questa intervista sembra testimoniare, a mio avviso, soprattutto una forte vocazione di ricerca lirica che s’interroga sulle tante eredità poetiche dentro una contemporaneità impoetica, nell’anelito di restituirle un oltre metafisico sovrastante i piccoli destini.
    Sandro Angelucci, infatti, nelle sue opere, indaga il reale con la saldezza della grande tradizione religiosa per giungere all’uomo e, nella limpida catarsi emotiva dell’umana sofferenza o della preghiera, percepirne il mistero e l’essenza divina.

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  3. Franca Alaimo su “Intervista a Sandro Angelucci” di Nazario Pardini



    La ragionata argomentazione e l'affettuosa adesione alla propria vocazione che caratterizzano questa intervista mettono bene in luce la serietà con la quale il poeta Sandro Angelucci lavora intorno alla parola poetica.
    Mi piace evidenziare due punti almeno di questa intervista: la definizione dell'impegno del fare poesia al di là dei contenuti della stessa, come qualcosa che è sua intima sostanza; e la consapevolezza della singolarità di ogni scrittura, che non può prescindere né dalla tradizione né dal rinnovamento, ma che, al di là dell'ampiezza delle letture, deve solo restare fedele a se stessa, poiché altrimenti si cadrebbe nell'imitazione; mi viene da pensare ad una bella metafora del Bembo, che nel discutere la questione del rapporto fra scrittori a lui contemporanei e quelli del passato, diceva che lo scrittore deve essere come un'ape che raccoglie il nettare da vari fiori per poi elaborare il suo miele, la sua aurea sostanza.
    Le domande poste dall'intervistatore toccano punti problematici sui quali sempre gli scrittori vengono chiamati ad esprimere il proprio parere; come certi aspetti e scelte non condivisibili dell' industria editoriale e dei meccanismi dei concorsi, sono cose che sappiamo tutti; e non c'è altro rimedio che la buona volontà e una rieducazione etica; ma , come sottolinea Angelucci, ci sono casi e casi; non servono né l'ipocrisia e nemmeno l'indignazione.
    Adesso un vivissimo complimento all'amico Sandro, di cui sono fedele lettrice ed all'intervistatore che fa conoscere al pubblico il pensiero di una persona di alta dignità morale e letteraria.

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