venerdì 29 giugno 2012

Intervista a Franco Campegiani, di Nazario Pardini


Intervista
A
FRANCO CAMPEGIANI
A CURA DI
 NAZARIO PARDINI

                                                        
N. P.: Quali sono le occasioni della vita che più hanno inciso sulla sua produzione letteraria? quanto di autobiografico c’è nelle sue opere? lei pensa che ci sia differenza fra poesia lirica e poesia di impegno; o pensa che la poesia, essendo un’espressione diretta dell’anima, sia sempre lirica qualsiasi argomento tratti?



F. C.: I dati biografici contano assai poco in poesia, dove si è chiamati a parlare della Vita, non della mia vita, o della nostra. Si deve superare il particolarismo, non certo per amore di astrazione, ma per cogliere il vero ed autentico valore della parte nel cuore dell’universlità. Paradossalmente ciò impone al poeta di scrivere solo per se stesso e al lettore di leggere solo per se stesso. La poesia, infatti, o più in generale l’arte, non parla al cuore di tutti, ma al cuore di ognuno. Sta qui la sua universalità. Superare il soggettivismo, o l’intimismo, è possibile soltanto se l’Io riesce a trascendersi, facendo spazio al Sé, all’essenza di se stesso che dimora dentro di sé. Il primo anello della catena relazionale è la comunione dell’individuo con se stesso. Se si salta questo anello, va in pezzi l’intera catena, in quanto la comunicazione diviene inautentica. Non è sufficiente sostituire l’Io con il Noi per ottenere un livello più universale della scrittura. Il Noi non offre alcuna garanzia di universalità, visto che è pur sempre una delimitazione soggettiva. La comunicazione poetica pretende comunione profonda, e questo non può avvenire ai livelli superficiali dell’Io o del Noi, dove il soggettivismo la fa sempre e comunque da padrone. E’ necessario che l’ego ponga fra parentesi se stesso per fare spazio all’alter ego (anticamente la Musa), immersa nel flusso misterioso dell’Essere e della vita. Siamo ben al di là del lirismo soggettivistico ed autobiografico, come anche al di là dell’impegno sociale o etico-civile. Tutto questo può costituire l’ambito in cui nasce la poesia, ma l’ambito non è che il recipiente deputato a raccogliere le essenze della poesia.



N. P.: Essendo uno degli interpreti principali della poesia e della cultura contemporanea, la sua poetica è in gran parte nota attraverso le innumerevoli recensioni, prefazioni, e note critiche che la riguardano. Ce la vuole illustrare lei direttamente?



F. C.: In realtà non è molto ampio il bagaglio delle note critiche sulla mia poesia, per cui accetto di buon grado il suo invito a parlarne in prima persona. Con buona pace di Kant, ritengo che oggi non si possa più ignorare la cosa in sé e che occorra riprendere contatto con le profonde radici dell’Essere, senza per questo cancellare gli aspetti convenzionali della vita. Mi piacerebbe inoltre avvertire Wittgenstein che non tutto il linguaggio è tautologico o convenzionale, perché l’uomo ha la capacità, a seconda delle esigenze, di pensare non soltanto in fotocopia, ma anche in originale. Quando si abbandona alla mitopoiesi, egli davvero pensa ed opera in originale, giacché il pensiero che gli viene dall’oltre non fa che nominare per la prima volta il mondo. Ma è destino che ogni mitopoiesi si trasformi in mitologia, perché nessun poeta, come nessun uomo, può vivere in un perenne stato di grazia e deve assaporare la disgrazia per poter tornare nella propria grazia creativa. Il nostro pensiero ha bisogno di questa pulsazione. La creatività affiora improvvisa dalle zone segrete del nostro Essere per rivelare a noi stessi il senso arcano della vita. Sta qui la nascita del mito. Il quale inesorabilmente decade poi a fabula ripetitiva in attesa di nuove stagioni sorgive. La mia poetica punta a questo riscatto, a questo risveglio che si fa carico dell’oblio. E’ aurorale per certi aspetti e crepuscolare per altri. E’ elementare e problematica nello stesso tempo, per cui non ha nulla a che fare con lo spontaneismo espressivo.



N. P.: Quali sono le letture a cui di solito si dedica e quale il libro che più le ha suscitato interesse? e quindi predilige? perché?



F. C.: Sono profondamente colpito dal racconto edenico e mi catturano le culture native, così come quelle arcaiche, dove c’è un affiorare sorprendente di miti. Amo la cultura presocratica, antecedente la nascita del razionalismo antico. Mi avvince il mito omerico di Odisseo e quello dantesco del viaggio interiore. Mi affascina la poetica francescana per i contenuti catartici e verginali che propone. Nella letteratura contemporanea mi attraggono due poeti radicalmente diversi e opposti tra di loro, ma entrambi legati ad una visione a parer mio elementare della vita: Neruda, da un lato, per gli aspetti terragni e carnali della sua poesia; Tagore dall’altro, per gli slarghi e gli orizzonti cosmici del suo cantare. Materia e spirito, cielo e terra: polarità diverse ma allineate tra di loro. Al di fuori dell’ambito poetico, prediligo la letteratura scientifica che si avvicina alla spiritualità e viceversa, cercando il trait d’union, più che la cesura tra i due poli (anche se la cesura rimane). Un titolo emblematico? “Il Tao della fisica”, di Fritjof Capra. C’è un’ampia letteratura, diffusa soprattutto all’estero, su questo attualissimo capitolo di studi. Tuttavia il libro che prediligo più d’ogni altro ed al quale dedico le mie maggiori e migliori attenzioni è quello interiore, nemico acerrimo di ogni intimismo.



N. P.: Fino a che punto le letture di altri autori possono contaminare uno stile di uno scrittore? e se sì, in che modo?



F. C.: Io credo nell’innatismo, non nello spontaneismo. La differenza è fondamentale giacché l’innatismo dà voce ai principi che vengono dall’oltre, mentre lo spontaneismo dà voce ai pregiudizi costruiti nel laboratorio storico-culturale. C’è un immenso lavoro da fare su se stessi per poter capire il proprio mondo interiore, ma se non si fa questo, la prospettiva è una soltanto: di venire rubati a se stessi e fagocitati sul piano culturale. Affinché le letture siano fruttuose, non si deve pertanto assorbire passivamente il pensiero altrui, ma bisogna cercarne il confronto con il proprio più autonomo pensiero. E dove risiede questo intimo pensiero? Socrate parlava di  maieutica, ovvero dell’arte di far partorire, di tirar fuori (ex-ducare) ciò che nell’individuo esiste già in nuce come valore. Va da sé che il problema non si pone per l’apprendimento della matematica e della geografia (ma potremmo anche fare altri esempi), in quanto questi non sono valori, bensì materie che si apprendono da chi già le conosce per averle studiate prima di noi.



N. P.: Che cosa pensa della poesia innovatrice, quella che tenta sperimentalismi linguistici? quella che si contrappone e rifiuta  ogni ritorno al passato? o, per meglio intenderci, quella che si contrappone ad un uso costante dell’endecasillabo, o a misure dettate da una rigida metrica?



F. C.: Non mi piacciono i pregiudizi. Di nessun genere, per cui pongo innovazione e tradizione sullo stesso piano. La poesia può nascere dovunque, se c’è il poeta in grado di cogliere i lati sottili della vita. Per me stesso rifuggo da una poesia troppo ricercata, con paroloni difficili, funambolismi stilistici ed elucubrazioni mentali. Tuttavia so bene che anche in quei campi può affacciarsi e si affaccia l’autentica poesia, come rivelazione gratuita ed improvvisa, non richiesta, di un qualche segreto senso della vita. Ciò che conta, a parer mio, è che non ci sia manierismo e che la poesia non venga costruita a tavolino. E’ fondamentale che venga rispettato l’impulso inconscio di partenza, rispetto al quale scrivere di getto sarebbe l’ideale. Essendo questo, tuttavia, un dono assai raro, ben venga il labor limae. Purché il fine sia di avvicinare l’espressione formale agli originari modelli ispirativi, e non al contrario di stravolgerli con manipolazioni successive.



N. P.: Cosa pensa dell’editoria italiana? di questa tendenza a partorire antologie frutto di selezioni di Case Editrici? di questi innumerevoli Premi Letterari disseminati per tutto il territorio nazionale?



F. C.: C’è una diatriba che si trascina da anni, riguardante la trasparenza dei premi letterari, le camarille, i giochi di potere delle Case editrici, eccetera. Tutte cose che sappiamo e che appartengono purtroppo all’andazzo generale dei tempi attuali. E tuttavia, a dispetto dell’andazzo, ci sono eccezioni di serietà. Si dirà che le eccezioni confermano la regola, ma in ogni caso non si può fare d’ogni erba un fascio. E soprattutto non si deve smarrire la fiducia di poter reagire a quest’andazzo, dando testimonianze dirette ed in prima persona di rigore professionale e di moralità. 



N. P.: Certamente sarà legata ad una sua opera in particolare. Ne parli, riferendosi più ai momenti d’ispirazione, ai tempi di scrittura, alla scelta lessicale, alla revisione, più che ai contenuti. Che pensa della funzione del memoriale in un’opera di un poeta? e alla funzione della realtà nei confronti di un’analisi interiore?



F. C.: “Ver sacrum” è l’ultimo mio testo poetico, edito da Tracce Edizioni, ancora fresco di stampa. I tempi di scrittura sono stati alquanto lunghi: più di un decennio, alternandosi a sviluppi filosofico-metafisici del mio pensiero, che tra non molto vedranno la luce e che fanno seguito a La teoria autocentrica edita da Armando nel 2001. Ver sacrum può a tutti gli effetti essere considerato il contrappunto poetico di quella riflessione filosofica. Della quale, tuttavia, non è figlia, ma con cui nasce in parto gemellare. Identica è la matrice misterica delle due vie, una immaginifica e l’altra concettuale, indipendenti l’una dall’altra, ma ricche senz’altro della consanguineità. La struttura formale e lessicale delle poesie si è rinnovata e la costruzione del verso si è fatta più distesa, pur senza ridondanza alcuna, mentre la ricerca filosofica ha tratto giovamento dalla poesia, fino a configurarsi come una vera e propria teoria della creatività. Non sto parlando di teoria estetica, aspetto parziale dello studio filosofico, ma di teoria della creatività, proposta filosofica integrale. Che ruolo può giocare la memoria in questa visione del mondo, e più in generale nell’opera di un poeta? Fondamentale, direi. Purché non sia intesa come ricordo del passato, bensì come risveglio anamnestico di una coscienza universale caduta in oblio. Quando l’analisi interiore conduce a questo risveglio, ciò che si ottiene è un rinnovamento dell’intero campo della realtà. La quale nasce e rinasce in continuazione proprio a partire dal mito.



N. P.: Cosa pensa della nostra Letteratura Contemporanea? raffrontata magari con quelle straniere? e dei grandi Premi Letterari tipo il Campiello, il Rèpaci…?
e del rapporto fra poesia e società? fino a che punto l’interesse per la poesia può incidere su questo disorientamento morale (ammesso che lei veda questo disorientamento)? o pensa che ci voglia ben altro di fronte ad una carente cultura politica per questi problemi?



F. C.: Non voglio ripetere quanto già detto a proposito dell’Editoria e dei Premi Letterari. La nostra è un’età di crisi e di mutazioni epocali e la letteratura (nazionale ed internazionale) non può non risentire di questo clima. A mio parere stiamo oggi vivendo nel tramonto dell’antropocentrismo, di quella cultura fondamentalmente razionalistica ed empiristica nata nella Grecia antica e tesa allo strappo dell’uomo dall’ordine naturale e cosmico al fine di garantirgli un autonomo destino. Oggi si deve comprendere che il destino dell’uomo e della terra è unitario. L’essere umano deve ristabilire quel patto di alleanza con le forze naturali e cosmiche che era proprio degli albori e che  pretende da lui di far girare i propri meccanismi psichici secondo ingranaggi universali. Non è un problema politico, come potrebbe sembrare. Politica ed antipolitica non caveranno un ragno dal buco. E’ dall’individuo che bisogna ripartire, e deve esser chiaro che lui soltanto può ricostruire se stesso,  nessun altro può farlo per lui. Fondamentale in questo processo sarà lo sforzo mitopoietico, l’impegno a farsi nuovamente illuminare dai Celesti per nuove stagioni aurorali del mito. In questo senso – senza alcuna retorica - la poesia salverà il mondo. Come del resto lo salva da sempre e lo ha già mille volte salvato.
   


N. P.: Se potesse cambiare qualcosa nel mondo della poesia o dell’arte in generale, che cosa farebbe? se avesse questi poteri che cosa lascerebbe invariato e che, invece, muterebbe sostanzialmente?



F. C.: Non mi pongo il problema, se il riferimento è a poteri politici che non mi interessa assolutamente di avere. Ciò che mi piacerebbe, avendone le capacità, è invece di centuplicare i miei sforzi letterari nella direzione sopra affermata.

La sua intervista verrà pubblicata sul mio blog Alla volta di Leucade blog.

La ringrazio per la sua disponibilità.

Nazario Pardini                                                                                                        18/06/2012

2 commenti:

  1. Rispondere come ha risposto Franco Campegiani ad un'intervista letteraria (lasciatemelo dire, vista la fratellanza di pensiero che, con il tempo, ci ha sempre più uniti) non sarà usuale ma dimostra, inequivocabilmente, in che modo si possa parlare di poesia reperendo nella stessa le sue origini. Mi spiego: a Campegiani - sostanzialmente questo si evince - non interessa disquisire sugli argomenti di ordine "formale", egli vuole, per dirlo con le sue stesse parole, "superare il particolarismo, non certo per amore di astrazione, ma per cogliere...l'autentico valore della 'parte' nel cuore dell''universalità'..."Paradossalmente - sostiene - il poeta è deputato a scrivere solo per se stesso" ma è proprio così facendo che riesce davvero a comunicare: non con tutti, però,(questo, forse, spetta ad altri) ma con 'ognuno', non importa se diversamente, dei suoi interlocutori.
    Era una premessa essenziale. Venendo alle domande, mi piace sottolineare ciò che afferma sulla contaminazione, che non può esistere laddove "esiste già 'in nuce' come valore" ciò che si apprende; il fatto di porre "innovamento e tradizione sullo stesso piano" perché non sia il manierismo il principale carnefice dell'espressione poetica; il parto gemellare della sua poesia e della sua riflessione filosofico-esistenziale, la loro indipendenza nella 'consanguineità'; mi piace rilevare un aspetto di estrema attualità, del quale tutta l'arte ha il dovere etico di farsi carico: "Oggi si deve comprendere che il destino dell'uomo e della terra è unitario": una presa di coscienza non più derogabile e vitale per chi si nutre (leggi poesia) della terra stessa. E, infine, voglio unirmi - fuggendo, come l'amico, da ogni retorica, a quello che più di un auspicio, anche per me, è una certezza: "la poesia salverà il mondo" - certo - "come del resto lo salva da sempre e lo ha già mille volte salvato".

    Sandro Angelucci

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    1. Conosco Franco da molti anni, ma non mi era mai capitato di leggere una sua intervista.
      Sono rimasta profondomante colpita dalla sua capacità di essere vero. Le persone con prestigio pari al suo di solito si avventurano in risposte tese a mettere in risalto gli aspetti del proprio pensiero.
      Franco, grande e, come tutti i veri grandi, profondamente umile, ha risposto attenendosi alla linea di pensiero e di vita che persegue da sempre e che, da molti anni, ho l'onore di seguire affascinata. La sua "Teoria autocentrica"
      che rappresenta la culla del sentire, del poetare, di dare una svolta epocale alla filosofia, è il punto di partenza e di arrivo del vivere del mio amico. La mitopoiesi che comporta l'uomo finalmente libero di esprimersi attraverso la propria creatività è alla base di una poetica universale, che contiene effettivamente, elementi spontanei, ancestrali ed elementi desunti dall'esperienza filosofica, che si lega al pensiero eracliteo per poi prendere il volo. Franco ha il dono di scrivere versi che vanno al di là del soggetivismo e scolpiscono l'armonia dei contrari nelle anime dei lettori. Io ho imparato da lui quanto il male possa essere accettato e 'compreso' in virtù del bene. E' necessario al nostro vivere, così come il buio è necessario alla luce. E il concetto del vivere in originale, che è diventato appannaggio dell'individuo creativo, che diventa l'unico vero realista, tra uomini che accettano di essere omologati, credo sia la punta dell'iceberg del suo pensare. Ci induce a capovolgere i punti di vista... a visitare territori di conoscenza che sono dannatamente veri e dannatamente difficili da accettare.
      Franco Campegiani è un amico che con i suoi concetti filosofici, le sue liriche straordinarie e il suo vissuto, considero un Maestro di vita! Maria Rizzi

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